L’apparente paradosso di un nazionalismo esterofilo e anti-italiano
di CORRADO ALVARO
Non bisogna ignorare che se in quegli anni [del Ventennio, ndr] il teatro nazionale fu inconsistente, la letteratura timida e oziosa, la dittatura aveva creato un fenomeno suo, e cioè la fuga dalla realtà nazionale, movimento centrifugo proprio di tutte le dittature (…)
A eccezione di non molti libri, e neppure fondamentali, gran parte di quello che si scriveva in America, Francia, Russia, Inghilterra, fu da noi tradotto, stampato, venduto, aiutando gli editori e gli importatori di libri che rispondevano alle imperiose esigenze del mercato.
Così agli scrittori italiani fu vietato, ed essi stessi si vietarono, di occuparsi di fatti seri, di movimenti seri, di sentimenti veri; teatro e letteratura stranieri furono ammessi nella circolazione delle idee. Quasi tutto fu tradotto. L’Italia chiusa e imbavagliata dalla dittatura, poté coltivarsi o corrompersi a suo talento, con la produzione dell’ingegno o della stupidità stranieri. Basta dare un’occhiata ai cataloghi dei nostri grandi editori grandi e piccoli. Perfino gli scrittori antifascisti americani e inglesi furono introdotti senza difficoltà, e ancora oggi ci si domanda come certi libri, stampati da qualche animoso editore, potessero circolare in Italia (…)
E’ questo un fenomeno frequente nella dittature, fuggire dai limiti della nazione, e disprezzare, alla fine, se stessi. Ma uno dei paesi meglio informati d’Europa fu proprio l’Italia. La mancanza di solidarietà nazionale, il tedio fra cittadini dello stesso sangue, portavano a una fuga dalla tradizione e dall’ambiente italiano. Perciò il fascismo non fu, nella cultura, quel fenomeno di bigottismo nazionalista come molti vogliono credere (…)
Perfino tutto quello che di piccolo borghese nasceva sotto la penna degli scrittori europei più dozzinali, fu meticolosamente importato da noi; la rivoluzione piccolo borghese si affacciava sull’Europa e l’America, facendosi un modello di quella vita e di quei pensieri. Ditemi un solo nome di scrittore di qualunque paese, di ogni tinta, mediocre o eccellente, che non abbia avuto i suoi onori nell’Italia dei ventidue anni, prosperante nella fiera delle vanità, delle ambizioni, delle fortune, e perciò tendente a tutto l’edonismo e perfino al rivoluzionarismo dilettantesco dei letterati, degli arricchiti, dei borghesi in cerca di emozioni. Uno scrittore comunista francese ebbe a confessare con malcelato disprezzo che egli nell’Italia del regime aveva avuto più elucubrazioni critiche che nel suo stesso paese (…)
Ci fu dunque il fenomeno incredibile d’una borghesia legata alla politica e all’imperialismo italiano, e nello stesso tempo aspirante a uscire da quella prigione; la più stretta bigotteria formale e la più metodica fornicazione sostanziale, l’interesse a quello stato di cose e la fuga verso altri mondi (…)
Il costume stesso non fu più quello italiano, ma un miscuglio di modi derivati, all’italiana, dai libri, dalle riviste, dal cinema, dal teatro dei paesi più ricchi e liberi, America e Inghilterra. Declinava l’influsso francese: la grande attrazione erano i paesi anglosassoni. Lo stesso capo di tutto aspirava a un’altra nazione, era scontento di essere appena il padrone dell’Italia, troppo piccolo teatro a lui; e poiché molti ce lo invidiavano, egli ebbe a dire più volte, come ripeteva il suo contorno, che era “un peccato che egli avesse a governare l’Italia e non una nazione moderna, ricca, influente”.
[da L’Italia rinunzia?, 1945]
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