Jacques Sapir: Il rivelatore greco
L’Unione europea vanta per sé i valori più alti. Con la voce dei dirigenti suoi e di quelli dei suoi paesi membri afferma di rappresentare la democrazia, la libertà e la pace. Tuttavia ne dà concretamente un’immagine molto differente. Non soltanto viola i propri valori a più riprese, ma sviluppa un’ideologia che è in realtà opposta ai valori che pretende incarnare.
L’Unione europea pretende di instaurare regole comuni e di solidarietà tra i paesi membri e anche oltre questi; i fatti smentiscono tragicamente e sempre più le idee di solidarietà, anche di quella al suo interno. Il budget comunitario, pur ridotto a meno dell’1,25% del PIL, è destinato a ridursi ancora. Queste due contraddizioni alimentano la crisi politica e insieme economica che l’UE conosce. Ne minano le fondamenta e oscurano in misura considerevole l’avvenire.
Il rivelatore greco
Il trattamento inflitto alla Grecia è un buon esempio della realtà delle pratiche in seno all’UE; aggiungiamo che, ahimè, non è il solo. Ma serve da rivelatore e manifesta la profonda ipocrisia della costruzione europea.
Rammentiamo i fatti: la Grecia ha conosciuto una crisi del debito sovrano all’inizio del 2010, le cui conseguenze rischiavano di essere costose per le principali banche dei paesi europei che avevano prestato a questo paese con piena cognizione di causa e in ragione dei tassi di interessi altamente remunerativi. I diversi piani «d’aiuto» alla Grecia hanno avuto per unica ragione quella di evitare un défaut al fine di permettere alle banche private, essenzialmente francesi e tedesche, di liberarsi e rivendere i titoli greci che avevano acquistato. Questi piani «d’aiuto» hanno parecchio appesantito il debito. Hanno avuto per contropartita piani di austerità, messi in opera da quella che si è chiamata la «troika», cioè la BCE, la Commissione europea e il FMI. Questi piani di austerità hanno a loro volta provocato una grande crisi economica e sociale in Grecia, con un tasso di disoccupazione di più del 25%, una pauperizzazione galoppante e una distruzione del sistema di protezione sociale.
Questa austerità è stata imposta alla Grecia da squadre di esperti inviati dalla «troika» che sono venuti a installarsi nei ministeri e che hanno poi dettato le loro condizioni. Al limite della forza, ma anche al limite della pazienza, esasperati dall’umiliazione permanente rappresentata dalla presenza di esperti della «troika», gli elettori greci, il 25 gennaio 2015, hanno inviato un messaggio molto chiaro: la popolazione rifiutava l’austerità per conto dei banchieri di Francoforte o di Parigi, portando al potere un partito di sinistra il cui programma prometteva di mettere fine a questa austerità intraprendendo riforme che gli altri governi, tanto socialisti (PASOK) che di centro-destra (Nuova Democrazia) si erano sempre rifiutati di fare, come una riforma sul reddito imponibile e sull’amministrazione.
Per tentare di realizzare il loro programma, i dirigenti di Syriza hanno deciso di allearsi con un partito di destra, i «Greci Indipendenti». Bisogna qui ricordare che An.El è certo un partito di destra, ma di una destra che in Francia si qualificherebbe repubblicana. Questo partito ha d’altronde buone relazioni con «Debout la France» di Nicolas Dupont-Aignan. Non si tratta dunque di un partito di estrema destra come blatera il tristo figuro Colombani. Avrebbero potuto allearsi con un partito centrista, esplicitamente pro-europeo (To Potami, ossia Il Fiume) o con i frammenti del partito socialista, il PASOK. Hanno fatto una scelta che appare strana solo a quelli che non comprendono la posta in gioco della sovranità.
Lungi dal rallegrarsi dell’arrivo al potere di un partito (poi di una coalizione) deciso ad attaccare frontalmente i problemi strutturali della Grecia, che si chiamano corruzione, clientelismo e nepotismo, l’UE non ha avuto tregua nel voler cancellare questo governo, nel volergli imporre un altro programma da quello per il quale era stato eletto. Così essa mostra il suo disprezzo totale della democrazia con cui i suoi dirigenti sono soliti sciacquarsi la bocca. Quale che sia l’esito della crisi attuale, che si abbia un cattivo accordo, un défaut, o un’uscita della Grecia dall’euro, l’atteggiamento odioso dell’UE resterà nella memoria di ogni europeo, ma anche di altri.
Qui si scopre che l’UE si comporta non diversamente dall’Unione Sovietica quando impose la teoria della sovranità limitata, come fu il caso di Praga nell’agosto del 1968. Così mostra lo scarso valore che attribuisce alla democrazia. Se una comunità politica non è più padrona del suo destino, non può più esservi democrazia al suo interno. Se se ne vuole una prova, ricordiamo questa citazione di Jean-Claude Juncker, il successore dell’ineffabile Barroso alla testa della Commissione europea: «Non ci possono essere scelte democratiche contro i trattati europei». È l’affermazione placida e soddisfatta della superiorità delle istituzioni non elette sul voto degli elettori, della superiorità del principio tecnocratico sul principio democratico.
Un nuova lettura dell’Unione europea
Il segnalatore greco incita allora a rileggere le altri azioni dell’UE. Sia sulle negoziazioni commerciali internazionali, che essa conduce nell’opacità più totale, com’è il caso del Trattato Transatlantico, sia sulla questione degli OGM, in cui essa impone ai consumatori europei prodotti che essi non vogliono, per il profitto più grande di un gigante dell’industria nord-americana, MONSANTO, tanto per citarlo, sia sulla questione della solidarietà tra i paesi membri.
L’Italia è stata lasciata sola a gestire la catastrofe umanitaria provocata dall’intervento franco-britannico in Libia che ha portato alla morte di Gheddafi. Ugualmente, la Grecia è stata lasciata sola a far fronte ai flussi migratori dalla Turchia e dal Medio Oriente. Da parte sua, la Francia è stata lasciata quasi sola nella lotta contro l’islamismo radicale nel sud-Sahel (Mali, Niger) nel momento in cui la Commissione europea le chiede di fare più economia. I fondi strutturali, che avrebbero un effetto di modernizzazione importante su paesi come il Portogallo e la Grecia, sono oggi ridotti alla congrua. Nei prossimi anni il budget dell’Unione europea, già all’irrisorio 1,23% del PIL, è destinato a ridursi ancora, sotto la pressione combinata della Gran Bretagna e della Germania.
In ognuno di questi ambiti si vede un profondo regresso alle pratiche degli anni 1970 e 1980, quando non si parlava di Unione europea ma, più semplicemente, di «Mercato comune» e di Comunità economica europea. Nei discorsi questo regresso si accompagna a un’ascesa agli estremi. Più si stacca dai principi di solidarietà e di democrazia, più l’EU ne parla. Più opprime i popoli dei paesi membri, più si presenta come liberatrice per gli altri. Se ne è avuto un tragico esempio con la crisi ucraina, in cui il comportamento irresponsabile dell’UE non è stato trascurabile nello scatenare la crisi. Da allora si vede bene la logica di oppressione in cui cade l’UE per la sua volontà di negare il principio di sovranità.
Una teorizzazione delle tesi europeiste e la sua critica
Un autore ungherese, molto incensato dalle istituzioni europee, ha cercato di produrre una confutazione del ruolo fondamentale della sovranità, quale esso emerge dalle opere di Bodin e di Jean-Jacques Rousseau. Da questo punto di vista Andras Jakab può essere considerato un ideologo del potere europeista. Le sue tesi sono perfettamente convergenti con il discorso tenuto dall’UE. Dopo un’analisi comparata delle diverse interpretazioni della sovranità, Jakab afferma per il caso francese: «La sovranità popolare pura fu compromessa da un abuso estensivo di referendum sotto il regno di Napoleone I e di Napoleone III, mentre la sovranità nazionale pura fu sentita insufficiente dal punto di vista della sua legittimazione».
Questo equivale a sostenere che un abuso pervertirebbe il principio abusato. Ma può essere così solo se l’abuso dimostra una incompletezza del principio e non della sua messa in opera. A qualcuno verrebbe in mente di distruggere le ferrovie per l’uso che ne fecero i nazisti nel genocidio degli ebrei e degli zingari? Ora, proprio questo è il nocciolo del ragionamento portato avanti da Jakab. Tuttavia nell’uso politico fatto del plebiscito non è affatto evidente che questo uso sia il solo possibile. Se un plebiscito è uno strumento non-democratico, non ogni referendum, per fortuna, è un plebiscito.
La confusione tra le due nozioni creata dall’autore è molto pericolosa e francamente disonesta. La pratica che consiste nell’assimilare referendum e plebiscito – perché di questo si tratta nel testo – è un errore logico. Segue la discussione sulla portata che bisogna attribuire alla decisione del Consiglio costituzionale riguardo alla Nuova Caledonia, in cui è detto che «la legge votata … esprime la volontà generale solo entro il rispetto della costituzione». Anche qui si mette in opera in modo volontario la strategia della confusione. Quello che il Consiglio costituzionale riconosce, in quel caso, è la superiorità logica della costituzione sulla legge.
Non è affatto, come pretende Jakab, l’asservimento della sovranità. Infatti dire che il processo legislativo debba essere inquadrato da una costituzione non fa che ripetere il contratto sociale di Rousseau.
Qui è in gioco soltanto il partito preso da questo autore di rifiutare o di cercare di limitare il concetto di sovranità. Per questo fa appello ai lavori di Hans Kelsen. Si sa che, per quest’ultimo, il diritto di uno stato è subordinato al diritto internazionale, e quest’ultimo esiste in maniera implicita attraverso un sistema di «leggi naturali» che sarebbero proprie della condizione umana, così da servire da norme per il diritto degli stati.
Ma, al contrario, si può ritenere che il diritto internazionale derivi dal diritto di ogni stato, che esso sia un diritto di coordinazione. È la logica sviluppata da Simone Goyard-Fabre. Andras Jakab si vede allora obbligato a riconoscere che «sfortunatamente, dal punto di vista della definizione della nazione, la sovranità come tale non è definita in alcun trattato internazionale (forse perché un accordo sulla questione sarebbe impossibile)». Egli aggiunge qualche riga sotto: «Ma l’accettazione totale del primo diritto del sovrano, cioè dell’esclusività, non è soddisfacente, viste le nuove sfide, ossia la globalizzazione». Così facendo scivola, nello stesso movimento, da una posizione di principio a una posizione determinata da un suo modo di interpretare – modo che si può rifiutare – un contesto fattuale. Questa tentativo è stato criticato a suo tempo da Simone Goyard-Fabre: «Che l’esercizio della sovranità si possa fare solo per mezzo di organi differenziati, dalle competenze specifiche e operanti indipendentemente gli uni sugli altri, non implica nulla quanto alla natura del potere sovrano dello stato. Il pluralismo organico (…) non divide l’essenza o la forma dello stato; la sovranità è una e indivisibile».
Poiché pretende di fondare sulla limitazione pratica della sovranità una limitazione del suo principio, l’argomento è, in fondo, di grande fragilità. Gli stati non hanno mai preteso di poter controllare materialmente tutto, nemmeno sul loro territorio. I despoti più potenti e assoluti erano impotenti di fronte all’uragano e alla siccità. Non bisogna confondere i limiti legati al dominio della natura e la questione dei limiti della competenza del sovrano.
Si capisce bene, allora, che questo tentativo ha per obiettivo, consapevole o meno, di presentarci il contesto fattuale come determinante rispetto ai principi. La confusione tra i livelli di analisi arriva così al colmo. Questa confusione ha naturalmente per obiettivo di far passare per logico ciò che non lo è: la subordinazione della sovranità. Ora, questa subordinazione è contraria ai principi del diritto. Non c’è molto da stupirsi, in queste condizioni, che l’articolo di Jakab abbia ricevuto tanti premi dalle istituzioni dell’UE.
La sovranità e i trattati internazionali
I sostenitori dell’europeismo avanzano allora l’ipotesi che i trattati internazionali limitino la sovranità degli stati. Così si ritiene che, avendo acconsentito al trattato di Maastricht, i paesi membri dell’UE si siano privati di una parte della loro sovranità. I trattati sono in effetti percepiti come obbligazioni assolute nel nome del principio Pacta sunt servanda.
Ma questo principio può dare luogo a due interpretazioni; la prima: che questi trattati non siano altro che una messa in opera di un altro principio, quello della razionalità strumentale. Ciò implica dunque la supposizione di una ragione immanente e di una compiutezza dei contratti che i trattati sono, due ipotesi di cui è facile mostrare la falsità, ma nelle quali si ritrova però traccia della Grundnorm di Kelsen, privata dei suoi orpelli religiosi. Nessun trattato è però redatto per durare fino alla fine dei tempi. La seconda interpretazione: si può anche ritenere che questo principio significhi che la capacità materiale dei governi di prendere delle decisioni presuppone che tutte le decisioni anteriori non siano sempre e subito rimesse in causa.
Questo argomento fa appello a una visione realista delle capacità cognitive degli agenti.
Un trattato che fosse immediatamente messo in discussione appena asciugato l’inchiostro della firma implicherebbe un mondo di una confusione e di un’incertezza dannose per tutti. Ma dire che è augurabile che un trattato non sia contestato immediatamente, non implica che non lo possa essere mai. In certi periodi è opportuno poter contare sulla stabilità dei quadri che organizzano dei trattati, ma questo non giustifica affatto la loro superiorità sul potere decisionale delle parti firmatarie, e dunque sulla loro sovranità. Del resto, ciò accade perché il diritto internazionale è necessariamente un diritto di coordinazione e non un diritto di subordinazione. Vi è regola l’unanimità e non la maggioranza. Ciò significa che la comunità politica è quella degli stati partecipanti, e non la somma indifferenziata delle popolazioni di questi stati.
Un trattato è costrittivo solo per il suoi firmatari, e quando s’impegna con la firma, ogni firmatario vi gode di un diritto uguale, quale che sia la sua grandezza, la sua ricchezza o il numero dei suoi abitanti. Voler sostituire al diritto di coordinazione il diritto di subordinazione ha un solo significato: la creazione di un diritto che sarebbe separato dal principio della sovranità e non avrebbe altro fondamento alla sua esistenza che se stesso. Un diritto simile, si colleghi o pretenda di collegarsi a un principio democratico, nega il principio di legittimità. È dunque immorale in quanto non distingue più il giusto dal legale.
Sovranità e decisione
La questione della sovranità non dipende dunque soltanto da chi prenda le decisioni, detto altrimenti: dal sapere se il processo sia interno o esterno alla comunità politica in questione. La sovranità dipende anche dalla pertinenza delle decisioni che possono essere prese sulla situazione di questa comunità e dei suoi membri. Una comunità che, a causa dei trattati, potesse prendere solo decisioni senza importanza sulla vita dei suoi membri non sarebbe meno asservita di quella che si trovasse effettivamente oppressa da una potenza straniera.
Questo si congiunge allora a una concezione della democrazia sviluppata da Adam Przeworski. Per questo autore, la democrazia non può risultare [che] da un compromesso su un risultato. Ogni tentativo di predeterminare il risultato del gioco politico, sia nel dominio della politica, che dell’economia o del sociale, non può che viziare la democrazia. Il compromesso può solo riguardare le procedure che organizzano questo gioco politico. Di fatto qui si torna – e non senza ragione – al decisionismo di Carl Schmitt. Bisogna poter pensare la decisione, cioè un atto che non sia l’applicazione meccanica di una norma ma una creazione soggettiva di un individuo o di un gruppo di individui. Questa decisione permette di pensare l’innovazione istituzionale senza la quale gli uomini sarebbero condannati a vivere in una società stazionaria. Questa decisione, che definisce in realtà chi detiene la sovranità in una società, è al cuore della politica.
Ora, proprio a questo tentativo di predeterminare il risultato del gioco politico tende tutta la riflessione avviata negli organismi europei e teorizzata da Jakab. In ciò essa rivela tutto il contenuto antidemocratico del pensiero europeista.
L’ideologia europeista e le sue conseguenze
Infatti, la costruzione di questo pensiero di una sovranità «senza fondamento», ridotta a un principio che non si applica, rivela il progetto politico sostenuto, coscientemente o no, dal suo autore: bisogna limitare quanto possibile la sovranità nazionale per lasciare libero campo all’UE. Non è dunque sorprendente che egli proponga la soluzione di neutralizzare la sovranità, soluzione che consiste nell’ammettere la sua esistenza ma nel rigettarla nel limbo a beneficio dei compromessi concreti. Non bisogna allora più stupirsi della dissoluzione delle società in questo modello, perché quello che «fa società» è in realtà negato.
Il principio di sovranità si fonda allora su quello che è comune in una collettività, non più su chi esercita questa sovranità. La sovranità corrisponde così a una presa di coscienza degli effetti di interdipendenza e delle conseguenze di ciò che si è chiamato il principio di densità. Essa traduce la necessità di fondare una legittimazione della costituzione di uno spazio di meta-coerenza, concepito come il quadro di articolazione di coerenze locali e settoriali. Questa necessità esiste solo come presa in considerazione soggettiva di interessi comuni articolati a conflitti.
Si distinguono così le conseguenze estremamente negative della svolta che i dirigenti della UE hanno voluto prendere e che si rivela nella maniera in cui trattano la Grecia, ma anche in cui affrontano altri problemi, da quello dei rifugiati in Mediterraneo a quello delle nostre relazioni commerciali con gli Stati Uniti nel quadro del TTIP. Per cercare di risolvere il dilemma della sovranità degli stati rispetto a quella delle istituzioni europee, hanno creduto bene di negare in realtà il principio di sovranità. E non è un caso se attorno a questo termine e al suo derivato politico, voglio dire il sovranismo, si concentrino le idee di quelli che rilevano tutte le contraddizioni e le incoerenze della costruzione europea.
I partigiani dell’UE quale essa è hanno allora subito preteso che i sovranisti non siano che nazionalisti. Ma facendo questo dimostrano la loro incomprensione profonda di quello che è in gioco nel principio di sovranità: di fatto, l’ordine logico che va dalla sovranità alla legalità attraverso la legittimità, e che è costitutivo di ogni società. Tuttavia, constatare ciò non fa che rinviare la domanda a un livello superiore, quello delle forme simboliche nelle quali si muovono le rappresentazioni tanto della sovranità che della legittimità.
Non ci si deve allora stupire se nei differenti paesi dell’UE salga lo sdegno. I partiti che sono qualificati «populisti» o di «estrema destra» non fanno che riflettere questo sdegno.
Fonte: russeurope.hypotheses.org
Traduzione di Paolo Di Remigio (ARS Abruzzo)
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