Il rimedio peggiore del male
Il rimedio peggiore del male
di Luciano Del Vecchio
Nelle moderne società democratiche spesso si è indotti a considerare la democrazia come equivalente alla rappresentanza e viceversa, perché ignorare il principio di rappresentanza creerebbe difficoltà insormontabili per eleggere e formare i governi. Ma nella storia delle idee i grandi teorici della rappresentatività non ritenevano ovvia l’equivalenza, anzi, consideravano democrazia e rappresentanza inconciliabilmente contrapposte. Era questa l’opinione di Rousseau, secondo il quale il popolo non stipula nessun contratto con il sovrano; esso è il sovrano che rappresenta se stesso, titolare unico del potere legislativo che governa tramite il principe, che è un esecutore e con il quale i rapporti sono regolati dalla legge. Dal momento in cui il popolo elegge dei rappresentanti, diventa schiavo, rinuncia alla sovranità che, per Rousseau, è inalienabile, perciò qualsiasi delega è un’abdicazione.
Dunque, il sistema rappresentativo delle democrazie liberali, come soluzione di ripiego, non solo non esaurisce il principio democratico, ma oggi è anche degenerato. Il rappresentante, cui il cittadino realisticamente delega il potere, da semplice incaricato a esprimere e attuare la volontà generale si trasforma, per il solo fatto d’essere stato eletto, in un “prescelto” quasi divinamente chiamato a governare secondo la sua volontà e non più secondo quella dei suoi elettori. Un tralignamento che ben presto fa del ceto politico un’oligarchia di professionisti che difendono i loro interessi, ai quali si aggrega, oggi, una cerchia di “esperti”, di alti funzionari, di tecnici, di banchieri, non eletti ma nominati o cooptati da chi, per carica istituzionale, può decidere di farlo. E gli uni e gli altri s’interscambiano i ruoli in una generale e voluta commistione che comporta una totale irresponsabilità politica.
Come in passato, questo sistema continua a suscitare critiche dirette (o mal dirette) contro il parlamentarismo e ad alimentare dibattiti sul “deficit democratico” e sulla “crisi della rappresentatività”. In queste discussioni viene posto il problema della democrazia rappresentativa, assumendo a volte premesse e suggerendo rimedi – a nostro avviso – non molto convincenti, o addirittura controproducenti ai fini della soluzione del problema. “La crisi dello Stato-nazione, dovuta chiaramente alla mondializzazione della vita economica e al dispiegamento di fenomeni di importanza planetaria, suscita dal canto suo due modi di superamento: dall’alto, con vari tentativi miranti a ricreare a livello sovranazionale una coerenza e un’efficienza nella decisione che permetterebbero, al meno in parte, di pilotare il processo della globalizzazione; dal basso, con la riacquistata importanza delle piccole unità politiche e delle autonomie locali". Queste due tendenze, che non solo non si oppongono, ma si completano, implicano entrambe che si ponga rimedio al deficit democratico che attualmente si può constatare” (De Benoist, Democrazia rappresentativa e partecipativa). Fonte: Barbadillo.)
C’è da osservare che queste visioni peccano per lo meno di eurocentrismo, o comunque ritraggono la situazione di stati soggetti al dominio nordamericano. Non sembra, infatti, che in altre parti del pianeta l’idea di Stato o di Nazione sia in crisi, ma al contrario sembra conoscere un inaspettato rigoglio, forse proprio come reazione antiglobalista, su basi storico-culturali (Russia), socio-politiche (America Latina), se non addirittura religiose (Califfato). Che le aspirazioni nazionali fossero il maggior ostacolo al piano di colonizzazione mondialista ne era pienamente convinto Zbigniew Brzezinski, politologo e consigliere ascoltatissimo di Casa Bianca e Pentagono: “La Russia è rimasta attaccata all’idea di nazione, che risveglia sentimenti di indipendenza e orgoglio. Per piegare la Russia va scardinata l’idea di nazione” (L’ultima chance). Va da sé che, se lo scopo è piegare un qualsiasi “stato canaglia”, l’idea di nazione e di unità nazionale vanno scardinate presso qualunque popolo che osi mostrarsi indipendente e orgoglioso. La rimozione consiste solitamente nel riservare allo stato canaglia il trattamento di balcanizzazione forzata, lo spezzettamento in piccole unità politiche divise artatamente da fedi religiose, o appartenenze etniche, o diversità linguistiche.
Dunque si dà per scontata la crisi dello Stato-nazione (il che per l’Europa può essere vero, ma non del tutto) lì dove appunto s’intende distruggere lo Stato. E se ne dà per certo il superamento, dall’alto e dal basso, come rimedio al deficit democratico, attribuendo indirettamente allo Stato la crisi di rappresentatività. Ma noi sappiamo che, sul piano storico e soprattutto in Europa, soltanto all’interno degli spazi nazionali si è potuta affermare la democrazia politica e sociale. Soltanto in una dimensione nazionale sono nate storicamente le Costituzioni democratiche che riconoscono i diritti fondamentali del cittadino; e questi diritti, solo all’interno di frontiere statali, si sono evoluti da giuridicamente formali in diritti sostanziali ispirati a un’idea di democrazia sociale. Fuori dallo Stato non si registra nessuna delle realizzazioni che hanno consentito a partiti e sindacati di difendere i diritti fondamentali non dei soli lavoratori ma dell’intera comunità dei cittadini. E per il futuro, solo dentro uno Stato le grandi istituzioni collettive (partito, sindacato, esercito, scuola, ecc.) ora in corso di distruzione e scioglimento da parte delle elite eurounioniste, possono sperare di riconquistare il ruolo storico d’integrazione e intermediazione sociale. Non solo la democrazia rappresentativa, ma quella partecipativa nella forma più piena è garantita dallo Stato. Laddove è nello spazio indistinto del mercato europeista e globale che si riducono le istituzioni e gli spazi pubblici d’iniziativa e di responsabilità dei cittadini.
Il principio di democrazia, che in una dimensione territoriale è sancito dalle costituzioni e presidiato dalla comunità dei cittadini, è sfrontatamente ignorato negli organismi internazionali fino ai massimi livelli: all’ONU non più di cinque dita di mano decidono le sorti del mondo. Questo è ancora più vero per l’Unione europea, organismo sovranazionale “commissionato”, cui si vorrebbe affidare il compito di far superare dall’alto il deficit democratico, riconoscendogli “meriti di coerenza ed efficienza nelle decisioni politiche, che permetterebbero, almeno in parte, di pilotare il processo di globalizzazione". Questo è un compito che l’Unione europea non può né vuole svolgere, né in parte né del tutto, poiché essa stessa è l’espressione del processo di globalizzazione, il gradino, la faccia più dura e feroce. Ora, è arduo immaginare l’Unione europea che colma deficit di democrazia, quando in essa l’appannaggio del potere non appartiene ai partiti, ma alle banche e ai mercati. Non si può ignorare che i trattati europei non pongono per nulla il problema della democrazia, ma impongono come loro fine istituzionale l’incontrollata circolazione e mercificazione di tutto ciò che è ricchezza e produce ricchezza, non per distribuirlo equamente tra le varie classi sociali, ma per concentrarlo nelle poche mani di una superclasse apolide e corsara. In questa ricetta di recupero democratico la crisi dello Stato-nazione, data come irreversibile, non viene attribuita a decisioni di ceti politici subalterni, ma dovuta alla mondializzazione della vita economica e finanziaria. Si auspica, anzi si prospetta l’abbattimento dello Stato come destino ineluttabile e simultaneo al “processo irreversibile” dell’Unione europea, vista come sviluppo naturale, eterno, non criticabile, inemendabile, e dunque non soggetto a essere trasformato da scelte e decisioni democratiche e popolari.
Parallelo al superamento dall’alto dovrebbe scorrere, in questa soluzione, il superamento dal basso: una gonfiata ed enfatizzata importanza delle piccole unità politiche e delle autonomie locali che, solo in apparenza, sembrano ispirarsi a un’idea o a un sentimento di comunità. Ma che invece l’Unione europea, opportunisticamente, ha scoperto come espressioni collettive di individualismo antistatale e come tali le sfrutta in funzione disgregatrice. Queste due tendenze, mondialista e autonomista, “che non solo non si oppongono ma si completano”, non si contraddicono ma di fatto si alleano oggettivamente nella negazione dell’idea di Stato. Ma questa idea è ineludibile, sia che si voglia creare una piccola unità politica sia che si voglia fondare un grosso stato federale o confederale.
Il punto dunque non è il vagheggiato superamento dello Stato, ma a quale livello s’intende fondarlo, tenendo presente che esistono già realtà storiche di esso e che, per fondarne uno nuovo, deve esistere un popolo. E a livello europeo un popolo non esiste. A livello locale un popolo può esistere e aver coscienza di esserlo se rifiuta di autostrangolarsi con i trattati europei, che progettano l’estinzione di tutti i popoli. Se non si pronunciano sull’Unione europea e i suoi trattati, sulla moneta unica e la sovranità popolare, i movimenti autonomistici, che a volte sono tentati dall’indipendentismo o perfino dal separatismo, non sono attendibili, sono ambigui, o sospetti di essere usati da interessi estranei alla libertà e all’indipendenza cui dicono di aspirare. Una riflessione sul dominio oligarchico delle superclassi finanziarie acquartierate negli organismi sovranazionali, inclini a rapinare sistematicamente i popoli, forse potrebbe rivelare a tanti autonomisti che, non solo la loro libertà e democrazia, ma anche il loro benessere e la loro prosperità sono garantiti soltanto dalla sopravvivenza dello Stato-Nazione di cui fanno parte per storia, lingua, cultura e volontà costituente. I legami e le strutture sociali, le solidarietà organiche, che sono più evidenti nelle comunità locali, oggi appaiono indebolite dall’individualismo aggressivo e dall’irruzione dei principi eurounionisti della concorrenza e della competizione forsennata, ma possono essere ricostituite se è presente lo Stato, l’istituzione che aggrega.
In definitiva, al problema di come recuperare la democrazia nelle società europee si prospettano soluzioni incoerenti: il superamento dello Stato, l’unica realtà all’interno della quale la democrazia politica e sociale si è affermata storicamente più e meglio che in altre istituzioni sovranazionali; la resa incondizionata e la rassegnazione alla deriva globalista dell’Unione europea, organismo guidato dal politburo di Bruxelles e verniciato di democrazia da un parlamento privo di potere legislativo; l’assecondare e il fomentare autonomismi che sembrano invocare libertà e indipendenza come pretesti per schermare interessi e affari inconfessabili, legati spesso a forme di governanza eurounionista. Quanto finora osservato, invece, sembra suggerire rimedi alla carenza democratica esattamente opposti a quelli caldeggiati, e cioè la riaffermazione dello Stato democratico e sociale tracciato dalla Costituzione del ’48; il disconoscimento di trattati palesemente anticostituzionali perché ispirati da principi del liberismo economico e di anarchia finanziaria; il ricondurre a unità le autonomie che, a garanzia di territori e comunità, in questo momento e per il futuro, non dispongono di altro testo migliore di quello della Costituzione Repubblicana.
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