Dove non c'è profitto c'è stato/Stato
Pensando alla capacità distruttiva del liberismo mi è balenata in mente la frase che dà il titolo a questo articolo. Ho subito capito che, cambiando semplicemente il carattere di una lettera, la sentenza avrebbe mutato completamente senso, dandomi così la possibilità di una piccola riflessione politica.
Dietro la frase con la “s” minuscola vi è il principio liberista secondo il quale un capitalista deve cercare il suo profitto senza tener minimamente conto della sua responsabilità sociale, perché comunque il mercato si autoregola e la ricerca del benessere individuale finisce sempre per giovare in qualche modo al benessere collettivo. Pertanto egli sfrutta persone e territori finchè questi gli garantiranno un profitto soddisfacente; nel momento in cui ciò non avverrà più li abbandonerà, spostando i suoi capitali su un altro territorio che gli possa garantire maggiori profitti.
Al contrario, alla base della frase con la “S” maiuscola vi è il principio keynesiano secondo il quale vi sono settori dell’economia nei quali lo Stato deve intervenire per garantire la fornitura di alcuni beni e servizi che altrimenti non sarebbero prodotti, lasciando nella povertà interi territori con tutte le persone che vi vivono. Pertanto, dove non c’è profitto, o dove questo non sia ritenuto soddisfacente dai capitalisti, è necessario che intervenga lo Stato: ciò deve avvenire proprio perchè il mercato non si autoregola, non vi è una “mano invisibile” a governare le faccende umane e la ricerca egoistica del proprio interesse non giova affatto all’interesse della collettività.
Molto spesso, in passato, le due fasi sono state consequenziali: i capitalisti hanno sfruttato intere aree finendo addirittura per devastarle, nel senso letterale del termine; successivamente lo Stato, per non lasciare nell’indigenza milioni di persone che vivevano in quei territori, ha costruito esso stesso le infrastrutture necessarie per garantire loro una vita dignitosa.
Si potrebbero fare un’infinità di esempi di questo tipo, ma quello più emblematico resta sempre il caso della valle del fiume Tennessee negli Stati Uniti d’America. Innanzitutto perché avvenne nel Paese che da sempre si è maggiormente eretto ad alfiere del capitalismo liberista, poi perché riguardò circa due milioni e mezzo di persone.
La valle del fiume Tennessee è un’area vastissima di circa centomila chilometri quadrati, che tocca ben sei stati: Tennessee, Georgia, Mississipi, North Carolina, Kentucky e Virginia. Negli anni venti era una delle aree più povere degli Stati Uniti, visto che il reddito pro capite degli abitanti era inferiore alla metà di quello nazionale e il terreno arido e infruttuoso. Non era sempre stato così: nel XIX secolo era un’area prospera con una terra fertile, un clima mite e una piovosità sufficiente, al punto tale che si riteneva sarebbe divenuta una seconda California. Ma alla fine dell’Ottocento i cosiddetti “robber barons”i misero le mani su questo territorio. Nel giro di pochi anni le loro avide speculazioni devastarono completamente la regione. Intere foreste vennero abbattute, provocando una massiccia erosione del suolo e trasformando ampie zone di terre fertili in un paesaggio lunare. Il liberismo era passato come un ciclone e in pochi anni aveva preso tutto quello che poteva garantire un profitto, lasciando alle sue spalle solo miseria e desolazione.
La valle del fiume Tennessee fu abbandonata a sé stessa e la situazione rimase così fino al 1933, quando il presidente Roosevelt, nell’ambito delle politiche del New Deal, firmò il Tennessee Valley Authority Act, ossia la legge che autorizzava il governo federale ad assumere la gestione diretta dello sviluppo regionale della valle.
La TVA (Tenneessee Valley Authority) si fece carico della costruzione di una serie di enormi dighe e di chiuse per far ritornare la terra fertile, rendere navigabili i corsi d’acqua e prevenire le alluvioni. Inoltre, il governo si prefisse lo scopo di salvaguardare la terra tramite la riforestazione e la valorizzazione delle aree coltivabili che avrebbero dovuto riportare la zona alle condizioni antecedenti l’ipersfruttamento di fine Ottocento. Tuttavia il fulcro principale del progetto era sviluppare una fonte di energia elettrica governativa, non solo per alleviare la povertà che affliggeva l’area, ma anche in quanto servizio pubblico essenziale, poiché fino a quel momento le campagne statunitensi erano state lasciate letteralmente al buio. Nel 1930 solo il trenta per cento delle famiglie americane aveva accesso all’elettricità: di queste, meno del 10% viveva nelle campagne. In questo campo, il capitalismo liberista aveva mancato l’impegno con i consumatori. Questa mancanza appariva ancora più grave se si guardava alla produzione di automobili in serie di Ford. In quegli anni, paradossalmente, buona parte degli statunitensi aveva la macchina, ma non aveva la corrente elettrica in casa. Inoltre, il governo decise che la produzione idro-elettrica della TVA dovesse divenire un metro per giudicare i costi leciti e dunque le tariffe della stessa produzione da parte delle industrie private. Questo provvedimento portò all’aperto scontro con i proprietari delle società private dell’elettricità, che accusarono più volte Roosevelt di adoperare “misure socialiste, che portavano gli USA verso la dittatura”.
Praticamente la TVA stava mettendo in atto una politica di stampo keynesiano: lo Stato si era fatto carico di alcune spese per garantire la fornitura di beni e servizi in un’area che il liberismo aveva abbandonato a sé, perché considerata non sufficientemente remunerativa. Roosevelt era pienamente consapevole di questo. Egli sapeva che l’intervento dello Stato nell’economia era necessario, come si poteva evincere dal suo messaggio al Congresso che accompagnava il disegno di legge, dove addirittura giunse a parlare di pianificazione dell’economia:
è chiaro che lo sviluppo di Muscle Shoals non è che una piccola parte dell’utilità pubblica potenziale dell’intero fiume Tennessee. Tale uso, se considerato nella sua interezza, trascende il mero sviluppo energetico; coinvolge i vasti temi del controllo delle piene, dell’erosione dei suoli, della forestazione, dell’eliminazione dell’uso agricolo delle terre marginali, della distribuzione e diversificazione delle industrie. In breve, questo sviluppo energetico conduce logicamente alla pianificazione nazionale di interi bacini fluviali, coinvolgendo molti stati e le vite future e il benessere di milioni di persone (…) Molte dure lezioni ci ha insegnato la devastazione umana, che deriva dalla mancanza di pianificazione. È tempo quindi di estendere la pianificazione a un campo più vasto. ii
La TVA ebbe una notevole importanza simbolica per gli USA degli anni Trenta. Lo dimostra il libro Democracy on the march che David Lilienthal, membro del consiglio d’amministrazione della TVA, pubblicò nel 1944 e che iniziava così:
Questa è la storia di un grande cambiamento. È il racconto di un fiume errabondo e incostante trasformato in una catena di laghi ampi e incantevoli, che la gente può godersi e sui quali può fare affidamento, in ogni stagione, grazie al movimento delle chiatte che alimenta le imprese del luogo. È la storia di come le acque, un tempo infruttuose o causa di devastazioni, siano state governate e adesso lavorino giorno e notte per produrre energia elettrica che illumina le umane fatiche. È la storia di campi diventati vecchi e sterili con gli anni e che ora sono vigorosi e nuovamente fertili e si estendono verdi al sole; di boschi che erano stati abbattuti e spogliati e ora sono protetti e rinnovati con alberi forti e giovani.iii
Sin dalle prime battute il libro esaltava l’azione politico-economica di Roosevelt; successivamente proponeva un’analogia tra le dighe costruite e il New Deal. Come le prime avevano posto fine alle catastrofiche alluvioni del passato, così la politica del presidente Roosevelt aveva imposto regole al capitalismo liberista; le acque dei fiumi erano state regolate dalle dighe come il New Deal aveva messo le redini ad un liberismo rampante. Come scrisse lo storico tedesco Schivelbusch: “la TVA era la realizzazione in acciaio e cemento dell’autorità regolatrice del New Deal”.iv
Questo è solo uno degli innumerevoli esempi in cui lo Stato subentrò in un’area dove i capitalisti non vedevano più profitti ed è la dimostrazione che, permettetemi il gioco di parole, dove non c’è profitto significa che molto probabilmente il profitto c’è stato in passato: quindi è necessario che adesso ci sia lo Stato per dare beni, servizi e dignità alle persone che vivono in queste aree che hanno avuto la sfortuna di conoscere il capitalismo dei “robber barons”.
Luca Mancini
ARS Lazio
iCon il termine “robber baron” si fa riferimento a imprenditori e banchieri che ammassano grandi quantità di denaro, costruendosi delle enormi fortune personali, solitamente attraverso la concorrenza sleale. L’origine del termine è sconosciuta, ma sembra sia stato usato per la prima volta nel 1880 dai contadini del Kansas in rivolta contro i magnati delle ferrovie.
iiFonti Alessandro, Norris Town 1933-1938. Architettura e pianificazione nella Tennessee Valley Authority, p. 41, Milano 2000.
iiiLilienthal David, TVA. Democrazia in cammino: dieci anni di esperienza del TVA, p. 1, Torino 1946.
ivSchivelbush Wolfgang, 3 New Deal, p. 143, Milano 2008.
Grazie per questo post che riempie un vuoto cognitivo: nei manuali scolastici di storia il Tennessee Valley Authority Act si trova appena citato; evidentemente li ispirano ” i proprietari delle società private dell’elettricità”.