DISCIPLINA e/è CREATIVITÀ
“Non ne sono all’altezza.
Ha mai risposto così un uomo?”
(Nietzsche).
Non sono all’altezza di parlare di buona didattica. Ha mai risposto così uno studente? o un genitore?
Non sono all’altezza di parlare degli approcci, dei condizionamenti, delle modificazioni dell’apprendimento in forza delle sue componenti psicologiche. Ha mai risposto così un insegnante? o un giornalista? o uno scrittore?
I due mondi dell’istruzione – chi insegna e chi apprende – hanno oggi inasprito le loro ragioni, creando due vere e proprie legioni che combattono su fronti opposti:
– da un lato i fautori del rigore a tutti i costi, del metodo scientifico, dell’analisi testuale, dell’ermeneutica dei dati senza fronzoli “impressionistici”, della disciplina;
– dall’altro i paladini della semplificazione a tutti i costi, del no-compiti-a-casa, delle vacanze trascorse solo a “camminare in riva al mare” o “a ballare fino all’alba”, della creatività.
È possibile una mediazione?
Se ponessimo questa domanda al nostro illustre trisavolo Aristotele, la risposta sarebbe pronta e inequivocabile: μέσον τε καὶ ἄριστον (ciò che sta nel mezzo è la cosa migliore).
Posto che in ogni cosa è sempre meglio ripudiare gli eccessi, vediamo più tecnicamente come dare conforto a questo ideale.
Cominciamo allora con la definizione del punto focale dell’istruzione, l’apprendimento: processo che conduce ad una modifica stabile del comportamento e degli schemi di reazione risultante da uno stimolo esperenziale (Canestrari-Godino).
Questo processo non è lineare. In altre parole non è detto che dato uno stimolo si ottenga su chiunque la stessa risposta. Vi è tutta una costellazione di fattori che influenzano il processo:
1) universali: legati cioè alle tappe della maturazione biologica, uguali in tutti gli individui sani, in base a cui, per es., un bambino di 4 anni non potrà mai comprendere una concettualizzazione filosofica per quanto bene gliela si possa spiegare, semplicemente perché il pensiero formale, ovvero il pensiero che consente di manipolare e fare operazioni sui concetti astratti e non solo su oggetti concreti, non si forma prima dei 12 anni (Piaget).
2) innati: legati al personale stile di reattività agli stimoli, osservabile fin dalla nascita, se non addirittura prima: differenze nella reattività sono state registrate anche nei feti a partire dal quinto mese di gestazione (Umiltà 1995).
3) ambientali: intendendo risorse e carenze sia dell’ambiente fisico, sia dell’ambiente sociale (familiare, amicale, scolastico, lavorativo), che diversificano le esperienze di ciascun individuo
4) didattici: legati ai metodi di insegnamento, in realtà a loro volta legati non solo alla specifica preparazione dell’insegnante ma anche ai suoi personali convincimenti e disposizioni caratteriali
5) psicologici: legati alla motivazione dell’individuo all’apprendimento (o all’insegnamento…), a sua volta strettamente legata alla sfera emotiva.
Ampliamo il discorso sul quinto punto perché paradossalmente è quello meno intuitivo.
Se diamo una veloce scorsa alle teorie che tentano di indagare e spiegare la motivazione, ovvero la molla che spinge l’essere umano ad agire, troviamo:
a) Teorie pulsionali: la spinta che produce il comportamento fa sempre capo o 1) a dinamiche di tipo aversivo, ovvero di evitamento di una situazione spiacevole, o 2) a dinamiche che impongono la soddisfazione di un bisogno
b) Teorie dell’attivazione: la spinta ad agire, e quindi il piacere di agire, derivano dal livello di stimolazione dell’organismo o dal tentativo di mantenere alto il livello di questa stimolazione (per es. persone che amano guidare velocemente, vedere film d’azione, ascoltare la musica ad alto volume, ecc.)
I limiti estremi dello stato di attivazione possono volgere sia verso il basso fino all’abolizione della coscienza (come nel sonno), sia verso l’alto, creando condizioni di panico o di suscettibilità incontrollabile. Un’attivazione elevata implica anche un’alta distraibilità, perché l’individuo iperattivato reagisce prontamente a tutti gli stimoli senza saper discriminare, quindi anche a stimoli ambientali estranei al compito che sta effettuando, rendendone l’esecuzione imprecisa o penosamente prolungata.
È una teoria che ha numerosi risvolti pratici, e che ci ha insegnato che la migliore prestazione per compiti di natura complessa la si registra ad un livello di attivazione non troppo elevato (per questo si sconsiglia vivamente agli studenti che devono affrontare esami importanti di assumere eccitanti), o che persone molto timide (quindi con grande reattività ansiosa) devono essere messe a proprio agio perché possano dar prova di ciò che sanno fare.
c) Teorie dell’attribuzione: nella spinta ad agire vi è la ricerca del successo. tuttavia non è motivante il successo in sé, ma il fatto che noi riteniamo di averlo meritato, e il presupposto che il nostro impegno sarà premiato; se al contrario riteniamo che il destino o qualunque altro fattore esterno sia la causa dei nostri successi o dei nostri fallimenti, la nostra motivazione verrà meno, così come il nostro impegno. L’ago della bilancia di quest’attribuzione è la fiducia in sé. E da lì si innesca un circolo vizioso: meno si ha fiducia in se stessi e più si fallirà, più si fallirà e più si sarà vulnerabili.
È su questo principio che si fondano organizzazioni come quelle degli alcolisti anonimi: constatare che altri con i propri stessi problemi ce l’hanno fatta, aumenta la fiducia nel poter fare altrettanto.
d) Teoria dell’attaccamento: deriva dagli studi empirici e dall’acume di John Bowlby, ed è una teoria che debella vecchie e fallaci illazioni psicanalitiche, fa luce sul bisogno di ogni individuo di stringere legami stabili, tributandogli lo stesso valore primario conferito a fame e sessualità, e inquadra la conseguente angoscia dell’abbandono e della solitudine non come segno di immaturità o di patologia, ma come diretta conseguenza di un bene primario che viene a mancare. La figura di accudimento che sappia offrire nei prima anni di vita del bambino una presenza attenta, propositiva, calorosa ma non intrusiva, e soprattutto libera da segnali di contraddizione, imprevedibilità o rifiuto, infonde nel bambino fiducia e sicurezza, la base sicura da cui partire per affrontare il mondo. Ed ecco che ricerca della vicinanza ed esplorazione diventano due facce della stessa medaglia.
Una lunga serie di studi hanno poi affinato e corroborato questa teoria, portando a definire la coscienza come un fenomeno sociale (Barlow, Humphrey, Liotti, Matrurana, ecc.).
A questo proposito è curioso notare come, prima ancora delle scienze psicologiche, abbiano intuito questa verità due grandi pensatori, peraltro antitetici:
“Il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con gli altri“. (Karl Marx);
“La coscienza in generale si è sviluppata soltanto sotto la pressione del bisogno di comunicazione” (F. W. Nietzsche).
La componente relazionale è chiaramente legata alla componente emotiva.
E “le emozioni rappresentano un meccanismo adattivo atto a favorire la sopravvivenza della specie, codeterminano il comportamento e la loro comunicazione produce effetti sia sul soggetto sia sull’ambiente” (C. Darwin 1872).
Quindi la componente emotiva è chiaramente legata a quella cognitiva: la dimensione affettiva è un modo per arricchire e articolare la nostra percezione e comprensione della realtà (Canestrari-Godino).
Ricapitolando: non c’è soluzione di continuità tra motivazione-relazioni-emozioni-cognizioni, ma vivono anzi di un abbraccio così intimo che non si può pensare di stringere la cinghia sull’una e di poter far respirare le altre.
Come si traduce tutto questo nell’ordine di facilitazione o occlusione del processo di apprendimento?
Ognuna delle teorie della motivazione coglie una caratteristica del motore che aziona le nostre scelte, per cui sappiamo, per es., che chi apprende vorrà sicuramente evitare il dispiacere di una brutta figura all’interrogazione, ma vorrà anche trovare un qualche piacere in ciò che deve imparare.
Non si tratta di cercare semplificazioni, né di trovare l’aspetto ludico in ogni conoscenza da acquisire, o in ogni maturità da conquistare. Si tratta, per dirla con Nietzsche, di “ritrovare la serietà che da bambini si metteva nel gioco“, di attivare l’esplorazione accettandone le fatiche e le responsabilità, si tratta di fare della scuola la base sicura da cui partire per avventurarci tra i panorami del sapere che ispirano il piacere della vita e la ricchezza della coscienza.
Una buona didattica non lascia che apprendimento e motivazione diventino due rette parallele, se non come rotaie dello stesso treno: la Conoscenza. E le traverse che tengono ben saldo il binario? quelle della creatività.
È la variabile interveniente che più di tutte le altre viene presa di mira dai fautori di entrambi i fronti succitati: chi la esalta e chi la disprezza.
Ma per parlare di creatività dobbiamo prima parlare di intelligenza. cos’è l‘intelligenza? vediamola nella definizione di alcuni autori:
L’intelligenza è la capacità generale di adattare il proprio pensiero e condotta di fronte a condizioni e situazioni nuove (Stern).
L’intelligenza permette di ristrutturare i dati di un problema o di una percezione, per cui il comportamento intelligente non è soltanto di tipo logico analitico ma anche sintetico, intuitivo e creativo (Wertheimer, Köhler, Neisser)
Come si vede dalle definizioni, l’intelligenza ha implicazioni strette con la creatività. impossibile ignorare o sminuire questo stretto legame se si vuole affrontare seriamente la tematica che ruota attorno all’apprendimento (e all’insegnamento).
Quindi ora possiamo vedere con maggiore scrupolo cos’è l‘intelligenza creativa: è la capacità di immaginare un’alternativa non banale nella percezione o nell’uso di qualcosa (Canestrari-Godino).
Facciamo un esempio. Un oggetto come un mattone può essere usato ordinariamente come tale nella costruzione edile, come peso o zavorra, ma anche, più creativamente: come gradino, come leva, come fermacarte, come arma, come martello, ecc.
Ma per poter immaginare gli usi alternativi del mattone, dobbiamo prima saper cogliere le sue proprietà percettive fondamentali: se non ne cogliessimo la durezza non ci verrebbe mai in mente di utilizzarlo come arma contundente, se non ne cogliessimo la stabilità non potremmo pensare di usarlo come fermacarte, ecc.
La capacità di inventare una nuova strategia si oppone alla tendenza innata del pensiero di affrontare problemi nuovi rimanendo intrappolati nella fissità funzionale di un oggetto e utilizzando in modo privilegiato e meccanico set mentali che si sono dimostrati efficaci nel passato.
L’esperimento di Duncker chiarirà meglio. Ai soggetti indagati fu chiesto di montare verticalmente tre candele su un asse di legno verticale, usando alcuni oggetti messi a disposizione su un tavolo: tre scatole di cartone di varia grandezza, dei fiammiferi, delle puntine da disegno, ecc.
Questa era la soluzione del quesito:
Solo il 41% dei soggetti ne ebbe comprensione.
L’esperimento fu replicato da altri autori con i medesimi risultati e conclusioni: un problema va affrontato non solo con processi logici ma anche psicologici.
La conoscenza delle proprietà degli oggetti e la loro riorganizzazione, i cambiamenti del campo visivo, la ristrutturazione spaziale e temporale del problema sono variabili psicologiche e creative che si possono e si devono insegnare, così come si insegnano i processi logici.
Tralasciamo ora per un attimo il tema centrale e concediamoci una domanda, non digressiva, ma trasversale: qual è l’obiettivo, il coronamento di ogni conoscenza? qual è il momento in cui un insegnante può dire in tutta onestà e con piena soddisfazione che il suo alunno è davvero preparato?
La risposta plausibilmente universale è: la scuola ha centrato il suo obiettivo quando lo studente ha sviluppato il pensiero critico.
Questo ci consente di affermare che insegnare il pensiero critico significa innanzitutto educare l’intelligenza creativa.
Perché se è vero come è vero che il pensiero critico è fatto di analisi metodica e profonda dell’oggetto di studio, di capacità di valutazione e di rielaborazione, salta subito all’occhio la sua assonanza semantica con l’intelligenza creativa.
Eppure c’è chi ritiene la creatività fonte di disordine, di perdita di tempo, di sciatteria dell’intelletto.
Ma il problema non è la creatività.
Il problema è: qualcuno farebbe insegnare matematica a chi è laureato in lettere?
No. Ognuno è chiamato a trasmette le conoscenze in cui è si specializzato.
E dunque perché la creatività viene lasciata al caso, all’individualismo, al pastrocchio di programmi o di giornate gestite dall’improvvisazione?
Il problema è la soggettivizzazione, la superficialità, l’assenza di interdisciplinarietà, di pianificazione di contenuti e fini psicocognitivi da perseguire per il tramite degli strumenti creativi.
L’angolo dell’arte tra le stanze della scuola, se concepito con debita e seria progettualità, può diventare fulcro di benefici di cui godrebbe ogni materia didattica: la disciplina dell’attenzione e della collaborazione; l’educazione all’osservazione, alla recettività percettiva e al pensiero olistico; la gestione delle emozioni e delle facoltà mnestiche (soprattutto della memoria procedurale, quella dei processi inconsci che possono intrappolare emozioni e cognizioni senza riuscire a sottoporle ad analisi trasformative); l’addestramento a più congrui modelli comunicativi, nonché al rispetto delle condotte relazionali, non fosse altro perché persino un assolo o un monologo in realtà è sempre asservito a un dialogo: col pubblico.
Il mainstream europeo pretende di commercializzare tutto, e per farlo ha bisogno di colpire tutto ciò che possa portare al cambiamento e al pensiero critico: la scuola. Non potendo ignorare la grande mole di studi psicologici che restituiscono all’essere umano la consapevolezza dei propri mezzi e il modo per migliorarli, ha piegato questi studi ai propri fini, saccheggiandoli, involgarendoli, trasformandoli in poco più che salviettine usa&getta per rinfrescarsi dal sudore scolastico, vuoti a perdere del marketing globale.
Non cadiamo nella trappola.
Perché sarà pur vero, come dice C. Raimo, che la scuola non è un attimo fuggente, ma un attimo ha mille tasche solo se si ha molto da infilarci…Altrimenti tutto “si fugge via”, come la giovinezza…
Un mio personale consiglio per i compiti per le vacanze?
Che il mare del tramonto sia l’alba della lettura.
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