Diritto naturale ed europeismo
L'articolo di Eugenio Scalfari su "La Repubblica" del 03 agosto nasconde un pericoloso vizio dell'establishment nostrano, ovvero la concezione che la competenza dei "saggi" esaurisca il diritto dei popoli ad autogovernarsi; solo coloro che sanno possono arrogarsi il diritto di decidere ciò che è buono e cattivo. È importante affermare che questa è una posizione politica specifica, che ha alle spalle una consolidata tradizione filosofica che si rifà alla scuola del diritto naturale classico. Senza sviluppare tutte le implicazioni che questa posizione supporta possiamo sinteticamente riassumere che, per questa teoria filosofica, l'uomo in quanto essere razionale è per natura incline ad agire secondo ragione; agire secondo ragione è agire in maniera virtuosa. L'uomo ha, quindi, in sé il fondamento del suo agire, ma può distogliersi da esso. Tuttavia, chi maggiormente conosce ciò che per natura è buono per ciascuno e per tutti può assurgere al ruolo di governante (il Platone de le Leggi, il Senofonte dello Ierone e della Ciropedia, il Cicerone del De Officiis e del De Natura deorum sono i principali sostenitori di questa teoria). Esiste dunque un sapere intorno alla natura dell'uomo. Quindi l’uomo che conosce sarà atto a dirci come dobbiamo condurre la nostra vita. Condursi nella vita sarà giustificabile da un sapere. Colui che sa può guidare il popolo.
Il punto di rottura di tale teoria si trova nella modernità con Machiavelli prima e con Hobbes e Spinoza, poi.
Secondo Machiavelli, infatti, i saggi finora non hanno mai esaminato "la realtà effettuale" delle cose, ma avrebbero contrapposto le cose come dovrebbero essere alle cose come sono. Le dottrine politiche tradizionali hanno fatto riferimento al modo in cui gli uomini dovrebbero vivere, culminando nella descrizione, priva di fatto di ogni utilità pratica, di repubbliche immaginarie, invece di prendere le mosse dal modo in cui gli uomini vivono realmente (Machiavelli, Il principe, XV). Il presupposto che sfida la teoria classica del diritto naturale è che l'uomo non agisca sempre razionalmente, ma che il più delle volte si trovi ad agire sotto la spinta di passioni istintive, e colui che amministra il potere politico non può non tenerne conto. Anzi lo stesso esercizio della sovranità, per conservarsi, deve ampiamente giovarsi di qualità amorali (Machiavelli, Il principe, XVIII). L'azione virtuosa non è più l'azione morale conforme alla natura umana, bensì l'azione maggiormente utile a conservare il potere. Il modello del saggio per Machiavelli diventa il centauro Chirone, mezza bestia e mezzo uomo, l'archetipo di colui che sa sfruttare la razionalità umana e gli istinti e le passioni della bestia per mantenere il potere.
Hobbes e Spinoza portano il discorso machiavelliano alle estreme conseguenze: quello che per il fiorentino era un ragionamento limitato al campo della conservazione del potere, diventa per i due filosofi la condizione essenziale del vivere in società. L'uomo non è per natura né razionale né tanto meno socievole; anzi sono due "passioni" che lo portano a fondare lo stato civile, ovvero il timore e la speranza. Nella visione moderna del diritto naturale, concepita da Hobbes e Spinoza, l'uomo virtuoso allo stato di natura, sperimentando passioni di gioia e passioni di tristezza, si adopera affinché le prime siano quanto più ripetibili e per limitare quanto più le seconde. L'azione individualmente utile del contesto presociale si converte in un'istituzione propria del contesto sociale.
La razionalità come la società può essere solo in divenire, ma non c'è alcuna essenza dell'uomo da realizzare. Lo Stato si forma attraverso il consenso dell'uomo dello stato di natura, che si concretizza in un pactum societatis in virtù del quale il diritto può essere realizzato con maggiore pienezza. In questa prospettiva non esiste alcun potere del saggio. Perché la società si formi, ciò non potrà accadere, in una maniera o in un’altra, che tramite il consenso di coloro che vi partecipano, e non perché qualcuno possa indicare qual è la miglior maniera di realizzare l’essenza dell'uomo.
L'elaborazione teorica, da parte di personaggi come Scalfari, Prodi e Monti, di un vincolo esterno al quale si vorrebbe legare l'esercizio della sovranità nazionale è quanto di più vicino alla dottrina del diritto naturale classico. Tale teoria nega il quel principio per il quale la sovranità politica ed economica è espressione della concessione temporanea del diritto del cittadino allo Stato, che la esercita come la testa di un corpo. In una tale concezione il positivo è posto fuori del sociale e il sociale è posto nel negativo, nell'obbedienza ad una legge esterna, nell'alienazione. È evidente come questo investa profondamente anche il piano delle forme politiche dello Stato. Se, infatti, si concludono trattati che tanto marcatamente violano le regole democratiche e le leggi fondamentali di una Repubblica, in vista di un presunto "bene superiore" (l'Europa) che non ha alcun fondamento empirico nella realtà, il cammino non può che sfociare in un riassetto delle istituzioni che ne accentui a dismisura l'apparato esecutivo.
"I saggi" – scrive Spinoza – "per lo più, invece di un'etica, hanno scritto una satira. e non hanno mai concepito una politica che potesse essere messa in pratica. ma teorie da considerare chimeriche o avrebbero potuto trovare realizzazione nel paese di Utopia, o nell'età dell'oro dei poeti, ovvero lì dove non v'era bisogno alcuno". L'europeismo è una trappola ideologica dei saggi, che tratta come ostacolo da eliminare ogni ingranaggio che non si accordi e collimi con le sue grandi ruote, finanche il diritto dei popoli ad autogovernarsi.
Contro i saggi dell'ideologia europeista, allora, va agitato il monito di Machiavelli contro coloro che governano contro i propri popoli: "Infelici quelli principi che per assicurare lo stato loro hanno a tenere vie straordinarie, avendo per nemici la moltitudine: perché quello che ha per nemici i pochi, facilmente e sanza molti scandoli si assicura: ma chi ha per nimico l'universale non si assicura mai, e quanta più crudeltà usa, tanto più diventa debole il suo principato. Talché il maggiore rimedio che ci abbia, è cercare di farsi il popolo amico" (Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, 1, XVI).
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