La fobia della metafisica e lo stato
Di recente i filosofi italiani sono stati scossi dalla pubblicazione di alcuni «Quaderni neri» di Heidegger, dai quali si evince, più che la sua adesione opportunistica al nazismo quale era nota da sempre, l’intima vicinanza alla distruzione degli ebrei e delle civiltà europee che il nazismo stava attuando. In un’intervista[1], Gianni Vattimo, in Italia uno degli studiosi più accreditati di Heidegger, continua a non vedere un legame organico tra Heidegger e il nazismo, nonostante sia un esponente della sinistra libertaria particolarmente sensibile alla sorte delle vittime del sopruso, l’ultima persona che potrebbe essere accusata di simpatie per l’estrema destra.
Da Heidegger Vattimo ha adottato l’idiosincrasia per la metafisica. Egli l’ha identificata al totalitarismo, alla violenza (nell’intervista arriva a dirne che «è una schifezza» come se ciò fosse un’ovvietà); quindi ne ha constatato con sollievo la fine e insieme la fine della verità; da ultimo, nella proposta della filosofia come «pensiero debole» o come «interpretazione», ha guardato con favore a una nuova società in cui libertà e tolleranza, anziché da principi, sono garantite dai mass-media. Una proposta che può avere qualche apparenza di plausibilità solo in quanto chiunque, prima di cogliere il concetto di verità, potrebbe perdersi in due sue interpretazioni opposte. La definizione di verità è «adaequatio rei et intellectus», l’uguagliarsi di pensiero e realtà. La si può interpretare nel senso positivista dell’uguagliarsi del pensiero alla realtà, col risultato deprimente, fatto suo dal Wittgenstein del «Tractatus», che il pensiero sensato è estraneo agli interessi della vita umana, perché è una semplice raffigurazione di fatti casuali; oppure nel senso heideggeriano della differenza tra fatti ed essere, per cui il pensiero autentico può dispensarsi dallo studio dei fatti, che non sono adeguati alla sua sublimità, e dedicarsi a un più confortevole pascolo dell’essere. Interpretata la verità in questo secondo senso, il pensiero debole acquista un aroma di plausibilità: è prudente che il pensiero autentico si indebolisca e si limiti a giocare; potrebbe infatti accadere che, scivolando tra i fatti, si infili dalla parte sbagliata della realtà – proprio come è accaduto ad Heidegger. Così però Vattimo rischia di ridurre la professione filosofica a un passatempo e di ignorare il concetto di verità, che è l’elaborazione reciproca di pensiero e realtà, per cui quello si libera della sua irruenza, questa della sua ritrosia, superano la loro estraneità e si conciliano nell’idea – qualcosa che ha a che fare non tanto con la violenza, quanto con un corteggiamento fortunato. Non a caso i Greci, nostri maestri in tutto, sensibili al momento erotico della verità, fecero consistere la felicità nel raggiungerla.
Negli ultimi minuti dell’intervista Vattimo protesta con forza che gli errori di Heidegger non devono indurre al rifiuto delle sue opere più importanti, in particolare di «Essere e tempo». Lo si può capire: egli si trova di fronte allo sciogliersi di un equivoco che rischia di travolgere non solo la sua convinzione più profonda, l’incompatibilità tra libertà e pensiero scientifico, ma anche il suo percorso filosofico, che ha preso le mosse da una connessione casuale tra Heidegger e il comunismo. Egli stesso racconta come abbia iniziato a studiare Heidegger in un ambiente antifascista, leggendo «Essere e tempo» nella traduzione di Pietro Chiodi, che aveva partecipato alla lotta partigiana nelle Langhe. Tutto ciò ha contribuito a impedire a Vattimo di scorgere l’evidente carattere fascista di «Essere e tempo». Che però nell’intervista, a scopo di apologia, egli affermi che Heidegger era di fronte al dilemma tra comunismo e nazismo e che ha soltanto scelto male, ciò fa capire come Vattimo abbia scorto, senza purtroppo prenderne distanza critica, un punto di convergenza tra destra e sinistra, un punto che l’attualità politica ha ormai metastatizzato in una perfetta identità: il rifiuto, viscerale più che critico, dello stato moderno (troppo democratico per la destra, troppo poco democratico per la sinistra), che si enfatizza in un atteggiamento millenaristico: intollerante verso il passato, cinico verso il presente politico, accecato dalla prospettiva verso il futuro.
Marx ha considerato lo stato moderno una «dittatura della borghesia», la libertà che esso garantisce una mistificazione della disuguaglianza sociale. Il suo stato si ispira invece alla Comune parigina ed è uno sforzo di approssimazione alla democrazia diretta: rappresentanti eletti dal popolo che esercitano un potere senza articolazione interna, rimovibili in ogni momento, retribuiti col salario operaio medio. La rivoluzione russa, vittoriosa in virtù della nobile coerenza con cui i bolscevichi vollero l’uscita della Russia dal massacro della Grande Guerra, cercò di realizzare questo stato radicalmente democratico. Già durante la guerra civile la democrazia consigliare degenerò tuttavia in una soffocante dittatura di partito che avrebbe usato come metodo di governo la guerra civile (quella contro i contadini) e il terrore poliziesco. Anche al di fuori dell’esperienza sovietica, il comunismo reale non è riuscito a evitare il destino del partito unico: il suo rifiuto del concetto di stato quale si è realizzato dall’età moderna ha comportato l’incapacità di elevarsi, anche nei momenti migliori, al di sopra del modello di potere patriarcale.
Volendo negare lo stato «borghese» il comunismo ha rinunciato alla laicità, che è il vanto dello stato sovrano moderno[2]. Questo, infatti, nasce quando le atrocità delle guerre di religione del XVI secolo rendono evidente che gli uomini, senza che possano rinunciare alla loro convivenza, sono consacrati a orientamenti religiosi ormai irriducibili. La religione, finora sostegno dell’unità sociale, ne diventa il massimo pericolo. Poiché il suo pluralismo non può più essere ridotto, affinché non distrugga l’unità sociale, la religione deve ridursi a sfera privata; da parte sua, l’unità sociale, liberata dalla religione, si fa stato. Lo stato moderno è dunque laico – questo è il significato più profondo della sua sovranità interna; quindi fa propria la sobrietà della conoscenza scientifica, non interviene nella sfera della convinzione, lascia sviluppare le differenze nelle proprie istituzioni e nella società civile, e nel sostenere la loro esistenza e la loro compatibilità garantisce il bene comune, la res publica: la sicurezza interna ed esterna dei suoi membri. La sovranità dello stato moderno non è dunque unità totalitaria, ma unità che dispiega la differenza nella sfera privata: quella delle religioni ma anche quella dei partiti – la differenza è meno essenziale di quanto potrebbe sembrare; infatti le confessioni religiose assumono connotazioni di classe, i partiti politici, qualora non siano semplici apparati elettorali, contengono pathos religioso. Questa unità nel dispiegamento della differenza, che costituisce l’essenza dello stato moderno, è la libertà nel senso più profondo. Perciò in Hegel la forza dello stato moderno coincide con la sua capacità di garantire lo sviluppo della particolarità, ossia con ciò che dal punto di vista della particolarità appare debolezza: «Il principio degli stati moderni ha questa forza e profondità formidabile: lascia che il principio della soggettività si completi nell’estremo indipendente della particolarità personale, e al tempo stesso lo riconduce nell’unità sostanziale, e così ve la conserva»[3]. Tutto ciò mostra come la base della polemica del «pensiero debole» contro la grande filosofia sia un travisamento.
Esasperando in una negazione del pluralismo il suo giusto odio per il ricatto economico imposto dal capitalismo selvaggio, il comunismo reale si è allontanato dalla libertà; le sue lotte – per quanto doverose e spesso eroiche – sono state degradate dall’avere avuto per fine ultimo soltanto gli interessi dei lavoratori – quantunque pienamente legittimi. Il disprezzo dello stato moderno è anche all’origine della sua contiguità alla rivolta fascista contro l’uguaglianza e contro il pluralismo. Come il comunismo reale, anche il fascismo è un prodotto della prima guerra mondiale: nasce dalla crisi dello stato europeo e intende sostituirlo creando una società nuova, cementata dalla suggestione e dal terrore. Il fascismo disprezza dunque l’articolazione dei poteri dello stato e le sostituisce l’onnipotenza dell’«Uno» inviato dal destino, che taglia col passato, si muove con perfetto cinismo nel presente per meglio guidarlo verso il futuro; che disprezza la particolarità: offende la famiglia, annulla le sfere sociali differenti, stermina gli individui e i gruppi irriducibilmente particolari; che mobilita le masse in vista della guerra di aggressione contro gli altri popoli.
Tutto ciò è lo sfondo oscuro di «Essere e tempo». Per quanto non voglia riconoscerlo, Gianni Vattimo non aveva bisogno di aspettare la pubblicazione dei “Quaderni neri” per acquisirne consapevolezza. Finché si legge quel testo presupponendone le buone intenzioni, come ha fatto la sinistra libertaria, si può anche riuscire a non capirlo; per intenderne la carica fascista sarebbe bastato leggerlo presupponendo le cattive intenzioni. Infatti il testo non fa nessun mistero della sua volontà di arrivare al livello ontologico, cioè alla verità filosofica, evitando con disprezzo il livello ontico, ossia non cela la sua volontà di arrivare all’universale evitando lo studio delle scienze particolari e rifiutando la tradizione filosofica – con un colpo di stato. Inoltre vuole che la particolarità personale, il Dasein, non abbia un’essenza, cioè non abbia verità e dignità, ma sia esistenza inautentica, un preoccupato affaccendarsi disperso tra le futilità – allo stesso modo il fascismo stigmatizza come «borghese» e «panciafichista» la vita degli individui all’interno della famiglia, della società civile e dello stato. Heidegger è infine inequivocabile sul modo in cui l’uomo può redimersi dall’inautenticità, cioè può superare la sua particolarità ed essere universale: può farlo con la decisione anticipatrice della morte, cioè accettando la minaccia della morte sul suo presente e la conseguente angoscia. Spezzando la sua immedesimazione con il mondo inautentico, cioè con la realtà etica, l’angoscia lo porta alla decisione e gli apre la temporalità autentica, per cui spezza i vincoli col passato e, divenuto spietatamente pragmatico, si apre al futuro – e cosa può essere tutto questo se non la morale di una SA? Oppure, in quanto sia inteso come appello di massa, cosa può essere se non una mobilitazione in vista della guerra di rivincita? «Essere e tempo» è del 1927: da pochi anni la Germania si è sottratta al baratro della sconfitta e della miseria, e qualcuno già medita la rivincita.
«Essere e tempo» è fallito: Heidegger non è riuscito ad arrivare alla verità filosofica e lo ha interrotto. Egli ne ha dato colpa alla compromissione del linguaggio con la metafisica, proprio come i nazisti imputavano agli ebrei i fallimenti dei tedeschi, – ma in verità il fallimento, il fatto che l’essere non esca dall’indeterminatezza e resti una parola vuota, risulta dall’intolleranza del reale, dal fatto che, come il fascismo in generale, Heidegger si sente vivo solo in quanto lo distrugge e si orienta al futuro.
Con il suo soggettivismo estremo, dissimulato sotto un programma ontologico, Heidegger ha affascinato i filosofi. Le conseguenze di questo fascino sono state distruttive per la filosofia europea: per quasi un secolo è sembrato che si potesse arrivare all’essenza senza passare per la conoscenza determinata dell’ontico, che si potesse essere filosofi direttamente, senza amore per la sapienza, cioè senza dedizione e gratitudine alle scienze e alla tradizione, ma passeggiando per i sentieri di montagna che portano alle radure. Così la filosofia non ha più nulla da dire agli uomini. Ed è increscioso osservare quale divario esista tra la consapevolezza, la forza di illuminazione sulla realtà proprie, per esempio, di molti economisti e lo smarrimento completo dei filosofi. Seguendo Heidegger, oppure Nietzsche, essi si sono orientati al futuro e hanno gettato alle ortiche la tradizione filosofica, i concetti che sarebbe loro compito vivificare con le scienze attuali così che queste ne siano illuminate nel loro intimo.
Con la sua ribellione impotente che infine si chiude nel balbettio delle etimologie, Heidegger ha affascinato anche la sinistra: chi più della sinistra attuale, eurista perché internazionalista, vive nella temporalità autentica, ossia in quello stato di irresponsabilità scientifica ed etica, senza fondamento nel passato, aperta alle proprie (particolari) possibilità effettive nel presente, volta al futuro?
[1] L’intervista è disponibile a questo indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=G9Wg8532YWk .
[2] Per il concetto di laicità dello stato, cfr. l’articolo di Jacques Sapir, Souveraineté, laïcité et histoire, al seguente indirizzo: http://russeurope.hypotheses.org/3828.
[3] Traduco dal § 260 delle Grundlinien der Philosophie des Rechts.
Ringrazio per l’articolo è molto interessante. Aggiungo che Benedetto Croce non ebbe bisogno della pubblicazione dei “Quaderni Neri” per accorgersi di che pasta erano fatte le elucubrazioni di Heidegger. Nel 1934 recensisce sulla Critica la non ancora celebre “autoquadratura” o “autoaffermazione dell’università tedesca” : “un modo per prostituire la filosofia”.
(per l’intero testo http://ojs.uniroma1.it/index.php/lacritica/article/view/8604/8586)
Prostituisce la filosofia, la religione, l’arte, la cultura colui che le subordina alle attività pratiche (tra le quali si trovano la politica e l’economia).
Grazie dell’interessante segnalazione.
La questione del messianismo-capitalistico (il mercato come bene per la maggioranza degli umani), può essere interpretata come deterministica, soltanto se si pensa alla Storia come un oggetto dato davanti a me. Se io sto come agente dentro questo processo nella totalità, non posso neanche articolarla come “ad A segue B necessariamente, ecc.”. Agendo dentro questo processo ermeneuticamente ho un ideale sicuramente, che è quello che mi viene suggerito nella secolarizzazione dall’eredità, o meglio dalle eredità depositate dalla tradizione (che sono scelte storicamente condizionate) e sono legate alla nostra storicità (io preferisco vivere in Italia perchè sono italiano e mi piacciono gli spaghetti, e non in papuasia fino a che qualcuno non mi convince che dovrei farlo). C’è dunque un tessuto che non è necessariamente deterministico e in qualche senso messianico: c’è una promessa, qualcosa che mi si presenta come la possibilità giusta, quella buona, e io lì mi impegno. Vattimo, onorevolmente, al contrario di altri della sua generazione, si dice “comunista”, nel senso che non è l’adeguamento ad un verità o rivelata o data di tipo scientifico, ma come una collocazione esistenziale e umana all’interno di un presente storico. Il merito di Vattimo è quello di essere sì un postmoderno, ma non cinico e disincantato. Con lui sono solo in disaccordo sulla teoria della verità, in quanto, a mio parere, egli vede nella verità un pericolo. Vede nella rivendicazione di verità (morale, etica, ecc.), l’anticamera della pretesa autoritaria di imporla in maniera dispotica. Altri vedono nella verità non tanto una oggettualità cosale di fronte a loro, quanto piuttosto un processo dialettico dentro cui siamo interni, che ha come un “telos” infinito (questo è l’unico punto in cui darei ragione a Kant) che non va verso alcuna fine della Storia, ma va verso delle determinazioni sempre più ricche. Hegel non è un pensatore della fine della Storia, ma un pensatore che ritiene che il suo tempo storico avesse già maturato un livello migliore della variante Rousseauiana, di quella di Metternik, che di quella degli inglesi.
Caro Gianni, dobbiamo intenderci su più cose. “Millenarismo” è l’attesa del regno di Cristo sulla terra, che durerà mille anni prima della fine del mondo, e sarà abitato soltanto dai giusti; io usavo il termine come sinonimo di messianismo (da cui in effetti deriva concettualmente), cioè del rifiuto totale della realtà naturale e sociale, nella speranza di un suo rovesciamento imminente tramite un inviato divino. Nei vangeli il discorso delle beatitudini annuncia un regno di Dio inverso a quello attuale, ed è tipicamente messianico. Il termine non può quindi essere accostato a “determinismo” e tanto meno attribuito al capitalismo (che non attende il nuovo, ma vuole solo conservarsi), ma va attribuito ai movimenti politici (o religiosi) che vedono la realtà presente preda dell’errore e si slanciano verso un nuovo di cui si sentono tracce. Mentre il determinismo è una metafisica che esclude la casualità degli avvenimenti, quindi anche la libertà, e concepisce la realtà stretta in nessi causali necessari (nel marxismo il dibattito sul determinismo era tra chi credeva nell’avvicinarsi automatico dell’ora x della fine del capitalismo e chi sosteneva la necessità dell’azione rivoluzionaria perché si verificasse l’ora x: si tratta di due sfumature del messianismo), il messianismo concepisce la storia e i suoi sviluppi come un errare casuale in attesa che un messia li interrompa e li sostituisca con il nuovo regno. Come vedi, il comunismo è tipicamente messianico; lo è anche il fascismo (Hitler parla addirittura di “Reich millenario”) con il suo delirio dell'”uomo nuovo”. Il problema di questa mentalità è il fanatismo nichilista: se la realtà è sbagliata, neanche merita conoscerla, basta solo distruggerla per fare spazio al bene; di qui il rifiuto delle scienze e della tradizione. Tanta filosofia del Novecento, al seguito di Heidegger, ha preso questa strada. La sinistra attuale, che eredita da quella storica l’intolleranza del presente e l’ansia del nuovo, ha preso questa strada.Ma per questa strada la sinistra può fare leva sull’ignoranza per ignorare anche il proprio tradimento; da parte sua la filosofia non può che annullarsi: come suggerisce la sua stessa etimologia, essa è amore della scienza e, tramite la scienza, ricerca di ciò che, all’interno dell’esistente, è vero, nel senso che il soggetto e l’oggetto vi sono conciliati. La verità ha questo significato di conciliazione, riconoscimento tra soggetto e oggetto. La paura della verità, anche quella di Vattimo, nasconde sempre l’autocompiacimento del soggetto, il suo rifiuto ad abbracciare l’altro.