Amici del futuro: Jean-Claude Michéa.
J.C. Michéa, Il vicolo cieco dell'economia, Elèuthera
È bello scoprire di non essere soli nell'universo. Solo da poco ho avuto occasione di leggere questo piccolo libro del filosofo francese Michéa, uscito in Francia nel 2002 e in Italia nel 2004, e vi ho trovato una serie di riflessioni in forte assonanza con quanto Bontempelli ed io abbiamo elaborato negli ultimi anni. Il fatto che autori diversi arrivino in maniera del tutto indipendente a conclusioni simili è un buon indizio del fatto che certi concetti stanno facendosi strada.
Il punto di partenza di Michéa è la necessità di una critica radicale della nostra organizzazione sociale, le cui contraddizioni sono evidenti negli stessi discorsi ideologici ufficiali. Infatti l'apparato ideologico dominante ci presenta contemporaneamente queste due “narrazioni”: da una parte lo sviluppo tecnologico e scientifico ci offre ogni giorno nuovi progressi e nuove potenzialità, promettendo a breve l'avvento di un mondo in cui l'umanità realizzerà i suoi sogni secolari, e anche i sogni che non aveva mai sognato; dall'altra parte, appena si arriva alle “cose concrete”, il discorso dominante cambia di colpo e ci viene ricordato che abbiamo vissuto finora al di sopra dei nostri mezzi, che occorre rinunciare a diritti che si erano creduti acquisiti, che un lavoro stabile, una pensione dignitosa, cure mediche e istruzione universali sono ormai privilegi in contrasto con le leggi dell'economia. Come osserva Michéa,
“suppongo non sia necessario avere un carattere particolarmente ombroso o incontentabile per arrivare alla conclusione che un sistema sociale che ha bisogno di favole di questo genere per legittimare le proprie modalità di funzionamento reali sia ingiusto e inefficace nel principio stesso, e proprio per questo imponga una critica radicale” (pagg.12-13)
La radicalità della critica di Michéa investe il capitalismo ma anche i suoi oppositori, perché, dopo due secoli di esistenza della sinistra, cioè della “parte sociale” che raccoglie gli oppositori al capitalismo, occorre ovviamente chiedersi
“come può essere (..) che un movimento storico di tale portata non sia mai riuscito a rompere nella pratica l'organizzazione capitalistica dell'esistenza?”(pag.13)
La domanda è ovviamente fondamentale. La risposta di Michéa è che la sinistra era ed è partecipe dell'universo ideologico del Progresso e della Modernizzazione che è appunto quello del capitalismo. In questo modo la sinistra si è certo conquistata dei meriti nella fase delle lotte per l'emancipazione da rapporti sociali che comportavano privilegi e pregiudizi degradanti per l'essere umano. Ma oggi quella fase è finita, e la sinistra appare del tutto subalterna a un capitalismo che ha invaso ogni ambito dell'esistenza umana, trasformandola secondo le proprie esigenze di valorizzazione. Come nota acutamente Michèa
“la peggiore delle illusioni in cui oggi può cullarsi un militante di sinistra è quindi quella di continuare a credere che quel sistema capitalista che egli afferma di combattere costituisca in sé un ordine conservatore, autoritario e patriarcale, i cui pilastri fondamentali sarebbero la Chiesa, l'Esercito e la Famiglia. Se si confronta questa prospettiva delirante con ciò che abbiamo realmente sotto gli occhi, ci si rende conto che poggia su una confusione micidiale fra le differenti figure proprie allo spirito borghese (…) e allo spirito del capitalismo” (pag.30)
Lo “spirito del capitalismo” di cui parla Michéa non ha ovviamente nulla di conservatore, perchè ogni aspetto della vita umana deve poter essere manipolato e cambiato, se ciò è richiesto dalle necessità dell'accumulazione di plusvalore. La sinistra è oggi totalmente subalterna a questo meccanismo, e questo per la sua essenza di fondo, e non per incapacità o tradimento dei gruppi dirigenti. Ma dove trovare allora una via d'uscita? Michéa la ricerca negli scritti di intellettuali come George Orwell e Christopher Lasch. Non a caso, due autori non facili da classificare secondo il criterio di destra/sinistra. Lasciando da parte per il momento la discussione di Lasch (che speriamo di riprendere in un'altra occasione), l'idea fondamentale che Michéa riprende da Orwell è quella di “common decency”, che Orwell esprime nel modo seguente in una lettera citata nel libro di Michéa:
“Siamo semplicemente arrivati a un punto in cui sarebbe possibile attuare un miglioramento reale della vita umana, ma non ci riusciremo se non ammettendo l'indispensabilità dei valori morali dell'uomo comune (without the recognition that common decency is necessary)” (pag.57)
Per Michéa la common decency di Orwell è, mi par di capire, l'etica comunitaria e solidaristica dei ceti popolari, diffidente verso il culto del denaro e del successo a tutti i costi, etica che Orwell aveva avuto modo di incontrare nei ceti popolari inglesi del suo tempo.
La proposta della common decency orwelliana come base di un socialismo liberato finalmente dal mito del Progresso e della Modernizzazione, e capace appunto per questo di combattere davvero il capitalismo odierno, è certo degna di attenzione. Se mi è permessa una nota pessimistica finale, ho però il sospetto che quei “valori morali comuni” cui Orwell faceva riferimento siano oggi in crisi anche fra i ceti subalterni, proprio per la “compiuta pervasività” del capitalismo odierno, e che l'appello ad essi non possa quindi sperare di radicarsi in comunità esistenti nei fatti, ma debba essere inteso come l'invito alla costruzione di modi di vita collettiva alternativi agli attuali, e, appunto, tutti da costruire (o da ricostruire). Per questa costruzione o ricostruzione, credo saranno di grande aiuto le riflessioni lucide, profonde e ben scritte di Michéa.
(Marino Badiale)
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