La destra avanza
da FUORICOLLANA (Redazione)
La destra avanza. In Europa, certo. Ma non solo. Le prossime elezioni presidenziali e politiche negli Usa saranno un altro test importante, da cui potrebbe derivare un’ulteriore spinta in avanti per la composita area della destra internazionale.
Ma di quale destra stiamo parlando? L’attenzione degli osservatori si è legittimamente concentrata – in occasione delle elezioni per il Parlamento europeo, delle successive politiche francesi, delle regionali tedesche e per ultimo delle votazioni per il Nationalrat austriaco – sulle formazioni che per comodità e pigrizia intellettuale si è soliti di volta in volta denominare “sovraniste”, “populiste”, “radicali”. Come in precedenti circostanze, anche in questo caso la maggior parte degli osservatori mainstream è passata dall’allarme per “l’ondata nera” annunciata dai sondaggi, al sollievo, successivo al voto, perché l’avanzata elettorale delle diverse formazioni di destra non ha travolto gli equilibri politici di fondo, scongiurandone l’ingresso nell’area di governo. Come avvenuto in precedenza, anche questa volta il problema rischia in questo modo di essere archiviato. In attesa di riscoprirlo alla prossima occasione.
A noi pare invece che sia necessario mantenere costante l’attenzione e soprattutto non perdere di vista la continuità del processo di spostamento a destra dell’asse politico e culturale, che data ormai da diversi decenni e di cui gli ultimi successi elettorali non sono che l’ennesimo segnale. Senza sottovalutarne contemporaneamente la spettacolare accelerazione, avvenuta a partire dal 2017-2018. Fino a quel periodo in effetti quasi in tutti i paesi dell’Europa occidentale la presenza di queste formazioni era nulla o del tutto trascurabile. Solo osservando il fenomeno nel suo insieme, dunque, è possibile apprezzarne la complessità e lo sviluppo diacronico. Oltreché, naturalmente, comprenderne i punti di forza e le contraddizioni.
Questo numero di Fuoricollana si propone perciò, ovviamente, una sorta di fenomenologia della destra, attraverso una ricognizione delle caratteristiche e delle dinamiche politiche e culturali nei contesti nazionali più importanti (Mario Barbi per la Germania, Anna Maria Lecis Cocco Ortu, per la Francia, Domenico Cerabona Ferrari per UK). Il tutto sempre con un’attenzione particolare a cogliere i nessi esistenti tra l’estendersi dell’influenza politica delle destre e i cambiamenti del sistema istituzionale. Questo rapporto è al centro in particolare del contributo di Claudio De Fiores, che prende in esame le riforme istituzionali del governo Meloni e l’ideologia costituzionale delle destre, fatalmente attratte dai modelli presidenzialistici come risposta regressiva alla crisi di rappresentanza della governabilità neoliberale.
Assieme a questa attenzione all’evoluzione delle destre è però nostro intento esaminare le ragioni che hanno favorito l’estensione della loro influenza elettorale. E tra queste la più rilevante è certamente rappresentata dall’atteggiamento dei partiti della destra conservatrice e del centro, che hanno nel corso del tempo assunto in modo sempre più marcato l’agenda politica della destra radicale, nell’illusione di poterne riassorbire e normalizzare le spinte. Gli esempi sono in questo senso numerosi. Tra questi il più importante riguarda il tema delle politiche migratorie e di sicurezza. La legge Darmanin sull’immigrazione ne è forse l’episodio più eclatante e ha rappresentato una sorta di anticipazione, sul piano delle policy, della convergenza tra centro macroniano e destra lepenista. La quale non a caso si è intestata l’ispirazione ideologica del provvedimento. Analogo discorso si potrebbe fare, peraltro, per l’Italia e la Danimarca, con l’aggravante in questo caso che i protagonisti di questa emulazione sono stati partiti socialdemocratici e di centro sinistra.
Sta di fatto che questa deriva ha prodotto risultati opposti a quelli sperati: anziché sottrarre consensi alla destra radicale, l’assunzione della sua agenda politica e delle sue parole d’ordine ha prodotto una normalizzazione a livello di senso comune diffuso delle sue dottrine. Sul piano elettorale tutto ciò si è tradotto in un’ulteriore crescita delle destre, che infatti sono riuscite a svuotare elettoralmente i partiti di centro. Quello che oggi viene spesso superficialmente presentato come un cedimento del cordone sanitario dei liberali e dei conservatori nei confronti della destra estrema, è in realtà il prodotto di un’omologazione culturale e politica a cui è seguita una sorta di osmosi nell’insediamento sociale ed elettorale. Noi italiani, in questo senso, siamo stati dei precursori del fenomeno. Che ha visto una forza di dichiarata ispirazione liberale (FI) – ma in realtà con tratti marcatamente populisti, autoritari e di destra – farsi mallevatrice della creazione di un’area culturalmente omogenea, fortemente ispirata ai valori del neoliberismo, del primato dell’impresa, della spoliticizzazione e della verticalizzazione plebiscitaria. Preparata, quest’ultima, dalla marginalizzazione delle istituzioni della partecipazione democratica e della rappresentanza parlamentare. Ciò spiega molto meglio dell’assenza di scrupoli morali e dell’abilità manovriera della Meloni la disinvoltura con cui il governo a trazione Fratelli d’Italia ha fatto propria l’agenda Draghi e le compatibilità delle regole finanziarie europee.
Altrove, invece, questo processo è passato attraverso una crescita del protagonismo della destra radicale, o addirittura attraverso la radicalizzazione in senso autoritario di formazioni originariamente liberal-conservatrici (è il caso di Fidesz in Ungheria). Sta di fatto che ovunque ciò è avvenuto (in questa casistica va incluso il governo Netanyahu), si è accompagnato ad un tentativo di mutamento degli equilibri istituzionali inteso a accentuare la verticalizzazione della catena di comando e a indebolire le istituzioni di garanzia.
Vi è però un ultimo aspetto di questa complessa dinamica che non deve essere dimenticato. Esso riguarda l’effetto che le politiche neoliberali hanno prodotto soprattutto sugli strati sociali più deboli ed esposti alle conseguenze negative della globalizzazione capitalistica e delle politiche mercantilistiche dell’Europa dell’ortodossia ordoliberale. I cui esiti distruttivi della coesione sociale sono un potenziale amplificatore della miscela di liberismo nazionalistico, corporativismo, tradizionalismo valoriale che Donato Caporalini analizza nella sua riflessione sul libro di J.D. Vance. A ciò vanno aggiunte le assurde e controproducenti posizioni relative alla guerra in Ucraina. I cui effetti in termini di ridislocazione dell’elettorato sono stati ben visibili nel caso della Sassonia, della Turingia ma anche in Brandeburgo. Ma mentre l’elettorato mostra – anche con il voto a favore di una parte della destra – la propria crescente contrarietà verso le posizioni atlantiste e belliciste, il Piano Draghi vorrebbe addirittura mettere al centro del rilancio della svigorita economia europea l’investimento negli armamenti. Omettendo, come giustamente rileva Vicenzo Comito nel suo contributo, qualsiasi assunzione autocritica di responsabilità per il declino europeo avvenuto mentre egli ricopriva le più alte cariche finanziarie e politiche in Europa.
Resta semmai da approfondire la ricerca attorno alla capacità delle parole d’ordine della destra di interpretare il malessere e il senso di frustrazione degli strati popolari, molto più di ciò che riescano a fare le formazioni che si dichiarano di sinistra. Una risposta radicale a questo tema viene dal contributo di Alessandro Volpi, che dietro alla gara elettorale tra Harris e Trump legge la rivalità di due fazioni del capitalismo finanziario e non una vera alternativa politica tra destra e sinistra. Un altro contributo lo si può trovare nella lezione d’autore di Carlo Galli, che invece vede nell’approccio all’attività di governo di FdI un ibrido di successo, per ora, tra l’individualismo privatistico e il micro-corporativismo di ascendenza neoliberista, ormai assimilati dal partito di Meloni, e una gestione plebiscitaria, ideologica, polemica e repressiva della crisi economica e sociale.
Riferendosi a Trump, Nancy Pelosi lo definì qualche mese fa «la creatura che si è insinuata nella Casa Bianca». Non è così. Trump e la destra, che si sta agglutinando in Occidente con materiali di diversa origine, non sono degli alieni; sono piuttosto il prodotto della crisi di questa società, della sua democrazia e del tradimento delle promesse di giustizia e di pace. Una situazione, come scrive Fabio Frosini nel suo contributo, che fa emergere nella reazione dei ceti popolari alla minaccia rivolta contro il loro presente e il loro futuro, significative analogie con il contesto che si produsse dopo la Grande guerra; anche allora una crisi sistemica indice di uno spostamento a livello mondiale dell’egemonia.
Abbiamo cercato di scavare dentro il ventre che sta partorendo questa nuova realtà. Ma è un compito, ne siamo certi, che richiede ulteriori sforzi. Cercheremo di esserne all’altezza, certi della sua imprescindibilità.
FONTE: https://fuoricollana.it/la-destra-avanza/
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