La fredda felicità dell'uomo immagine
di Theodor W. Adorno
fonte Il manifesto
La trasformazione dell'ambiente, di cui abbiamo estrapolato alcuni esempi che tenevano già conto delle rispettive implicazioni psicologiche, rimanda a un nuovo tipo umano in corso di formazione. La si è denominata con espressione felice radio-generation, generazione radiofonica. È il tipo dell'uomo la cui essenza è definita dall'incapacità di compiere esperienze personali, un uomo che si lascia imbandire le esperienze dall'apparato sociale, fattosi strapotente e impenetrabile, e che proprio per questo non riesce a spingersi fino allo stadio della formazione dell'io, fino alla «persona».
Secondo le teorie della psicanalisi ortodossa un tipo umano che fallisce a tal punto nella formazione dell'io sarebbe da classificare come nevrotico. Il concetto di nevrosi, però, implica determinati conflitti con la realtà. Dal momento che però la generazione radiofonica si priva della possibilità di formarsi un io proprio adeguandosi passivamente alla realtà, e dal momento che proprio in virtù della mancanza di un io essa sembra integrarsi senza alcun conflitto nella realtà, il concetto di nevrosi non può essere applicato senza alcune riserve. Se tutti costoro sono malati – e ci sono ottimi motivi per crederlo – essi non sono in ogni caso più malati della società in cui vivono. Al tempo stesso è dalla loro conformazione che dobbiamo partire per tentare di cambiare le cose. Abbiamo ragione di credere che l'atrofizzazione si accompagni alla liberazione di alcune facoltà che mettono queste persone in grado di operare trasformazioni che i vecchi «individui» non avrebbero mai saputo realizzare. L'apertura di una breccia nella parete monadologica che nell'era liberale imprigionava ogni individuo in se stesso è motivo di grandi speranze.
La generazione radiofonica è stata definita «bidimensionale». La mancanza di continuità nell'esperienza rende loro quasi impossibile provare felicità e dolore. Nessuna felicità, perché essa si dà soltanto dove c'è il sogno, ed essi non sanno più sognare. Sono pressoché incapaci di concepire scopi che vadano al di là del loro ambito d'azione abituale, e tali da trascendere l'adattamento alle sue condizioni. Felicità significa per loro adeguarsi, poter fare quello che fanno tutti, fare ancora una volta quello che fanno tutti. Sono privi di illusioni. Vedono il mondo così com'è, ma a costo di non poterlo più vedere come potrebbe essere. Per questo sono carenti anche dal punto di vista del dolore. Sono «induriti» in senso fisico e psicologico. La freddezza è uno dei loro tratti più spiccati: sono freddi nei confronti del dolore altrui, ma anche nei confronti di se stessi. Il dolore ha così poco potere su di loro perché quasi non se ne ricordano: sono come il paziente che si risveglia dall'anestesia senza più sapere nulla delle sofferenze provate nel corso dell'operazione (il momento della freddezza è stato sottolineato in particolare da Ödön von Horvath).
L'impiego della tortura nei regimi fascisti potrebbe avere rapporti molto stretti con questi aspetti. Se esso parte da individui assuefatti al dolore, si rivolge d'altro canto a individui che possono ancora essere raggiunti soltanto per mezzo di un eccesso di dolore. A questa freddezza risponde una complicità segreta con le cose, alle quali si cerca di assimilarsi. Nella misura in cui esiste ancora una libido individuale, cioè nella misura in cui non tutta la libido è ancora incanalata nel collettivo, essa si rivolge a degli strumenti (il fenomeno della toolmindedness). Il mondo delle cose diventa il sostituto delle immagini. Professano la religione dell'automobile. Il rapporto con i prodotti della tecnologia mette capo a una quantomai curiosa mescolanza tra capacità di improvvisazione e obbedienza, tra «iniziativa» autonoma (mentalità da truppe di assalto) e rinuncia a un pensiero autonomo, una miscela che racchiude in sé la possibilità di entrambi gli estremi. Il problema principale è ai nostri occhi l'interdetto psicologico oggi in vigore. Pensare di più, cioè spingersi per mezzo del pensiero al di là delle esigenze immediate poste dall'ambiente circostante, equivale oggi per la maggior parte degli individui a turbare quel processo di adattamento che requisisce la totalità delle loro energie psichiche. Pensare di più significa ormai di per sé mettere a rischio le proprie chance di carriera, se non addirittura la propria immediata sicurezza. Al tempo spesso, però, la perdita di ogni illusione intorno alla realtà, la quantificazione dei processi lavorativi che in teoria può consentire a ciascuno di svolgere qualunque mansione, e la relativa immediatezza con la quale le forze della società si affermano fanno sì che proprio il mondo oggettivo delle cose venga incontro a quella conoscenza che esso contemporaneamente reprime. Quegli stessi uomini che si vietano il pensiero (e comportamenti affini come leggere libri, discutere di problemi teorici, ecc) si sono fatti «scaltriti» e non si lasciano più abbindolare da nessuno.
Questa contraddizione ci sembra delimitare il problema veramente centrale di un'educazione riflessiva nell'attuale fase storica. Si tratta di sospingere questo «essere scaltriti» fino al punto in cui esso fa saltare la fissazione all'ambito di azione immediato e si trasforma in autentico pensiero. Se una simile operazione riuscisse sarebbero proprio gli uomini «mutilati» a trovarsi nella condizione ideale per mettere fine alla mutilazione. La loro freddezza può diventare spirito di abnegazione per il vero, l'improvvisazione diventare astuzia nella lotta contro l'organizzazione colossale, la loro afasia diventare prontezza nel compiere atti decisivi, senza parlare o discutere. È a questo punto evidente che l'operazione richiesta in questo senso alla pedagogia non coincide con quella che spettava a un'educazione alla «cultura» tradizionale.
Non mi permetto di soffermarmi sulle singole frasi. Mi sembra pensiero puro. E profondissimo.
"La freddezza è uno dei loro tratti più spiccati: sono freddi nei confronti del dolore altrui, ma anche nei confronti di se stessi."
Proviamo a contestualizzare storicamente questa frase: la radio all'epoca della prima guerra mondiale era appena stata inventata, quindi la bidimensionale generazione radiofonica doveva ancora essere partorita. Questo non ha impedito (faccio un solo esempio su mille possibili) a Cadorna di schierare i Carabinieri dietro alle truppe di assalto per sparare direttamente contro chi non avanzava, nè ha impedito ai carabinieri stessi di sparare ed uccidere i loro stessi concittadini. Le carneficine della Grande Guerra, quando la radio non aveva ancora spostato l'immaginario collettivo, non hanno bisogno di commenti.
Si apre quindi l'ipotesi secondo cui la generazione radiofonica altro non sia che una variante dell'insensibilità al dolore che permea la cultura europea.
Come poi tale insensibilità possa diventare sensibilità, così come auspicato nell'ultimo paragrafo, non è purtroppo dato sapere. La mia idea è che una cultura insensibile non possa che formare umanità insensibile, e solo agendo in ambito educativo e sociale (culturale in senso lato) si possano spostare quei parametri che forgiano le generazioni.
Caro Tonguessy,
il punto fondamentale è questo: "È a questo punto evidente che l'operazione richiesta in questo senso alla pedagogia non coincide con quella che spettava a un'educazione alla «cultura» tradizionale". A rigore non c'è una insensibilità che diventa sensibilità.
Per quanto mi riguarda, credo che chi agisce sul piano politico – e non su quello religioso, o del volontariato o della solidarietà umana – debba prendere atto che "la gente" si forma una "opinione" adattiva. E' predisposta anche a farsi una opinione critica, anche severamente critica, anche ad assumere il ruolo di truppa d'assalto – senza che da dietro i carabinieri sparino -; ma ciò accade soltanto in presenza di due presupposti: i) la scomparsa della droga fino ad un certo punto fornita dal sistema e la fine delle precedenti "certezze", che erano parte fondamentale della "opinione" – una grave crisi economica o un declino che comporti una progressiva riduzione dei consumi e anzi delle entrate è pertanto necessaria; ii) l'esistenza di una significativa "fonte" dell'opinione contraria e radicale. Sotto questo profilo la necessità anche di una televisione, sul tipo di quella posseduta da Hezbollah è fondamentale. Naturalmente, prima della televisione servono centomila militanti e una classe dirigente.
Insomma la gente, intesa come massa amorfa dei cittadini, è l'ultimo dei problemi. Non è cinismo. Credo che sia un fatto. Ed è comunqueil risultato della mia "interpretazione", risultato del quale non sono per niente felice; e tuttavia si impone sui mei desideri. L'"ambito educativo e culturale" deve essere utilizzato per formare i centomila militanti. Poi esaurisce quasi completamente la sua funzione. A quel punto sei un concorrente con altri per il potere e utilizzi i mezzi (slogan, frasario ideologico, rischio di scatenare istinti pericolosi) per formare l'opinione adattiva, ossia per persuadere la gente che è tempo di comportarsi come dici tu, di tener conto di ciò di cui tieni conto. Quando poi hai il potere, se sei un grande, puoi tornare ad utilizzare al meglio l'ambito educativo e culturale.