Massimo Bontempelli
Succede talvolta nella storia che corpose realtà cariche di importanza e significato per la società umana ad un certo momento rimangano soltanto intelaiature vuote, ingombranti simulacri di una sostanza svanita. Ad esempio, l’Impero Romano d’Occidente al tempo degli imperatori ravennati non era altro che la sopravvissuta facciata esteriore di una organizzazione storica ormai disgregata e ridotta allo stato larvale. Allo stesso modo oggi il sistema nazionale della pubblica istruzione ha la stessa realtà di quei palazzi che durante la guerra erano stati sventrati dalle bombe, e che sembravano ancora esistenti soltanto lungo quei tratti di strada da cui se ne vedeva il muro di facciata rimasto in piedi, senza vedere quel che ci stava dietro. La scuola italiana oggi è così. È una facciata di elementi di vita scolastica che si riproducono per lo più per inerzia, con qualche aspetto e momento isolatamente ancora valido, ma con una sostanza educativa crollata sotto le bombe di dinamiche sociali diseducatrici lasciate incontrollatamente operare, e di innovazioni ministeriali particolarmente devastanti a partire dal 1996. Tutto questo ha una tragicità su cui ci si sofferma troppo poco, perché la fine del sistema nazionale delle pubblica istruzione significa –anche per la crisi di altra agenzie educative, a cominciare dalla famiglia- che non c’è più trasmissione di saperi e valori da una generazione all’altra, che è recisa la memoria storica, e quindi la capacità di comprensione politica, e che i giovani si affacciano alla vita adulta privi di strumenti di decodificazione del funzionamento effettivo del mondo in cui vivono.
Proviamo ad esporre, di questa catastrofe di civiltà, prima la fenomenologia, poi l’eziologia storica, infine i modi più sensati ed adeguati di reagirvi.
La fenomenologia della morte della scuola è molto chiara, e per vederla bastano sguardi non instupiditi su ciò che vi accade riguardo al comportamento degli studenti e a quello degli insegnanti, ai programmi di studio, ai libri su cui si studia, ai metodi di valutazione, agli ambienti.
Il comportamento degli studenti è in larga percentuale descolarizzato. In alcuni tipi di scuola, in alcune fasce d’età ed in alcune zone del paese sono molto frequenti situazioni di indisciplina tale, talvolta persino da codice penale, da rendere qualsiasi insegnamento materialmente impossibile. In molti altri casi le situazioni non sono di gravità così estrema, ma la mancanza diffusa di attenzione, del giusto silenzio, della puntualità e dello studio a casa frappone ostacoli egualmente spesso insuperabili all’insegnamento. Sono pochi, e concentrati soprattutto nei licei, i casi in cui gli studenti sono disciplinati in classe e studiano a casa, ma anche in questi casi non mancano seri problemi, che riguardano essenzialmente la motivazione allo studio, talvolta, e sembra un paradosso, molto carente anche in presenza di una disciplina impeccabile e di molte ore passate sui libri.
Il comportamento degli insegnanti è spesso penoso: investiti dalla maleducazione e dai ricorsi cavillosi delle famiglie di certi allievi, privati di ogni prestigio di ruolo, in larga percentuale non preparati a svolgere un compito educativo, non appaiono mediamente più motivati dei loro allievi a lavorare nella scuola.
I programmi di studio in realtà non ci sono più, almeno dalla comparsa di uno dei più ottusi, presuntuosi e nocivi ministri della pubblica istruzione che l’Italia abbia avuto in tutta la sua storia, l’ineffabile Luigi Berlinguer, che, fattosi guidare da una lobby accademica di pedagogisti filosoficamente analfabeti, ignari dei problemi concreti della scuola, pronti a scambiare il loro gergo per scienza (ed a farsi pagare barche di denaro per diffonderlo), ha inaugurato la scuola del fai-da-te riguardo agli obiettivi dell’insegnamento. Fu allora detto, dall’ineffabile e dalla sua corte di cialtroni, che sarebbe stato tutto un fiorire di creatività culturale nelle scuole diventate finalmente autonome. Era invece facilissimo prevedere quel che poi accadde, e che fu infatti previsto fin nei dettagli (cfr., ad esempio, Massimo Bontempelli, L’agonia della scuola italiana, Pistoia 1997), e cioè la sostanza degli insegnamenti messa fuori campo dall’immagine data di sé da ciascuna scuola, il rapporto essenzialmente pubblicitario di ciascuna scuola con i suoi futuri auspicati clienti, la riduzione dei piani di offerta formativa a semplici brochures pubblicitarie delle singole scuole, lo spazio aperto alle interferenze nella scuola di interessi non culturali, la perdita di ogni nozione di sapere essenziale da cui nessuna scuola possa prescindere.
I libri su cui nelle scuole si studia non sono più fatti dagli autori in funzione della cultura, ma dagli editori in funzione del mercato. Chiunque abbia esperienza di lavoro nell’editoria scolastica sa bene quanto il modo di produrre un libro per la scuola sia completamente diverso da quello di vent’anni fa. Oggi il libro scolastico non è più dell’autore, che, se vuole farlo, non può affatto comporlo come ritenga culturalmente e didatticamente giusto, ma deve farsi mero esecutore di criteri, formule, persino contenuti, elaborati da dirigenti editoriali desiderosi di giustificare il loro ruolo con ogni sorta di loro costruzioni, mirate, o credute mirate, alla massimizzazione delle vendite. Vengono così fuori libri pieni di banalizzazioni, digressioni, riepiloghi, schede, eserciziari, letture dispersive, libri pluriillustrati e pluricolorati, e, naturalmente, molto costosi, ma singolarmente inadatti al serio approfondimento dei concetti di una disciplina, anche perché tutti i loro accessori hanno eliminato lo spazio minimo per spiegarli.
I metodi di valutazione dello studio scolastico hanno raggiunto la demenzialità pura. La linea di sviluppo è stata infatti quella della proporzionalità inversa tra contenuti sottoposti all’apprendimento, sempre più ristretti (a causa del disimpegno degli allievi, del totale disinteresse in proposito del dirigente scolastico, ormai vincolato soltanto a plurime incombenze burocratiche e selezionato soltanto su questa base, delle continue interruzioni del tempo di lezione a vantaggio di un pulviscolo di altre iniziative), e meccanismi di valutazione dell’apprendimento, sempre più estesi e complicati. Che una tale forbice sfoci nella demenzialità è inevitabile. Prendiamo un esempio tratto dagli scrutini finali dell’anno 2007-2008. Un consiglio di classe discute il rendimento dei suoi allievi, dirimendo alcuni contrasti di opinioni e arrivando a decidere l’attribuzione dei voti, le ammissioni e le non ammissioni alla classe successiva, i debiti e i crediti, la valutazione della condotta. Ciò occupa più di due ore di tempo. Dopo di ciò, in una scuola sensata si passerebbe allo scrutinio di un’altra classe. Siamo invece nella scuola postberlingueriana. Occorre quindi passare alla compilazione dei giudizi individuali barrando apposite caselle su apposite schede. Si deve barrare, ad esempio, per ogni allievo, la casella con la formula ritenuta corrispondente al gradi di profitto scolastico da lui raggiunto, in una scala che va dal «gravemente insufficiente» all’«ottimo». Si tratta, in pratica, di ridire come formula di giudizio la medesima cosa che è stata detta come votazione numerica. La cosa è talmente la medesima che a piè di pagina della stessa scheda viene spiegato che «ottimo» corrisponde al nove o al dieci, «buono» all’otto, «discreto» al sette, e via dicendo. L’attribuzione del giudizio di profitto è dunque un puro, inutile duplicato cartaceo dello scrutinio già fatto. Si devono poi barrare caselle relative al «senso di responsabilità», alla «capacità di analisi», alla «capacità di sintesi», e così via, di ogni allievo. A chi o a che cosa servono questi profili per la successiva vita scolastica? Assolutamente a niente. Così come altre voci della scheda a cui rispondere. Si tratta, per l’insegnante, di affaccendarsi su cose che, didatticamente ed educativamente, sono un fare nulla. Ma un fare nulla affaccendandosi non è affatto innocuo, è qualcosa che, ripetendosi e costituendo un’abitudine, opera un dirottamento mentale dalla sostanza e dalla serietà del compito educativo. Proprio qui, però, si manifesta il nodo più sconvolgente. Un marziano si aspetterebbe che gli insegnanti, che hanno scelto un mestiere che ha a che fare con le idee, la cultura, l’educazione, posti di fronte a simili schede, rifiutassero semplicemente di prenderle in considerazione, con un grilliano «vaffa» nei confronti di chiunque, dal ministero in giù, volesse loro imporle, o che, quanto meno, le facessero compilare ad uno di loro in maniera rapida e meccanica, dando ad esse il nessun peso che meritano. Abbiamo notizie che in qualche caso le cose sono andate proprio così. Ma si tratta di casi isolati. Lo spettacolo che solitamente si presenta ha dell’incredibile: insegnanti che si lasciano via via coinvolgere in discussioni e diatribe su simili compilazioni. La frequenza scolastica dell’allievo (altra voce da compilare) è «assidua», «regolare», o «saltuaria»? C’è già registrato, sul tabellone dello scrutinio il numero di assenza per ciascuna materia, una nuda cifra che non ha bisogno di chiose. Ma spesso succede che un insegnante propone di barrare, per un certo allievo, la casella della frequenza «regolare», e subito un altro, che constata un numero maggiore di assenza per la propria materia, reagisce (specie se in pregressa dissintonia psicologica con il primo) dicendo «Ma come! La frequenza non è regolare, è saltuaria!», e giù a discutere. Abbiamo assistito di persona ad una discussione, riguardo ad un allievo, se in riferimento al suo metodo di studio dovesse venire barrata la casella «ordinato», oppure quella «organizzato» (sic!). Quanto fin qui detto riguardo ad uno scrutinio finale è soltanto un esempio, uno tra i tanti, di uno degli aspetti nello stesso tempo più evidenti e più opachi della fenomenologia della morte della scuola: un corpo docente che non sa più impiegare il suo tempo di lavoro nei due campi che gli sarebbero professionalmente essenziali, vale a dire la cultura e la relazione con gli studenti come persone, e che ha accettato invece di impiegarlo in mansioni organizzative che un tempo erano quelle necessarie alla scuola, e che erano svolte da un vicepreside o da altro collaboratore sollevato per questo, giustamente, da una parte del suo lavoro di insegnante, e che oggi si sono moltiplicate, essendo diventate quelle necessarie a gestire tutta la valanga di inessenzialità scaricate sulla scuola.
Nelle numerose occasioni in cui gli insegnanti si trovano riuniti non si parla quasi mai (ci credano i lettori che, esterni al mondo della scuola, immaginano il contrario, e sappiano invece che riguardo a molte realtà bisogna persino togliere il «quasi») di contenuti culturali, non si ascoltano scambi di informazioni e di riflessioni su lettura fatte, non ci sono approfondimenti sulle problematiche relazionali dell’insegnamento, non si discute la ragione ed il significato per cui gli studenti sono chiamati ad apprendere certi contenuti invece di altri. Quasi tutto quello di cui per lo più parlano gli insegnanti a scuola è di una sconfortante miseria spirituale ed umana: corsi di recupero che tutti sanno essere inutili, elezioni e relazioni delle vacue funzioni strumentali, distribuzione rissosa degli spiccioli spendibili a vantaggio degli insegnanti da parte degli istituti scolastici, questioni di orario, contrasti tanto più aspri quanto più le materie del contendere sono del tutto irrilevanti salvo che per la psicologia dei contendenti. L’inutilità di ciò che fanno gli insegnanti nelle loro riunioni è stancante, ma siccome essi non sono consapevoli di ciò che ingenera loro stanchezza, la scaricano nel chiacchiericcio tra loro, comportandosi come una di quelle classi di allievi demotivati ed inquieti che nella loro veste docente li esaspera.
Questo degrado del corpo docente delle scuole non può ovviamente essere interpretato come somma di deviazioni individuali, essendo un fatto collettivo ed istituzionale, e non può quindi non ricondurci alle forze storiche che hanno prodotto la devastazione della scuola italiana. Proviamo quindi a passare dal piano della fenomenologia della morte della scuola al piano della sua eziologia storica.
Una causa prossima, per così dire, della fine della scuola italiana sta ovviamente nel suo Attila, il ministro della pubblica istruzione degli ultimi anni Novanta Luigi Berlinguer, e nei devastatori che gli sono succeduti, prima fra tutti Letizia Moratti. Parlare di Attila e di devastatori per personaggi tranquilli, non dissimulatori, niente affatto politici dal gioco duro, come costoro, può sembrare una forzatura di cattivo gusto. In effetti, però, essi sono stati davvero dei grandi devastatori, anche se non per cattiveria, non intenzionalmente, ma per una desolante inintelligenza, per così poco sale in testa che possiamo persino arrischiarci a pensarli in buona fede. Prendiamo l’Attila primigenio, Luigi Berlinguer. Ha sottoposto la scuola da un iperdosaggio di innovazioni, attribuendo ad esse effetti immaginari, o immaginati dalla più incolta e dogmatica delle lobbies accademiche, quella dei pedagogisti, senza capirne, e forse senza neanche averne capito oggi, gli effetti reali, visibilissimi sul campo. Il ministro ricorda, nella sua azione ministeriale, quel buon toscanaccio, ma non proprio acculturato, che ad un amico lamentoso per essersi ammalato di epatite mise davanti alcuni bicchierini di superalcolici dicendo, con l’affettuosa intenzione di curarlo, «bevi questi, ti fanno bono». Anche Berlinguer avrà pensato: le mie innovazioni «fanno bono» alla scuola, la renderanno più accogliente, più donmilaniana, più individualizzata, più moderna. Sarebbe bastata un po’ più di intelligenza, neanche tantissima, della realtà della scuola e del suo rapporto con la società, per capire che la cosiddetta autonomia significava demolizione del sistema nazionale della pubblica istruzione e perdita di ogni riferimento a saperi essenziali, che gli obiettivi formativi affidati ai singoli istituti significavano riduzione della cultura ad aria fritta e pubblicità, che la proliferazione di schede, formule, griglie tecniche e criteri di valutazione significava eliminazione di interesse per i contenuti culturali e gli aspetti relazionali dell’insegnamento, e così via.
Un’altra causa prossima della fine della scuola italiana sta nell’avvenuta abolizione, già dagli anni Ottanta, di ogni possibilità efficacemente sanzionatoria degli elementi di grave disturbo del suo regolare svolgimento didattico. Comportamenti indisciplinati di allievi che arrivano di fatto a sabotare le lezioni, urla assordanti nei corridoi, manifestazioni di pesante aggressività verso insegnanti e compagni, frequentatori di aule del tutto disimpegnati da ogni intenzione di apprendere qualcosa, e impegnato soltanto a parlar d’altro con i vicini, sono elementi per fortuna non generalizzati, ma, là dove sono presenti, e sono presenti in una percentuale niente affatto bassa di scuole italiane, non sono rapidamente eliminabili come dovrebbero esserlo perché una scuola possa esistere come tale. Mancano infatti strumenti normativi ed esecutivi adatti allo scopo. Elementi di disturbo non sono poi soltanto quelli che si riferiscono all’indisciplina o addirittura alla violenza degli allievi. Ci sono insegnanti che compiono atti di arbitrio, di chiusura ad ogni ascolto, di disprezzo e di umiliazione degli allievi, e che ciò nonostante non possono essere trasferiti ad altre mansioni, né vengono tenuti sotto controllo da dirigenti scolastici addestrati soltanto a compiti di bassa burocrazia. Ci sono scuole strette nella morsa dei rumori e dello smog del traffico circostante, o al cui interno si svolgono lavori durante le ore di lezione. Quando questo è diventato possibile, le autorità che hanno lasciato cadere gli antichi divieti hanno contribuito alla morte della scuola, perché la scuola esiste, come sa chiunque ne conosca la storia, soltanto in una separatezza protetta dal normale commercio sociale.
Un’altra causa prossima ancora della fine della scuola italiana sta nell’università italiana, corrotta, nepotista e arida. Questa università ha in un primo tempo impoverito la scuola non trasmettendole, dalla sua boriosa ed esangue torre d’avorio, alcuno strumento culturale e didattico, e non avendo fornito alcuna preparazione, in nessuno dei suoi corsi, alla professionalità docente nella scuola secondaria, ed in un secondo tempo l’ha contagiata della sua corruzione. Dopo il 1999, infatti, cioè dalla data in cui si è svolto l’ultimo concorso cattedrale per la scuola (quello peggio congegnato di tutta la storia italiana per una selezione di merito, ma per spiegare questo occorrerebbe un’esposizione troppo dettagliata), l’unico canale di accesso alla professione di insegnante è stato quello delle scuole di specializzazione dell’insegnamento secondario gestite dalle università. Si è trattato, per la scuola, di una devastazione senza precedenti, che un giorno o l’altro dovrà essere documentato con ricognizioni di fatti, interviste, documenti. In sintesi si può dire che le università si sono assunte la gestione di queste scuole senza mettere in campo competenze culturali-didattiche presenti al loro interno, che non avevano per niente, ma al solo scopo di far cassa con i contributi degli abilitandi. Il personale di gestione tratto dalle scuole secondarie è stato inteso come subordinato in maniera servile agli universitari, conformemente allo spocchioso atteggiamento di superiorità della maggior parte dei nostri accademici, ed è stato così selezionato in maniera inversa al merito, perché, ovviamente, vista la situazione, chi aveva, tra gli insegnanti di scuola, un minimo di idealità culturale e dignità professionale, non ha mai pensato a proporsi per queste scuole, in cui hanno smaniato di inserirsi, invece, gli incolti desiderosi di essere rivestiti dall’esterno di un ruolo purchessia, i frustrati dell’insegnamento desiderosi di uscirne, i piccoli ambiziosi o trafficoni miranti a mettersi sotto una tettoia universitaria, di guadagnare qualche relazione accademica. La congiunzione tra universitari senza un’idea di scuola se non quella di trarne vantaggi di corporazione e personali, e insegnanti di scuola promossi a loro servitori e non a dirigenti, ha prodotto i ben noti corsi degli orrori delle scuole di specializzazione: una pura sommatoria di spezzoni di trattazioni, senza alcuna connessione tra loro, a cui sono state associate pesantissime richieste di ogni genere di relazioni scritte, dato che nessun accademico voleva apparire di minore importanza degli altri. Dalle persone culturalmente vive, costrette a frequentare questi corsi se volevano sperare di entrare nella scuola, sono sempre venute dichiarazioni di assoluta insopportabilità di quella frequenza, vuotissima ma pesantissima, sgangherata ma costringente al più stretto conformismo mentale (ci sarebbero tante esemplificazioni da fare per farlo visualizzare in concreto). Anche qui c’è stata la selezione meritocratica all’inverso: sono andati più avanti quelli disposti a digerire tutto, cioè individui portatori di nulla, che saranno ulteriormente addestrati al nulla dai lunghi tempi di parcheggio e di professione precari.
L’operare di tutti questi fattori ha cadaverizzato la scuola. Ma non sono essi le cause vere, anzi le presuppongono. Un ministro devastatore come Luigi Berlinguer non è diventato ministro per una forza a lui connaturata, ma è stato indicato da un partito, scelto da una coalizione vittoriosa, e perciò da un intero sistema politico. Una università che agisce in un certo modo sulla scuola, non lo fa perché un bel giorno così ha deciso un rettore, ma perché è in precedenza costituita da una cultura, da interessi e da legami che la spingono a ciò.
Le cause vere della morte della scuola debbono dunque essere cercate in dinamiche di lungo periodo della società, di cui ministri distruttori come Berlinguer, interventi corruttori come quelli dell’università, luoghi di selezione antimeritocratica come le scuole di specializzazione, sono mezzi di attuazione (in questo senso cause prossime), e il degrado culturale del corpo docente il primo effetto.
Una dinamica di lungo periodo che è sfociata inevitabilmente nella morte della scuola, e che ne è stata quindi una vera causa, è stata il mutamento storico avvenuto tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta nel rapporto tra sviluppo economico, mobilità sociale e funzione della scuola, dopo il quale, nella nuova costellazione di questi elementi, la scuola ha cessato completamente di essere un luogo di promozione sociale. Da allora, un diploma di scuola secondaria superiore non garantisce minimamente l’accesso al ruolo lavorativo che gli corrisponde, e una maturità liceale funge da punto di partenza di un itinerario verso una laurea che come tale non è di alcun vantaggio per l’inserimento lavorativo.
Ora, se c’è qualcosa di univocamente comprovato da studi sociologici e fatti storici, è la correlazione esistente tra scuola come luogo di promozione sociale, da un lato, motivazione degli studenti all’impegno scolastico, e delle famiglie ad esigerlo da loro dall’altro, e, viceversa, tra mancanza di opportunità di promozione sociale nella scuola e demotivazione all’impegno scolastico.
Generazioni di padri e madri hanno inculcato con la massima forza nella testa dei loro figli che dovessero assolutamente ottenere buoni risultati scolastici per «farsi una posizione», come si diceva; le scuole erano severe nella loro richiesta di disciplina e di studio perché dovevano selezionare l’accesso a determinati ruoli sociali; alla loro severità ci si adattava, perché conteneva una speranza di miglioramento delle condizioni di vita rispetto a quelle dei genitori. Certo, questa speranza era in gran parte illusoria. Le condizioni sociali e culturali delle famiglie da cui gli studenti provenivano esercitavano infatti un peso, notevole ancorché invisibile, nel determinare, antecedentemente all’intervento della scuola, le capacità di apprendimento e di elaborazione linguistica su cui operava poi la scuola con il suo insegnamento e la sua selezione per merito. Questa speranza, tuttavia, era socialmente radicata e trovava continuamente riscontri di fatto che, anche sebbene poco numerosi, contribuivano a corroborarla (con casi celebri di grandi promozioni attraverso la scuola, da Pascoli a Gramsci), corroborando la scuola. Diventata la scuola un luogo di parcheggio di alcune fasce di età, invece che di promozione sociale, è consequenziale che tutto dentro di essa vada verso la putrefazione, dalle motivazioni degli studenti a quelle degli insegnanti, dai contenuti culturali alla disciplina comportamentale. Data questa tendenza storica, succede necessariamente che spuntino come funghi i suoi inconsapevoli attuatori, i Berlinguer.
L’individuazione di questa causa storica della morte della scuola lascia ovviamente sgomenti riguardo al nostro terzo argomento, dopo la fenomenologia e l’eziologia, e cioè le risposte da dare. Come è possibile battersi per la rinascita della scuola in Italia se la condizione di questa rinascita è una scuola come luogo di promozione sociale? L’evoluzione compiuta dal capitalismo ha reso infatti economicamente impossibile questa condizione, e non avrebbe senso pensare né di tornare ad una fase anteriore del capitalismo, perché la storia non conosce retromarce, né di costruire la scuola del postcapitalismo, perché non è nell’attuale orizzonte storico neppure immaginabile il funzionamento di una società postcapitalistica.
Affrontando seriamente il problema della scuola incontriamo in sostanza lo stesso nodo che blocca lo scorrimento del pensiero e dell’azione quando incrociano problemi che, come quello della scuola, incarnano una catastrofe di civiltà, ad esempio il collasso ecologico del pianeta, o la perdita di diritti del lavoro, o la guerra imperiale infinita: come agire in concreto se per essere in grado di cambiare qualcosa dovremmo poter cambiare la totalità del suo contesto, e il cambiamento della totalità è, oggi, completamente al di fuori dei nostri mezzi e persino delle nostre idee? Dovremmo finalmente imparare ad affrontare seriamente un nodo di questo genere, evitando sia l’astrattismo identitario ed autoconsolatorio, sia il concretismo adattivo. Dovremmo finalmente imparare che l’unico modo serio di affrontare un capitalismo potentemente distruttivo di ogni civiltà è quello di fare riferimento non ad una configurazione sociale alternativa, che non siamo minimamente in grado di prevedere, ma ad un logica alternativa a quella sistemica, perché ancorata a valori, per agire sui problemi. Se affrontiamo così la distruttività capitalistica, introdurremo lacerazioni nel funzionamento sistemico, che dovremo cercare di nuovo di affrontare con la logica valoriale, non secondo i principi sistemici, e così via. In questo modo cominceremmo ad incamminarci su un’altra strada storica, che non sappiamo dove ci porterà. ma l’importante, oggi, non è sapere a quale traguardo arriverà la storia futura, bensì uscire dal terribile cerchio in cui si chiude la storia presente, e che sta annichilendo ogni forma di civiltà umana.
Che cosa significa tutto questo per la scuola? Che dobbiamo batterci, allo scopo di restituire vita al cadavere della scuola italiana, per restituirle una funzione di promozione sociale, che non può essere quella tradizionale, a cui la storia non può tornare, e per cui non esistono comunque mezzi di attuazione dal basso, ma può ben essere quella di una alfabetizzazione delle giovani generazioni al contesto storico in cui sono collocate, per trarne strumenti concettuali ed etici di difesa dai suoi condizionamenti distruttivi. Si tratta di una direttrice di lotta da intendersi non come obiettivo compiuto da calare sulla scuola, che nessuna lotta avrebbe i mezzi per perseguire, ma come quella logica valoriale, di cui si è detto rispetto alla distruttività capitalistica in generale, che deve guidarci nell’azione possibile su situazioni concrete. Proviamo a specificare. Dobbiamo, in nome di una logica della scuola intesa come luogo di promozione sociale, per ora in senso spirituale ed umano, rivendicare sindacalmente l’abolizione di ogni onere improprio, burocratico-cartaceo, per gli insegnanti, riconducendo tutto il loro tempo di lavoro a quello che è il loro vero compito, insegnare, e prevedendo la massima semplicità per l’espressione delle loro valutazioni; rivendicare politicamente un sistema di reclutamento degli insegnanti soltanto tramite concorsi nazionali seriamente predisposti per accertare le competenze disciplinari, e soltanto con assunzioni a tempo indeterminato, stante l’incompatibilità tra lavoro precario e impegno di progettazione educativa; rivendicare istituzionalmente la garanzia normativa, con sanzioni adeguate, del minimo indispensabile di disciplina degli studenti, e la fine della scuola come «progettificio» insulso e litigioso, con un ritorno alla scuola in cui tutto il tempo sia dedicato allo svolgimento di programmi nazionali vincolanti; rivendicare culturalmente un impegno nella scuola, prioritario su ogni altro, -perché soltanto questo le consentirebbe oggi di trasmettere saperi e valori, cioè di essere davvero scuola- di promuovere la memoria storica delle giovani generazioni, di radicare i loro orizzonti presenti in una consapevolezza del passato, senza cui, nella situazione storica odierna, non si può imparare davvero nulla, se non ad essere acritici consumatori di un mondo che si autodistrugge. Per far questo occorre non soltanto potenziare al massimo l’insegnamento della storia in tutte le scuole, ma anche storicizzare l’insegnamento delle altre discipline: le materie scientifiche insegnate, come oggi si fa, in maniera destoricizzata, cioè senza mostrare i condizionamenti storici, vale a dire culturali, economici, religiosi, delle loro scoperte, presentate come un processo lineare di avanzamento della verità tratta dall’osservazione dell’esperienza, trasmettono una falsa idea ed una dogmatica accettazione della tecnologia, positivizzante e pericolosissima nel mondo attuale.
La causa ultima, o prima, della morte della scuola, che l’ha distrutta come luogo di promozione sociale, è comunque il capitalismo assoluto imperniato sull’aziendalismo, cioè sull’ideologia che tutto ciò che si può fare lo si deve fare come prodotto fonte di profitto di un’azienda.
Anche la scuola la si vuole azienda, ma siccome non può esserlo, le innovazioni volte ad aziendalizzarla la stravolgono senza neppure poter funzionare sul loro piano. Fare di un ospedale un’azienda fa male alla salute, ma si può fare. Fare di una scuola un’azienda non si può neanche fare, ne viene fuori un ibrido disfunzionante. Poiché questo ha l’evidenza dei fatti, occorre rilanciare tra insegnanti, studenti, famiglie, l’idea della necessità di un ripristino della scuola pubblica e nazionale.
Articolo apparso originariamente nella rivista “Indipendenza” (n.24, nuova serie, luglio/agosto 2008) e ripubblicato nel volume “Un pensiero presente”, che raccoglie tutti gli interventi di Massimo Bontempelli nella rivista. Tratto da Badiale e Tringali
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