La Libia e la classe politica italiana
La Libia è ancora nel caos. Gruppi rivali si contendono la conquista dell’intero Paese diviso in più territori: gli islamisti di al Fajar hanno conquistato Tripoli; i “laici” e i militari presidiano Tobruk; i guerriglieri dell’Isis, guidati da Abu Mohammed al-Adnani, avanzano e sembra abbiano fondato un piccolo califfato a Derna in rapida espansione. Ora sono giunti fino a Sirte, la città natale di Gheddafi, su un golfo dove si trovano anche dei pozzi petroliferi. Forse l’Isis controlla anche Zuara, il porto da dove partono quasi tutti barconi colmi di migranti diretti verso l’Italia. Chi è responsabile di questa tragedia? Di chi sono le colpe di questo macello? Rievocare gli avvenimenti di tre anni fa forse non dà risposte esaurienti e definitive, ma può aiutare a capire gli avvenimenti di oggi.
Nel Giugno 2009 Berlusconi, capo del governo italiano, sottoscrive con Gheddafi un vantaggioso trattato di amicizia, con il quale l’Italia si impegna a non concedere mai le basi Nato, presenti sul nostro territorio, per attaccare la Libia. Due anni dopo, Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica Italiana e comandante in capo delle Forze armate, si rende protagonista della decisione di far entrare l’Italia nella coalizione bellica internazionale contro Gheddafi. In un notturno e drammatico gabinetto di guerra, fa di tutto per condizionare Berlusconi a unirsi all’intervento armato che Francia e Stati Uniti hanno organizzato a tavolino. Berlusconi si piega alla volontà di Obama e Sarkozy di abbattere Gheddafi. Il quotidiano Manifesto intervista il capo dello Stato e chiede se una tal grave decisione sia compatibile con l’articolo 11 della Costituzione italiana, che vieta la guerra contro altri popoli. Napolitano dichiara: “L’articolo 11 della Costituzione deve essere letto e correttamente interpretato nel suo insieme. Partecipando alle operazioni contro la Libia sulla base della risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, l’Italia non conduce una guerra né per offendere la dignità di altri popoli, né per risolvere controversie internazionali” (1). Da questo momento scatta la mobilitazione di telegiornali e quotidiani mondialisti per presentare Gheddafi come una copia levantina di Hitler.
A fornire il più forte sostegno alla guerra della NATO contro la Libia è la cosiddetta “sinistra” e in particolare il Partito Democratico (PD), l’altra formazione della coalizione unica, che nelle sedute parlamentari del 23 Marzo e del 4 Maggio, si pronuncia favorevolmente e con entusiasmo sugli attacchi della Nato. In seguito alla risoluzione Onu che dà il via libera alla guerra, lo zelo di Bersani incalza la maggioranza: “Vogliamo capire anche se la maggioranza è in grado di garantire gli impegni presi”. La sua mozione, sulla quale i governativi fingono l’astensione, è portata a termine con una larga maggioranza, espressa dai partiti di sinistra alleati con gli ominicchi centristi di Casini e offerta a Berlusconi che sentitamente ringrazia. Non fanno mancare il loro supporto Bertinotti e Vendola che indorano la guerra con la giustificazione “umanitaria” e la “difesa della democrazia”. Bertinotti scrive sul suo sito web: “Il pacifismo non è un concetto che è scolpito nella pietra” e aggiunge che esso deve essere “flessibile”. Nel mese di Febbraio, Vendola approva gli sforzi del consiglio nazionale libico di transizione per rovesciare Gheddafi, salvo poi invocare, ma dopo l’uccisione del Colonnello, un ipocrita ‘cessate il fuoco’ e l’assistenza umanitaria sotto il controllo dell’Unione europea. In nome della “responsabilità” La Russa, ministro americano della difesa, Frattini, ministro americano degli esteri e Fini, presidente americano della camera, si sintonizzano, in queste piroette, perfettamente con la cortigianeria del piddì dei D’Alema e dei Veltroni, già campioni nel 1999 a Belgrado. A parte una calcolata obiezione di Bossi che teme soltanto un possibile afflusso incontrollato di profughi ma sta bene attento a non far cadere il governo, tutti approvano subito la scelta “bulgara” dell’entrata in guerra.
Berlusconi in un primo tempo concede le basi Nato in Sicilia a francesi e inglesi, che da lì fanno partire i loro bombardieri per vomitare morte su Tripoli e altre città libiche; poi ordina i bombardamenti italiani. Dal 28 Aprile l’Italia partecipa attivamente; giorno e notte, i caccia italiani decollano da Trapani Birgi e dalla portaerei Garibaldi per fare guerra all’ex colonia. Ma “Noi non siamo entrati in guerra” dichiara Napolitano; e così “argomenta”: “La carta delle nazioni unite prevede un capitolo, il settimo, il quale nell’interesse della pace ritiene che siano da autorizzare anche azioni volte, con le forze armate, a reprimere le violazioni della pace”. Però a violare il trattato di pace e di amicizia firmato due anni prima è l’Italia che, per giunta, conduce una guerra contro gli interessi nazionali. Un’indegna, servile, scellerata classe dirigente ci ha reso responsabili dell’ennesima “guerra umanitaria” a salvaguardia degli interessi strategici stranieri. Noi, prima ancora che i nostri interessi, perdemmo l’onore. Niente di nuovo. Facemmo la stessa cosa in Serbia nel 1999, sotto la procura-quisling di D’Alema.
(1) (https://www.wsws.org/it/2011/jun2011/lbit-j22.shtml).
Famosa la frase di Kissinger quando a Cernobbio nel 2001 ritrova il vecchio amico italiano salutandolo così : “My favourite communist”, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: “Il mio ex comunista preferito!”.
Buon vitalizio, caro Napo, sperando che sia cortissimo.