di GIUSEPPE MAZZINI
Hanno tutte le nazioni, e noi più ch’altri abbiamo, immensi scrittori, e troppi forse poeti. Ma quanti furono coloro, i quali non prostituirono l’ingegno, e la penna alla tirannide politica (perché anche la repubblica delle lettere ha i suoi dittatori)? Le corti, le sette, le scuole, le accademie, i sistemi, e i pregiudizi, che ogni secolo trascina, corruppero i più, e pochissimi furono quei grandi, che non seguitarono stendardo, se non quello del vero, e del giusto.
De’ primi la posterità fece severo giudicio, ma dei secondi affidò la memoria all’amore di tutti i buoni, e loro commendò di serbare intatto quel sacro deposito a conforto nelle sciagure, e ad incitamento ne’ tempi migliori. Fra questi sommi, che stettero incontaminati in mezzo all’universale servaggio, e non mirarono ne’ loro scritti, come nella lor vita, che all’utile della patria; l’Italia avida di lavar la memoria dell’antica ingiustizia, diè il primato, quasi senza contrasto, al divino Alighieri, e se orgoglio municipale o spirito di contesa mossero alcuni a ribellarsi contro l’universale sentenza, fu leggiero vapore in un bel cielo sereno. Un uomo di cui son calde ancora le ceneri, e di cui vivrà bella la memoria tra noi, finch’alme gentili alligneranno in Italia, pareva avere rivendicato a Dante il vanto d’ottimo cittadino in tal guisa, che più non dovesse sorgere alcuno a contrasto.
Le sciagure d’una nazione, la quale, piena di coraggio e di forze, le rivolge furiosamente contro i suoi figli, e prepara allo straniero la via, consumando miseramente se stessa, saranno sempre alto argomento di dolore, e di pianto a chi sente. E diciamo di dolore, e di pianto, perché in ogni tempo i più s’appagano di gemere, e di tacere sovra infortunii, a cui non possono porre riparo. Ma in tutti i secoli v’hanno delle anime di fuoco, che non possono acquetarsi all’universal corruttela, né starsi paghe d’uno steril silenzio.
Collocate dalla natura ad una immensa altezza comprendono in un’occhiata la situazione, e i bisogni de’ loro simili; straniere a’ vizi de’ loro contemporanei, tanto più vivamente ne sono affette; uno sdegno santo le invade; tormentate da un prepotente desío di far migliori i loro fratelli, mandano una voce possente e severa, come di Profeta, che gridi rampogna alle genti; voce, che il più delle volte vien male accolta da coloro, a’ quali è dirizzata, come da fanciulli la medicina. Ma chi dirà doversi anteporre la lusinga d’un plauso fugace alla riconoscenza più tarda de’ posteri?
A questa sola Dante mirava, e lo esprimeva in quei versi, che non dovrebbero obbliarsi mai da chi scrive
“E s’io al vero son timido amico,
Temo di perder vita tra coloro,
Che questo tempo chiameranno antico”.
Parad., c. XVII
Forse egli gemeva della dura necessità, che astringevalo a denudare le piaghe della sua terra, forse ogni verso, in cui scolpiva una delle tante colpe, che la macchiavano, gli costava una lacrima, e gli dolea, che la sua voce dovesse esser molesta nel primo gusto; ma si confortava pensando, che avrebbe lasciato vital nutrimento, come fosse digesta, conforto veramente degno dell’alto animo suo; perché bella lode s’aspetta a chi tempra un inno alle glorie patrie, ma vieppiù bella a chi tenta ricondurre all’antica virtù i suoi degeneri concittadini, impresa difficile e perigliosa. Per essi volevansi parole di fuoco, come l’indole loro, parole d’alto sdegno, d’iracondo dolore, di amaro scherno, tali insomma, che colpir valessero quelle menti indurate, perché l’aura, che offende la dilicata beltà, passa non sentita sulla cute incallita del villano, e agli scrittori è forza usar lo stile, che i tempi richieggono, ov’essi anelino all’utile, non ad una gloriuzza sterile e breve.
Tali parole proferí l’Alighieri, ispirandosi alle sciagure immense della sua patria, alle colpe e a’ vizi, che le eternavano, e all’anima sua bollente, mesta e severa per natura, allevata ne’ guai, di niuno amica, fuorché del vero. Vestita la severità d’un giudice, flagellò le colpe e i colpevoli, ovunque fossero; non ebbe riguardo a fazioni, a partiti, ad antiche amicizie; non serví a timor di potenti, non s’innorpellò ad apparenze di libertà, ma denudò con imparziale giudizio l’anime ree, per vedere se il quadro della loro malvagità potesse ritrarre i suoi compatriotti dalle torte vie, in che s’erano messi, come i magistrati di Sparta, a chi s’avviliva coll’uscir da’ limiti della temperanza, presentavano l’abbietto spettacolo d’un Iloto briaco.
Egli inveisce agramente contro le colpe, onde l’itala terra era lorda, ma non è scoppio di furore irragionevole, o d’offeso orgoglio; è suono d’alta mestizia, come d’uomo, che scriva piangendo; è il genio della libertà patria che geme sulla sua statua rovesciata, e freme contro coloro, che la travolser nel fango. – Nei versi, che più infieriscono, tu senti un pianto, che gronda sulla dura necessità, che i fati della patria gl’impongono; tu discerni l’affetto d’un padre, il quale si sforza di vestire una severità, che non è nel suo cuore, per soffocare una passione crescente nel petto del figlio, che può trascinarlo in rovina. Le voci – patria, natio loco, mia terra – appaiono tratto tratto per farti risovvenire, che il poeta ama Fiorenza collo stesso ardore, con cui flagella i lupi, che le dan guerra.
In tutti i suoi scritti, di qualunque genere essi siano, traluce sempre sotto forme diverse l’amore immenso, ch’ei portava alla patria; amore, che non nudrivasi di pregiudizietti, o di rancori municipali, ma di pensieri luminosi d’unione, e di pace; che non ristringevasi ad un cerchio di mura, ma sibbene a tutto il bel paese, dove il sí suona, perché la patria d’un italiano non è Roma, Firenze, o Milano, ma tutta l’Italia. Con tale mente egli scrisse il libro della Monarchia, in cui se tutte le idee non son tali da dover essere universalmente abbracciate, tutte almeno appaion dettate da un ottimo spirito, quale ammettevano i tempi; in questo egli mirò a congiungere in un sol corpo l’Italia piena di divisioni, e sottrarla al servaggio, che allora minacciavala più che mai.
Con tal mente fu da lui concepito il trattato del volgare Eloquio, che concitò in questi ultimi tempi lo spirito irritabile de’ letterati italiani a controversie più argute forse, che utili. – In questo egli s’erge luminosamente al di sopra di quella torma di grammatici, che fanno intisichire la lingua per volerla costringere nelle fasce della sua infanzia; dimostra la vera favella italiana non esser Tosca, Lombarda, o d’altra Provincia; ma una sola, e di tutta la terra
“Ch’Appennin parte, e ’l mar circonda, e l’alpe”.
Insegnando a’ suoi coetanei, come questo idioma illustre, fondamentale non aveva nessun limite, ma si facea bello di ciò, ch’era migliore in ogni dialetto, egli cercava di soffocare ogni contesa di primato in fatto di lingua nelle varie provincie, ed insinuava l’alta massima, che nella comunione reciproca delle idee sta gran parte de’ progressi dello spirito umano.
O Italiani! Studiate Dante; non su’commenti, non sulle glosse; ma nella storia del secolo, in ch’egli visse, nella sua vita, e nelle sue opere. Ma badate! V’ha più che il verso nel suo poema; e per questo non vi fidate ai grammatici, e agli interpreti: essi sono come la gente, che dissecca cadaveri; voi vedete le ossa, i muscoli, le vene che formavano il corpo; ma dov’è la scintilla, che l’animò? Ricordatevi, che Socrate disse il migliore interprete d’Omero essere l’ingegno più altamente spirato dalle muse. Avete voi un’anima di fuoco? Avete mai provato il sublime fremito, che destano l’antiche memorie? Avete mai abbracciate le tombe de’pochi grandi, che spesero per la patria vita, e intelletto? Avete voi versata mai una lacrima sulla bella contrada, che gli odi, i partiti, le dissensioni, e la prepotenza straniera ridussero al nulla?
Se tali siete, studiate Dante; da quelle pagine profondamente energiche, succhiate quello sdegno magnanimo, onde l’esule illustre nudriva l’anima; ché l’ira contro i vizi e le corruttele è virtù. Apprendete da lui, come si serva alla terra natía, finché l’oprare non è vietato; come si viva nella sciagura. La forza delle cose molto ci ha tolto; ma nessuno può torci i nostri grandi; né l’invidia, né l’indifferenza della servitù poté struggerne i nomi, ed i monumenti; ed ora stanno come quelle colonne, che s’affacciano al pellegrino nelle mute solitudini dell’Egitto, e gli additano, che in que’ luoghi fu possente città. Circondiamo d’affetto figliale la loro memoria. Ogni fronda del lauro immortale, che i secoli posarono su’ loro sepolcri, è pegno di gloria per noi; né potete appressare a quella corona una mano sacrilega, che non facciate piaga profonda nell’onore della terra, che vi diè vita. O Italiani! non obbliate giammai, che il primo passo a produrre uomini grandi sta nello onorare i già spenti.
[Dal saggio Dell’amor patrio di Dante, 1826]
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