USA: il fascino discreto dei neocons
Robert Parry è un giornalista investigativo americano, fondatore del Consortium for Independent Journalism. In un lungo articolo dello scorso 30 gennaio analizza la costruzione del consenso nell’opinione pubblica americana su temi di politica estera.
Il meccanismo propagandistico che viene utilizzato ad ogni crisi, fin dai tempi delle ingerenze statunitensi in America Latina, è stato “scoperto” – sostiene Parry – dai conservatori, e consiste nello stabilire un’equivalenza fra personale e politico. La demonizzazione del leader di turno ha il doppio vantaggio di evitare l’analisi di una situazione nella sua complessità, e stabilire da subito il preciso confine tra buoni e cattivi secondo lo schema vetero-hollywoodiano ancora vivo nell’immaginario del pubblico americano. Chi dissente viene accusato di essere pro-Cattivo-di-turno, a cui viene assimilato: in pratica un banale argumentum ad hominem, grossolano ma sempre efficace.
Si crea così un gruppo di pensiero ufficiale che aggrega gli allineati ed emargina chiunque esprima dissenso, e si stabilisce un clima di maccartismo, dove lo spirito patriottico di ognuno è misurato dal grado di adesione, o sottomissione, al racconto ufficiale. In questo situazione succede che la maggior parte di coloro che hanno la possibilità di influenzare l’opinione pubblica preferisce o adeguarsi o tacere, per evitare di mettere a rischio l’impiego o le possibilità di carriera.
L’invasione irachena fu perpetrata con un vasto consenso popolare grazie a questo meccanismo. Le panzane sulle armi di distruzione di massa, la dottrina della guerra preventiva che sovvertiva il diritto internazionale, le infondate accuse di connivenza del regime con i terroristi di al-Quaeda: tutto questo poté passare perché gli scettici evitarono di esprimersi. Saddam Hussein era il dittatore sanguinario del momento, il malvagio della rappresentazione, e questo era sufficiente a conferire agli USA – i buoni per antonomasia – il diritto di farlo fuori, quali che fossero i pretesti addotti.
Il conformismo intellettuale continuò ad avere il sopravvento anche quando l’avventura irachena si dimostrò essere il fallimento che una più oggettiva analisi avrebbe lasciato facilmente prevedere. Benché le conseguenze di quel disastro siano drammaticamente avvertite ancora oggi, il sistema politico-mediatico americano ha evitato accuratamente ogni serio sforzo di autocritica e responsabilizzazione. Nessuno fra gli appartenenti al “gruppo di pensiero” dell’Iraq fu punito, anzi continuano a essere considerati fra i più autorevoli esperti di politica estera, e le loro analisi ponderose continuano ad apparire sulle pagine più influenti del giornalismo americano.
Lo stesso presidente George W. Bush, le cui menzogne deliberate avevano comportato un’enorme tributo in termini di vite umane – migliaia quelle della coalizione, centinaia di migliaia quelle irachene, poté ripresentarsi alle elezioni e vincerle una seconda volta.
Dall’inizio della crisi ucraina, autunno 2013, questa schema è stato puntualmente riproposto. Si è scelto di nuovo di trascurare il contesto generale, la situazione storico-politica, per passare direttamente alla demonizzazione degli avversari, in modo che i fatti passassero in second’ordine.
E i fatti sono: un sostanziale colpo di stato ha abbattuto un governo democraticamente eletto, con l’appoggio di Stati Uniti ed Europa; l’impegno americano nei confronti della Russia di non allargare la NATO ai paesi ex blocco sovietico non è mai stato onorato.
La demonizzazione dell’avversario, dice Parry, passa per la descrizione “di un Yanukovic corrotto che si poteva permettere una costosissima sauna nel suo palazzo, e di un Putin autocrate che cavalca a torso nudo e non riconosce i diritti delle minoranze omosessuali; per cui se hai delle riserve sulla legittimità del nuovo governo ucraino in qualche modo, oltreché omofobo, sei a favore delle saune costose e delle cavalcate a torso nudo”.
Secondo Parry, il metodo viene applicato sistematicamente da quando i neocons, dall’amministrazione Reagan in poi, si sono insediati nell’apparato di governo, dove influenzano tutte le decisioni di politica estera, oltre a buona parte delle decisioni di politica interna, qualunque sia il presidente in carica.
È la stessa tesi di Rodrigue Tremblay, di cui ho già tradotto un articolo su Clinton.
Anche per lui l’apparato di governo americano è controllato dai neocon, ed è la loro visione politica a condizionare l’azione del Dipartimento di stato e del Pentagono (nonché – seppure in modo più dialettico – del Tesoro e della Banca centrale). Un’egemonia inziata sotto Reagan, quando la politica estera americana iniziò a connotarsi per “l’interventismo militare, la guerra perpetua, il rovesciamento arbitrario di governi stranieri e una gestione mondiale di tipo imperialista su ogni questione che toccasse gli interessi americani o dei loro più stretti alleati”.
Paul Wolfowitz, politico chiacchierato per uno scandaletto ai tempi della sua Presidenza alla Banca Mondiale e per aver improvvidamente indossato calzini bucati in occasione di una visita alla moschea di Edirne in Turchia, è stato il teorico che ha sistematizzato tale politica in una dottrina coerente (!), che vede gli Stati Uniti nel ruolo di unica potenza globale. La dottrina Wolfowitz postula esplicitamente la possibilità per gli USA di conseguire i propri obiettivi di politica estera attraverso azioni unilaterali, secondo il diritto che deriverebbe loro dal fatto di essere unica potenza mondiale rimasta dopo la caduta dell’URSS. Da qui la necessità di continuare a investire negli armamenti, benché la caduta dell’impero sovietico e le prospettive di pace facessero sperare al contribuente americano in una minore pressione fiscale.
In un suo saggio del 2000, “Ricostruire le difese dell’America”, Wolfowitz ribadiva la necessità per l’America di tornare ad armarsi a supporto di una politica estera più aggressiva.
Particolare inquietante: affinché si creasse il necessario consenso dell’opinione pubblica intorno a questo progetto, scriveva, sarebbe stata auspicabile una “nuova Pearl Harbour”. L’attentato alle Torri Gemelledel settembre 2001, casualmente, fu la “nuova Pearl Harbour” che riuscì a coagulare quel consenso.
Sia Tremblay che Parry sembrano convinti che la politica estera americana è neo-conservatrice perché i neocons controllano il governo americano. Il mio dubbio è che abbiano invertito i fattori: sarebbe forse più corretto dire che i neocons controllano il governo perché la politica estera americana è neo-conservatrice chiunque governi, repubblicani o liberali. Mi pare innegabile che le amministrazioni che si sono succedute da Reagan a Obama, sotto questo aspetto, sono difficilmente distinguibili fra loro. Probabilmente le uniche differenze riscontrabili fra l’attuale amministrazione Obama e quella precedente di Bush jr sono di ordine retorico: a dispetto delle dichiarazioni del debutto, che gli sono valse il primo “premio Nobel alle intenzioni” della storia, Obama ha mantenuto ed esteso la linea del predecessore.
Nel suo discorso a West Point del 28/5/2014 gli sentiamo affermare: “Gli Stati Uniti useranno la forza militare, unilateralmente se necessario, se i nostri interessi supremi lo domandassero. L’opinione pubblica internazionale è importante, ma l’America non domanderà mai il permesso […] Credo nell’eccezionalismo americano con tutte le fibre del mio essere”.
L’espressione american exceptionalism, non è una mera formula retorica, ma il riferimento a una precisa ideologia che ha radici antiche e che attribuisce agli Stati Uniti lo status di nazione qualitativamente superiore alle altre, grazie all’insieme di caratteristiche storiche, politiche, economiche e religiose che la distinguono, e per gli ideali nazionali che la animano. Nella sua forma più esasperata coincide con il jingoism, una dottrina sciovinista del XIX secolo, che pone la nazione americana come identità culturale prioritaria e postula un’aggressiva politica estera.
In nome dell’american exceptionalism i Presidenti americani non esitano a mentire quando lo ritengono necessario, perché l’eccezionalismo è per definizione assolutorio. Ha mentito Bush jr; non esita a mentire Obama. Lo ha fatto almeno in due occasioni davanti all’assemblea delle Nazioni Unite.
La prima volta accusando Bashar al-Assad di essere lui il responsabile dell’attacco con armi chimiche che nell’agosto del 2013 causò la morte di diverse centinaia di civili nei sobborghi di Damasco. Benché non potesse non conoscere i forti sospetti espressi dai suoi servizi che dietro l’uso del Sarin ci fossero i ribelli, Obama dichiarò che “è un insulto alla ragione umana e alla legittimità di questa assemblea ipotizzare che siano stati altri e non il regime siriano a condurre questo attacco“.
La seconda volta un anno dopo, a proposito della crisi Ucraina: “Le recenti azioni russe in Ucraina mettono a repentaglio l’ordine stabilito. I fatti sono questi. A seguito delle mobilitazioni di protesta del popolo ucraino che chiedeva riforme, il loro corrotto presidente è fuggito. Contro la volontà del governo di Kiev, la Crimea è stata annessa alla Federazione Russa. La Russia ha riversato armi nell’Ucraina orientale appoggiando le violenze separatiste e un conflitto che ha ucciso migliaia di persone“.
Una rappresentazione dei fatti quantomeno incompleta, considerata la complessa realtà che intendeva descrivere .
Anche qui Obama non poteva non sapere dei dubbi che le manifestazioni fossero eterodirette da infiltrati neo-nazisti, o di gravi provocazioni come gli episodi di cecchinaggio di cui chiacchierano la Ashley e Paet in una famosa telefonata inopinatamente registrata, che anche lui deve avere ascoltato; o dei 5 miliardi di dollari investiti dal suo Governo “a supporto delle aspirazioni Europee del popolo ucraino”, secondo ammissione del Vice-segretario di stato, Victoria Nuland (quella del “fuck EU” – ‘fanculo l’Unione Europea); o che il corrotto Yanukovitch era stato un apprezzato interlocutore finché le trattative per l’ingresso dell’Ucraina nella UE erano rimaste in piedi. Obama non poteva non ricordare che il giorno dopo il raggiunto accordo fra Yanukovitch e i rappresentanti delle opposizioni per la formazione di un governo di coalizione, elezioni presidenziali anticipate e riforme costituzionali, le milizie neo-naziste avevano attaccato il palazzo presidenziale e costretto Yanukovitch alla fuga. Non poteva non sapere della strage di Odessa, il maggio precedente; o che la Crimea era stata annessa alla Federazione Russa dopo un referendum – la cui legittimità, per quanto opinabile, era almeno pari a quella dell’insediamento del governo provvisorio in Kiev dopo la forzata fuga del presidente eletto. E via dicendo…
Ma l’eccezionalismo americano ammette queste e altre distrazioni.
Riferimenti:
https://consortiumnews.com/2014/09/25/obamas-propagandistic-un-address/
https://consortiumnews.com/2015/01/30/group-thinking-the-world-into-a-new-war/
http://www.lecodepouruneethiqueglobale.com/pb/wp_5b545ea3/wp_5b545ea3.html#2015
Pubblicato anche su
questa parte mi ha fatto morire
“per cui se hai delle riserve sulla legittimità del nuovo governo ucraino in qualche modo, oltreché omofobo, sei a favore delle saune costose e delle cavalcate a torso nudo”.
però se posso, direi che manca un pezzo. Non è da reagan in poi che USA diventano interventisti aggressivi….ma da ben prima. l’operazione Condor in america latina iniziò negli anni 60. questo fatto di voler indiviuare in reagan per forza l’uomo che ha mutato in male le cose è riduttivo….gli USA, sempre pesantemente interventisti in america latina, prima isolazionisti e dalla WWII interventisti anche sul resto del mondo, hanno portato progressismo sociale nel mondo a partire dagli anni 30 con Roosevelt fino appunto a inizio anni 60. un trentennio. basta. dopodichè le posizioni di potere sono gradualmente tornate in mano a un ceto affarista simile a quello che aveva preso il potere attorno al 1910. e da lì in poi anche presidenti nell’immaginario molto ben visti come lo stesso Kennedy compirono diverse ingerenze verso paesi sovrani. sempre di più.