Il fine giustifica i mezzi?
Nella terza parte del mio “bigino del perfetto guastafeste” (https://www.appelloalpopolo.it/wp-content/uploads/2015/01/Il-bigino-del-perfetto-guastafeste.pdf ) ho citato una significativa pubblicazione del prof. Roberto Castaldi – professore associato di Filosofia politica e figura di spicco del federalismo europeo – caratterizzata da una nutrita serie di “lievi imprecisioni” giuridico-economiche (del tutto perdonabili ad un filosofo) sulle quali però non voglio intrattenervi (ne segnalo solo una, molto divertente: quella sul presunto “shock petrolifero” del 2001-2003, durante il quale il prezzo del greggio sarebbe salito da 18$ a 145$ al barile e del quale gli europei, grazie al meraviglioso scudo dell’€urone, non avrebbero avuto “cognizione”. Qui potete trovare i dati relativi ai costi dell’importazione del greggio in Italia, forniti dal Ministero dello Sviluppo Economico: http://dgerm.sviluppoeconomico.gov.it/dgerm/costogreggio.asp e, come vedete, nel 2001-2003 non pare esservi traccia di uno “shock petrolifero”). Più interessante, per noi, è invece la prima parte dell’articolo, che ci spiega l’origine del progetto dell’unione monetaria.
Riassumo, per chi non avesse tempo o voglia di consultare il documento originale (che potete consultare qui: http://www.sisp.it/files/papers/2012/roberto-castaldi-1376.pdf ).
L’unione monetaria, “nell’ambito della corrente federalista”, fu pensata e progettata “come strumento per arrivare all’unione politica”. Tale progetto nasce e prende forma da un postulato (i federalisti “erano convinti che storicamente gli Stati nazionali europei non fossero ormai in grado di garantire benessere e sicurezza ai propri cittadini e fossero quindi <<polvere senza sostanza>>”) e da “una serie di indicazioni teoriche” tratte dall’osservazione degli eventi accaduti nel periodo della guerra di Corea (1950-1953). Fra queste “indicazioni teoriche” vi era quella secondo la quale l’emergere di una crisi costituiva un’opportunità “per l’avanzamento del processo di unificazione” europea. Ma una crisi, di per sè, non sarebbe bastata. Occorreva una crisi specifica dei poteri nazionali, ovvero l’insorgere di “problemi percepiti socialmente” che non potessero “trovare soluzione nel quadro nazionale”. Una crisi economica percepita come non risolvibile in ambito nazionale avrebbe ad esempio permesso “avanzamenti sul terreno dell’integrazione economica”; una crisi militare percepita come irrisolvibile in ambito nazionale avrebbe consentito l’integrazione militare e politica (tenetelo a mente e pensate all’attentato a Parigi dei giorni scorsi, nonchè agli articoli apparsi subito dopo sul quotidiano di Confindustria e su REpubblica, a firma dei rispettivi direttori: ne parleremo in seguito).
Si trattava dunque di favorire una “crisi specifica dei poteri nazionali” e sfruttare l’occasione per completare il “processo di unificazione”.
Il modus operandi scaturisce dal genio politico di Mario Albertini. Spremendo le meningi, l’illustre federalista pavese elabora una “strategia” volta a sfruttare l’opportunità offerta dalla crisi: il “gradualismo costituzionale”. In sostanza, si sarebbe trattato:
a) di individuare un settore “decisivo per l’assetto statuale” in cui una limitata cessione di sovranità da parte degli Stati:
– li avesse privati dei poteri (connessi a quella porzione di sovranità ceduta) necessari per risolvere una crisi che avesse colpito proprio quel settore;
– avesse inoltre palesato, all’emergere della crisi, una contraddizione “tra l’esistenza di tale sovranità europea e l’assenza di una vera politica e di un governo federale” socialmente percepita (stante l’impossibilità di risolvere la crisi in un quadro sovranazionale dai poteri limitati) come necessità di avanzamento verso l’integrazione politica;
b) di creare “un’istituzione democratica europea” (cioè a livello sovranazionale) che fosse in condizione di “rivendicare progressivamente sempre maggiori poteri per sè e per l’Europa”.
Il settore decisivo venne presto individuato (prendendo spunto dagli studi compiuti dall’economista Robert Triffin) nella sovranità monetaria.
Un’unione monetaria europea presupponeva quel limitato “passaggio di sovranità” che, da un lato, avrebbe privato gli Stati colpiti da una crisi economica della possibilità di reagire con provvedimenti adeguati (a cominciare dalla flessibilità del cambio) e, dall’altro, avrebbe fatto emergere “la contraddizione di una moneta europea in assenza di un’unione politica e di un governo federale europeo”, consistente nella mancanza di un potere politico in grado di gestire la crisi finanziando gli Stati in deficit con il denaro degli Stati in surplus.
L’adozione di una moneta unica – che non avrebbe permesso nè agli Stati, nè all’ “istituzione democratica europea” di reagire adeguatamente alla stessa crisi, consentendone il perdurare – era dunque il mezzo decisivo che avrebbe consentito, nella visione federalista, di raggiungere il fine, cioè l’unione politica.
Per realizzare il mezzo, scesero soprattutto in campo, nel nostro paese, due illustri personaggi.
Il primo, l’ “impeto intellettuale” della moneta unica, fu quell’austero signore che nel 2003 – essendo nato da famiglia posizionata e benestante ed avendo vissuto nel mondo dorato dell’alta finanza – dalle colonne del Corriere della Sera, predicava severo un salutare ritorno (per i ceti subalterni, ovviamente) a quella “durezza del vivere” che aveva segnato la vita degli esseri umani (eccetto i pochi fortunati come lui) sino alla metà del ‘900, nonchè l’ “attenuazione” di quel “diaframma di protezioni” (cioè lo Stato sociale, “forma necessaria” della democrazia) che aveva garantito alle classi meno abbienti ed alla classe media un diseducativo benessere, degenerando, a suo insindacabile ed illuminato giudizio, “a campo dei diritti che un accidioso individuo, senza più meriti né doveri (cioè la persona indigente), rivendica dallo Stato” (http://archiviostorico.corriere.it/2003/agosto/26/BERLINO_PARIGI_RITORNO_ALLA_REALTA_co_0_030826002.shtml ).
Il secondo, eletto poi a Presidente della Repubblica, fu uno dei due “congiurati” (definizione data da Beniamino Andreatta, l’altro “congiurato”) a cui dobbiamo l’operazione – effettuata al di fuori di ogni controllo democratico, in quanto sottratta alla discussione parlamentare – passata alla storia come “divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia”, la quale, in ossequio ai principi della futura UE, toglieva al potere esecutivo il controllo della politica monetaria (per affidarlo ai “mercati”) e di quella fiscale, favorendo un enorme trasferimento di reddito dalle tasche dei cittadini a quelle delle istituzioni monetarie e finanziarie nazionali ed internazionali (ne parleremo in un prossimo articolo).
Oltre confine agì invece il padre intellettuale del pensiero federalista, sfruttando l’occasione di essere un membro, in quel momento, della Commissione Europea.
Questa è l’origine del progetto dell’unione monetaria, spiegata con soave candore e stucchevole senso di compiacimento da uno dei più accaniti sostenitori del medesimo progetto.
Un misto di spregiudicatezza, paternalismo (nel suo significato storico), autoritarismo e miopia storico-giuridica.
La spregiudicatezza è nel concetto di “gradualismo costituzionale”, ennesimo letale prodotto dell’idea che il fine giustifichi i mezzi.
Il fine non giustifica mai i mezzi. Una buona intenzione non rende né buono né giusto un comportamento in se stesso scorretto. Ancor meno se i mezzi producono crisi, i cui “effetti collaterali” sono i suicidi, i fallimenti, la povertà diffusa e crescente in larghi strati della popolazione, l’emarginazione sociale.
A scanso di equivoci, non voglio dire che Mario Albertini e gli altri padri del federalismo europeo volessero provocare tali effetti.
Osserva giustamente il prof. Alberto Bagnai che “nell’ottica degli anni sessanta, quella nella quale si ponevano gli Spinelli e gli Albertini, con economie in vigorosa crescita, con uno stato sociale in fase di costruzione e non di smantellamento, la leggerezza con cui i <<padri nobili>> parlavano dell’ <<emergere di contraddizioni>> (alludendo alle crisi) è del tutto veniale”, poichè essi “non potevano immaginare che stessero parlando dell’impoverimento e persino del suicidio di tanti loro simili, della distruzione del futuro di intere generazioni” (A. BAGNAI, L’Italia può farcela, Il Saggiatore, Milano, 2014, 161).
Peccarono di leggerezza, non immaginando che da una crisi, da loro ritenuta strategica, potessero derivare così tragiche conseguenze.
Ora, però, che i devastanti effetti del “gradualismo costituzionale” appaiono conclamati, l’irresponsabile sfrontatezza con la quale l’esercito dei loro eredi vaneggia di una “crisi morale di chi non crede nel processo di integrazione europea” (da un numero di un loro giornaletto studentesco) e difende quel progetto antidemocratico, fallimentare e violento (per non dire, con Luigi Zingales, “criminale”) incarnatosi nella UE (ovvero in una istituzione che non ha nessuna caratteristica di una democrazia costituzionale), invocandone addirittura il completamento, è semplicemente sconcertante.
Costoro dovrebbero solo chiedere scusa, anche in nome dei loro padri intellettuali. A tutte le famiglie che hanno perso un loro caro, agli oltre 18 milioni di Italiani che vivono ai limiti e in parte al di sotto della soglia di povertà, a tutte persone che hanno perso il lavoro, a tutte quelle che non lo trovano, ai tanti giovani che non possono programmare il loro futuro, grazie ai devastanti effetti collaterali del “gradualismo costituzionale”. Dovrebbero chiedere scusa e poi togliere gentilmente il disturbo, consapevoli di avere già arrecato sufficienti danni.
Alla prima occasione, offerta dagli atti di terrorismo commessi dagli estremisti islamici nei giorni scorsi a Parigi, tornano invece ad assordarci con il loro insulso “più Europa”, o addirittura “Europa unita”, contrabbandando una questione di pubblica sicurezza, nel caso specifico francese (e non più grave delle tante che l’Italia ha affrontato e risolto nel corso della sua storia), come un problema risolvibile solo a livello sovranazionale, “con gli Stati Uniti d’Europa e la forza politica del più grande mercato di consumo al mondo che decide finalmente di dire la sua non solo con la moneta unica ma anche con un esercito unico” (Napoletano, sul quotidiano di Confindustria dell’8 gennaio 2015), oppure con la conclusione di “specifici accordi su temi di sicurezza e di investigazione” e “vere e proprie cessioni di sovranità” “con deliberazioni dei 28 Paesi dell’Unione” (Scalfari su REpubblica dell’ 11 gennaio 2015).
Calando un pietoso velo sulla comicità involontaria che ci regala l’immagine del “più grande mercato di consumo al mondo” che sino ad oggi avrebbe “detto la sua con la moneta unica” e sulla malafede o sull’ignoranza (fate voi) di chi invoca “cessioni di sovranità”, sapendo o dovendo sapere che esse non sono ammesse dalla nostra costituzione (tanto meno a favore di poteri non democratici, autoreferenziali, i cui fini, esclusivamente economici, non hanno nulla a che fare con la pace e la giustizia fra le nazioni), la chiave di lettura di queste parole in libertà ormai non può sfuggirci: rappresentare un “problema percepito socialmente” come irrisolvibile nel quadro dei poteri nazionali è una ghiotta opportunità “per l’avanzamento del processo di unificazione” europea.
C’est à dire: una buona dose di cinismo e la solita gradualità.
Nemmeno il fine era però giustificato.
Un’élite (autoproclamatasi tale) di filosofi e politici, ha deciso che il destino di intere popolazioni dovesse essere la loro unificazione in uno Stato federale, senza domandare alle stesse se fossero o meno d’accordo, quanto meno su alcune questioncine preliminari da risolvere. Oddio, robetta da niente, “quisquilie, pinzillacchere”: http://www.aldogiannuli.it/unita-europea/ (leggetelo, è il De profundis del processo di unificazione europea, ma è anche divertente, oltre che ineccepibile sul piano giuridico-istituzionale e politico).
Del resto non serviva domandare. Quell’élite già sapeva quale contenitore rispondesse all’interesse dei popoli europei, pur essendo piuttosto reticente o parzialmente confusa sui suoi contenuti (cfr. il link che precede).
Si chiama paternalismo, un metodo di governo in palese contrasto con i principi di una democrazia costituzionale.
Un metodo autoritario, di chi non si è fatto scrupolo di conseguire il suo fine inducendo le popolazioni europee a “fare passi avanti” (Mario Monti), cioè ad accettare “riforme” antidemocratiche ed incostituzionali che le stesse popolazioni non avrebbero mai accettato senza lo shock di una crisi violenta, inevitabile, premeditata.
Un fine che, basandosi su un postulato completamente errato (i federalisti “erano convinti che storicamente gli Stati nazionali europei non fossero ormai in grado di garantire benessere e sicurezza ai propri cittadini e fossero quindi polvere senza sostanza”), rivela tutta la miopia storico-giuridica di chi lo voleva conseguire ad ogni costo.
Con la stagione della democrazia costituzionale, di cui abbiamo ampiamente parlato nel “bigino del perfetto guastafeste”, muta radicalmente la forma e, con essa, mutano i compiti dello Stato che, da Stato neutrale, diventa Stato di benessere, Stato sociale, “che interviene in ogni campo dell’attività umana per garantire che nessuno sia privato non di un astratto diritto riconosciutogli da una Costituzione, ma della concreta possibilità di godere del suo diritto alla vita” (L. BASSO, Il principe senza scettro, Milano, 1958, Capitolo I Lo sviluppo storico della democrazia).
Una nuova figura di Stato che ha il preciso dovere di intervenire nell’attività economica per assicurare e mantenere la piena occupazione (art. 1 e 4 Cost.), un livello di reddito proporzionato alla quantità e qualità del lavoro svolto ed in ogni caso sufficiente ad assicurare ai lavoratori un’esistenza libera e dignitosa (art. 36 Cost.), il diritto al riposo settimanale ed alle ferie annuali retribuite (art. 36 comma 3° Cost.), ad una protezione adeguata in caso di inabilità al lavoro, di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria (art. 38 Cost.).
Una nuova forma di Stato che si assume il compito di sostituire la figura del cittadino con quella dell’ “uomo protetto” (cioè l’uomo concreto, assistito da una serie di garanzie che gli consentono di essere libero dal bisogno e di guardare senza timore al proprio futuro in ogni situazione in cui si viene a trovare) e che, in sostanza, si impegna ad orientare l’attività politica al fine di garantire a tutti la sicurezza sociale.
Una nuova forma di Stato che, come sapientemente osserva il Consigliere di Stato, dott. Luciano Barra Caracciolo, trasforma il ruolo della sovranità, da “potere illimitato al servizio delle oligarchie dominanti le nazioni”, a “mezzo vincolato di tutela e perseguimento attivo dei diritti umani […] che includono, senza arretramenti, i diritti di prestazione sociale …” (L. BARRA CARACCIOLO, Euro e (o?) democrazia costituzionale, Dike, Roma 2013, 47).
Una nuova figura di Stato che non affida più all’automatismo liberale, al gioco spontaneo delle forze economiche (dimostratosi fallimentare ed assolutamente incapace di assicurare la diffusione del benessere alle classi subalterne), la realizzazione dei principi e dei valori sanciti nella sua Costituzione, ma che l’affida ad un programma, “perchè l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” (art. 41 comma 3° Cost.).
Una nuova forma di Stato che, evidentemente, i federalisti non volevano e, di fatto, continuano a non volere, collaborando, anche senza accorgersene, con chi ha restaurato, ad un livello sovranazionale, il vecchio Stato liberale e liberista ante 1929.
Ce lo dicono loro stessi, più o meno consapevolmente, chiedendo il completamento del processo di integrazione in un sistema che altro non è se non la riedizione in peius di quel modello oligarchico-liberale-liberista, superato dalle democrazie costituzionali, ma ripescato dalla fogna in cui la storia del progresso democratico lo aveva giustamente collocato, per essere rigenerato nella PLUTOCRAZIA (la definizione più appropriata) della UE.
Ce lo ha detto pure “il comunista preferito di Kissinger”, citando uno scritto di Guido Carli che parla, guarda caso, del liberista (e federalista) Luigi Einaudi e della sua “strategia <<nata e gestita tra la Banca d’Italia e il governo>>, mirata alla stabilizzazione, ancorata a una visione di <<Stato minimo>>, e aperta alle regole e alle istituzioni monetarie internazionali”.
Strategia che, molto democraticamente, lo stesso Einaudi e Alcide De Gasperi “avevano posto però al sicuro, al di fuori della discussione in sede di Assemblea Costituente” (http://www.reset.it/caffe-europa/superare-il-dogma-della-sovranita-nazionale ) e che sarebbe servita ad aggirare, a disattivare di fatto, la parte economica della Costituzione (troppo sbilanciata, a giudizio del narratore, “a favore delle due culture dominanti, cattolica e marxista”, accomunate dal “disconoscimento del mercato”) e ad orientare l’azione di governo in senso diametralmente opposto al programma costituzionale, cioè “verso scelte di demolizione dell’autarchia, di liberalizzazione degli scambi e […] di collocazione dell’Italia nel processo di integrazione europea”.
Di ciò compiacendosi, il Bi-Presidente emerito precisa quindi (caso mai non l’avessimo capito) che “con i Trattati di Roma del 1957 e la nascita del Mercato Comune, furono riconosciuti e assunti dall’Italia i fondamenti dell’economia di mercato, i principi della libera circolazione (merci, persone, servizi e capitali), le regole della concorrenza” e che le (per lui) fastidiose “chiusure schematiche” della c.d. Costituzione economica “vennero superate nel crogiuolo della costruzione comunitaria e del diritto comunitario”. Costruzione nella quale “si riconobbe via via anche la sinistra, prima quella socialista e poi quella comunista” confessa con orgoglio il dimissionario Capo-bis dello Stato, per poi concludere che si deve ormai “riflettere sull’Italia guardando all’Europa”. Ad un’Europa liberale e liberista, ovviamente: “così tornando a incontrare Einaudi” il “grande anticipatore e assertore di quella prospettiva di unione federale dell’Europa” che oggi saremmo “chiamati a rilanciare mirando con coraggio einaudiano al più coerente superamento del dogma e del limite delle sovranità nazionali”.
Vorrei in proposito ricordare all’ex “garante della Costituzione” che “il dogma della sovranità nazionale” caratterizzava lo Stato liberale, tanto caro a lui – diversamente comunista – quanto ai suoi amici federalisti. Nello Stato liberale la sovranità non apparteneva infatti al popolo, ma a un’entità astratta e sfuggente: la “nazione”, del cui interesse (perciò indicato come “generale”, o “nazionale”) si facevano interpreti esclusivi i ceti sociali dominanti, detentori effettivi di un potere da loro formalmente esercitato in nome della “nazione” ed in funzione di interessi “generali”, o “nazionali”, in realtà corrispondenti a quelli, del tutto particolari, della classe dirigente.
Quel “dogma” è stato superato, 67 anni fa, dalla Costituzione della Repubblica Italiana.
Dal 1° gennaio del 1948 la sovranità non appartiene più alla nazione, ma al popolo, per volontà della Costituzione.
E’ un cambiamento radicale. Il popolo non è più un’entità astratta, ma è fatto di persone reali e diverse fra loro. L’<<appartenenza>> della sovranità ne indica la permanenza nel popolo (e in ogni singola persona di cui esso è composto) “come contrassegno essenziale ed ineliminabile del regime democratico” che si è voluto instaurare e si specifica “nel vincolo imposto al suo esercizio, tale da non potere trascendere le forme ed i limiti posti dalla Costituzione” (C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Tomo I, Decima ed., Padova, 1991, 153).
E’ un concetto di base del nostro diritto costituzionale.
La sovranità popolare (di cui abbiamo già ricordato il nuovo ruolo) non è un “dogma”: è l’essenza della democrazia. In quanto tale non può essere “superata” e non è cedibile alle “istituzioni monetarie internazionali”, se non sacrificando la democrazia e tradendo la Costituzione. La plutocrazia ordoliberista della UE, vera “polvere senza sostanza” democratica, ne ha segnato purtroppo la (provvisoria) fine. E’ una polvere che soffoca. Un letale microparticolato che sta uccidendo i popoli europei.
(Mario Giambelli – ARS Lombardia)
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