Dalla provincia Italia
La sensazione che l’Italia sia una provincia di un Impero si è consolidata negli ultimi anni: è sempre più terra di colonizzazione per quanto concerne il pensiero, il linguaggio (basti pensare all’utilizzo smodato dell’inglese ovunque da parte dei giornalisti, dei politici, degli stessi legislatori), le nuove tecnologie, le mode e le culture giovanili (dove fondamentale è la musica), la cultura scientifica e finanche quella umanistica (ammesso che tale distinzione abbia un senso oggi, quando si pretende ridurre tutto a scienza o meglio a oggettività).
Il provincialismo è una condizione culturale e può diventare un atteggiamento quasi irriflesso nel caso in cui per molti anni s’imponga. Posso provare a definirlo, senza pretendere di essere rigoroso: nasce dalla condizione per cui le decisioni, i fatti, gli eventi, le scoperte importanti, nascono, crescono, si consumano, si svolgono altrove, su altri scenari, mentre in provincia giunge solo il riverbero, il riflesso. Il centro del mondo è altrove, qui siamo in periferia. Altrove si prendono le decisioni, altrove nascono le novità, altrove si agisce con consapevolezza e anche con ardore, altrove si fa la Storia. Qui in provincia tutto è più piccolo, tutto è tradotto, tutto è riportato, tutto è forzato e debole e stanco, qui ci “giunge voce” delle cose e spesso anni dopo che si sono affermate, qui c’è soltanto l’eco di ciò che è stato già pensato meglio altrove, qui spesso attecchiscono prima le mode deteriori rispetto a quelle con effetti benefici. Ciò che viene da fuori s’impone come qualche cosa di imprescindibile. Le (spesso uniche) nostre consolazioni sono il passato glorioso, dove non eravamo provincia ma cuore pulsante della civiltà, e la speranza di riuscire, seppur sempre in seconda battuta, ad essere più bravi dell’originale, insomma che la copia riesca meglio del modello. Questa eventualità non è affatto da escludere, ma per una perla che brilla, quanto fango occorre sopportare! per una eccellenza, quante copie malfatte! quante scimiottature insipide! quante forzate imitazioni che per mezzi e per tempestività non si avvicinano minimamente all’originale!
A questi elementi si è aggiunto ultimamente, da un punto di vista economico e politico, il commissariamento (anche se ufficialmente siamo uno stato autonomo) dell’Italia da parte dell’Europa e la conseguente imposizione di parametri e regole decisi a Bruxelles. Fino alla crisi, o per le persone più avvertite ai suoi prodromi, pochi si erano avveduti di che cosa avrebbe comportato tutto ciò, vale a dire di un’ulteriore perdita di autonomia, di cessione di potere di scelta in economia, in finanza, in politica monetaria.
Alla fine di questo processo cominciato tanto tempo fa, che ha accresciuto il provincialismo del nostro paese, si sono coagulati fondamentalmente due tipi di reazione: 1) la auto-denigrazione, l’auto-compatimento e il servilismo più becero nei confronti del più forte (sia esso gli Stati Uniti o la Germania), da un lato; 2) l’auto-assoluzione completa, dall’altro, e l’illusione di saper risolvere i nostri problemi da soli. Può sembrare paradossale, ma questi due atteggiamenti non si escludono a vicenda, anzi possono coesistere e coesistono in maniera schizofrenica oggi.
Ciò che mi preme far rilevare è questo: che il pensiero, che molti hanno avuto e tutt’oggi hanno, che l’adesione al progetto europeo possa essere una cura al nostro provincialismo è un’illusione; credo che molti abbiano pensato e si siano auspicato questo o qualcosa di simile: “poiché noi da soli non siamo in grado di risolvere i nostri annosi problemi e poiché le soluzioni che abbiamo adottato finora sono state insufficienti, aderendo all’Europa finalmente potremo uscire dal nostro piccolo cantuccio e conteremo qualcosa”. Si è preferito delegare ad altri e si è pensato che questa fosse l’unica via per sopravvivere e per avere peso specifico nello scacchiere internazionale.
Se per certe questioni in effetti l’Europa è stata trainante in modo innegabile, la contropartita è sotto gli occhi di tutti: i benefici sono stati minimi, mentre i danni enormi e con il passare del tempo quasi irreparabili. Non siamo affatto usciti dal provincialismo e anzi abbiamo depotenziato gli strumenti che soli potevano garantire la nostra autonomia.
Una nazione senza sovranità o a sovranità limitata non può trovare la forza necessaria né l’orgoglio indispensabile per fare sentire la propria voce, per rivendicare una propria via autonoma in fatto di politica sociale ed economica, di modello di sviluppo e, ciò che è fondamentale per il nostro discorso, in fatto di cultura.
Se cominciamo ad avere consapevolezza di quali sono i primi passi da svolgere per riconquistare la sovranità da un punto di vista politico ed economico, più difficile sarà trovare la via per uscire dal provincialismo culturale. Non c’è una ricetta per questo e non sarà di certo un singolo individuo a poterla concepire o attuare, ma ciò che qui è importante sottolineare è che dovrà trattarsi di una vera e propria rivoluzione del nostro modo di pensare. Noi siamo, infatti, talmente vittime di questo meccanismo perverso che siamo abituati a credere che per ogni cosa altrove è già stato fatto di meglio e non guardiamo più a ciò che è stato fatto qui, siamo abituati a disprezzare tutto ciò che è nostrano per meglio piegarci a ciò che ci viene imposto dall’estero; probabilmente solo in alcuni piccoli settori, sebbene molto importanti, ad esempio l’agroalimentare, l’artigianato di qualità elevata, possiamo fare scuola, per tutto il resto abbiamo sempre dovuto apprendere e importare da altri. Niente di male in tutto ciò, se non avesse appunto forgiato gli atteggiamenti di cui sopra (auto-denigrazione e auto-assoluzione). Non dobbiamo confondere questo sforzo per riappropriarci di ciò che è nostro con la chiusura verso ciò che viene da fuori. Anche in passato il meglio che la nostra cultura ha prodotto è stato possibile solo grazie al rapporto e alla assimilazione di ciò che veniva dalla Francia o dalla Germania prima e dagli Stati Uniti poi e grazie al cosmopolitismo dei suoi interpreti. Nessun arroccamento, nessuna autarchia, ma il semplice riconoscimento del nostro valore.
Il punto fondamentale è questo: di fronte a ciò che ci viene dall’estero non ci deve essere semplice assorbimento o trapianto forzoso, ma rielaborazione a partire da un punto di vista autonomo e ciò deve andare di pari passo con la riscoperta e riappropriazione della nostra ricca tradizione nazionale.
Daniele Baron, ARS Piemonte
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