Il valore della sovranità
di PAOLO DI REMIGIO (ARS Teramo)
Nelle rappresentazioni comuni lo stato appare come il limite delle libertà individuali, la libertà come arbitrio degli individui; quanto più è largo questo limite, quanto più lo stato si ritrae dalla vita degli individui, tanto più gli individui sono liberi – questa la rappresentazione liberale; quanto più la gestione dello stato è espressione degli individui, tanto più gli individui e lo stato sono liberi – questa la rappresentazione democratica. Entrambe le rappresentazioni sono corrette, ma non nel senso comunemente inteso. Il senso comune presuppone infatti che gli individui siano il bene, lo stato il male. Ciò contrasta però con il significato dei termini; l’individuo è infatti il particolare, lo stato l’universale; il particolare (ossia ciò che equivale al quantificatore «qualche») è ciò che è opposto a un altro, l’universale (ciò che equivale al quantificatore «tutti») è ciò in cui i differenti sono congiunti; ne segue che il particolare è il disgregato, e corrisponde alla rappresentazione del male, l’universale è l’unito, corrisponde dunque al bene. Perché la rappresentazione liberale e quella democratica siano corrette è necessario che l’individuo sia non soltanto particolare, ma anche universale; rispetto all’individuo che sa coniugare il suo interesse con la cosa pubblica lo stato deve essere liberale e ritrarsi quanto è possibile, così come lo stato deve essere democratico in quanto esprime individui che sanno la mediazione tra il loro interesse e l’interesse universale.
La tradizione filosofica ha identificato la volontà chiusa nel suo particolare con l’arbitrio, la volontà che sa la mediazione tra il suo particolare e l’universale con la libertà. L’arbitrio è la volontà immatura, dispersa nel gioco degli impulsi naturali e dunque incapace di realizzarsi positivamente, la libertà è la volontà reale; tra di loro non c’è scelta, piuttosto: l’arbitrio è la forma iniziale della volontà che si sviluppa così da diventare volontà libera. Rappresentare questo sviluppo è l’obiettivo esplicito di ogni esposizione etica della filosofia hegeliana, non solo quella della Fenomenologia, anche di quella dei Lineamenti della filosofia del diritto; quella si riferisce all’individuo naturale che dalla bramosia arriva all’autocoscienza universale, questa si riferisce all’individuo socializzato che dalla proprietà privata arriva al patriottismo. Percorreremo la prima di queste due vie.
Iniziamo con l’esporre il nucleo del pensiero hegeliano. Al prezzo di una certa imprecisione lo si chiama «dialettica»; ma ancora più fuorviante è l’espressione di «logica dialettica»; proprio come non esiste una matematica o una fisica dialettica, non esiste infatti una logica dialettica alternativa alla logica comune, questa in uso nella scienza della natura, quella raccomandata per l’indagine sociale; esiste un metodo dialettico-speculativo che si applica ai principi di tutte le scienze per verificarne la portata di verità, che procede dunque oltre l’analisi e la sintesi cui ricorre l’esposizione scientifica. Analisi e sintesi sono procedimenti della conoscenza, non processi dell’oggetto[1]: vanno dal complesso dei teoremi al semplice dei principi e viceversa, così da comunicare al complesso l’evidenza che è propria del semplice; la verità che assicurano è dunque quella soltanto soggettiva dell’evidenza. Paghe dell’evidenza del semplice, non ne mettono in discussione la verità, dunque delegano all’esperienza la decisione sulla verità della teoria.
Non c’è nulla di semplice e l’evidente non è il vero; la semplicità è superstizione e l’evidenza ingenuità: questo il credo del metodo dialettico-speculativo. Il suo compito è criticare la verità dei principi; il suo contegno è dunque quello dello scetticismo radicale che trova la contraddizione in ogni oggetto. A differenza dello scetticismo, che abbandona l’oggetto dopo averne mostrato la nullità e rivolge ad altro il suo potere corrosivo, la dialettica indugia sull’oggetto negato, fino a quando questa negazione non si mostra come oggetto positivo, come nuovo principio – questo mostrarsi di un nuovo principio, con cui lo scetticismo diventa scettico nei suoi stessi confronti, ciò che Hegel chiama «speculazione», è la mediazione con cui i principi sono generati. Che l’avanzamento dialettico sia una confutazione ne fa un arretramento: il nuovo oggetto non è una conseguenza del vecchio principio, è, anzi, principio, rispetto al quale quello vecchio è solo un momento negato. Poiché nell’avanzare retrocede, il metodo dialettico-speculativo compone in una superiore circolarità logica i principi teorici e pratici[2].
Applicato alla storia, il metodo filosofico produce la conoscenza del processo per cui i principi storiografici sorgono ognuno nell’annullamento critico dell’altro, per comporsi infine come elementi conciliati nel moderno stato monarchico-costituzionale. La filosofia hegeliana della storia dunque, per quanto straordinariamente ricca di conoscenze, gran parte delle quali di una esattezza empirica che sfida ancora il tempo, è estraneo allo storicismo, sia a quello che, in fuga dal presente, vuole immedesimarsi nel passato, sia a quello che cerca le leggi generali della necessità storica; il suo oggetto non è la storia, ma la verità della storia, la genesi speculativa dei suoi principi dalla reciproca confutazione dialettica.
L’uomo ha storia, cioè si stacca dalla natura, perché ha il potere di inibire la bramosia naturale. Questo potere di inibizione è il tema del secondo capitolo della Fenomenologia, sull’autocoscienza, cioè sull’io. Mentre la coscienza è la certezza della verità dell’oggetto, poiché nel suo sviluppo questa verità si inabissa nelle contraddizioni e la coscienza è negata, l’autocoscienza è il significato positivo della nullità di quella certezza: non più la certezza della verità dell’oggetto, ma la certezza della nullità dell’oggetto. In altri termini, nella sua forma iniziale, dunque naturale, l’io è l’orgoglio infinito che ha di fronte oggetti che per lei sono nulli. Lo sviluppo di questo orgoglio, poiché per il metodo lo sviluppo è la completezza della confutazione, non è che la dialettica della sua punizione.
L’oggetto si presenta di fronte all’autocoscienza; questa ne sa l’indipendenza come nulla, così procede a distruggerlo; la distruzione dell’oggetto ne conferma la nullità e insieme prova la verità dell’autocoscienza[3]. Con un ardimento che ha confuso gli interpreti (molti dei quali omettono l’inizio dell’autocoscienza), Hegel chiama bramosia questa autocoscienza naturale che è distruzione dell’indipendenza dell’oggetto, e il sentimento acquisito col realizzarsi della sua superiorità è soddisfazione. Ma la bramosia è contraddittoria: la sua soddisfazione implica l’annullamento dell’oggetto, l’annullamento dell’oggetto ne implica l’indipendenza; dunque la certezza della nullità dell’oggetto, nel fare esperienza della soddisfazione, ha fatto anche esperienza della verità dell’oggetto, dunque è insoddisfatta nella stessa misura in cui è soddisfatta. L’autocoscienza può liberarsi di questa contraddizione solo se l’oggetto stesso annulla la propria indipendenza[4].
Ma questa condizione è già data: la distruzione dell’indipendenza non è soltanto esterna all’oggetto; che questo sia di fronte a un’autocoscienza comporta che l’oggetto sia nullo in se stesso. Ora, l’oggetto che è nullità dell’oggetto è proprio quanto definisce l’autocoscienza. Ne segue che la certezza di sé dell’autocoscienza può trovare soddisfazione, ossia può essere certezza confermata oggettivamente – verità –, solo nel rapporto a un’altra autocoscienza, cioè nel riconoscimento. Si è verificato così un capovolgimento: l’avanzamento dialettico è un retrocedere a un principio superiore: l’io è soddisfatto non come bramosia, in quanto annulla l’oggetto, ma solo se è onorato come io da un altro oggetto che egli onora come io.
Il riconoscimento è la forma elementare dello spirito, cioè dell’identità nella diversità; ma nella sua forma iniziale non è libera dall’oggettività perché la bramosia ve la tiene legata. Riconoscere l’altro come io e ottenerne il riconoscimento implica che le autocoscienze si mostrino superiori all’oggettività. Per farlo devono scegliere il pericolo, perché mettere in pericolo l’oggettivo è come mostrarlo nullo. La scelta del pericolo le spinge alla lotta e la lotta mortale, per le autocoscienze ancora puramente negative in rapporto, è l’unica forma disponibile di riconoscimento. In altre parole, che un oggetto possa onorarmi come io, che io possa onorarlo come io, implica, poiché l’io è la nullità dell’oggettivo, che la mia e la sua oggettività siano per noi nulle, dunque che entrambi siamo capaci di mettere in pericolo la nostra oggettività, il nostro corpo, la nostra vita; ma solo nella lotta possiamo mostrare disprezzo per la nostra vita naturale. La prima forma di riconoscimento ha per oggetto il coraggio.
Anche la lotta incontra però la sua dialettica: il pericolo conduce alla morte e il morto è autocoscienza negata, semplice cosa. La lotta presenta dunque la contraddizione che mentre l’autocoscienza vi si realizza come disprezzo della cosa la cosa vi si impone come disprezzo dell’autocoscienza. La forma positiva di questa contraddizione in cui si inabissa la lotta è il rapporto tra l’autocoscienza che è negazione della cosa e l’autocoscienza negata dalla cosa, il rapporto tra il signore che conserva il suo orgoglio e il servo che considera essenziale la cosa, cioè la propria vita, e la preferisce alla sua autocoscienza. Il servo è l’autocoscienza che ha paura dell’autocoscienza.
Questa contraddizione della servitù acquisisce la sua forma positiva: come autocoscienza il servo annulla la cosa, come autocoscienza negata la conserva; si genera cioè nel servo una distruttività inibita che è il lavoro. Attraverso il lavoro del servo il signore perde ogni rapporto con l’indipendenza della cosa che affliggeva la bramosia: egli si rapporta ora alla cosa prodotta dal servo così che la sua bramosia riceve una soddisfazione completa. Ma questa soddisfazione completa è contraddittoria: è l’oggettività del signore, ma si realizza nella distruzione dell’oggettività, esattamente come la lotta dà esistenza oggettiva all’autocoscienza solo in quanto essa va alla distruzione dell’oggettività: nel signore l’autocoscienza esiste soltanto come distruttività, come morte. Nel servo, invece, l’autocoscienza si dà una realtà positiva: la sua distruttività inibita dalla paura è elaborazione della cosa immediata, della natura, in cosa coltivata, nella quale la negatività dell’autocoscienza è resa positiva come forma della cosa.
Questa autocoscienza che si sente realizzata nella forma dell’oggettività in quanto la servitù la rende indifferente all’impulso sensibile è la figura dello stoicismo. La realizzazione dell’autocoscienza stoica è però astratta; la sua indipendenza è negativa della sfera particolare: essa è in verità scetticismo, e lo scetticismo è la contraddizione di ottenere l’indipendenza imperturbabile solo attraverso la confutazione del particolare, cioè perturbandosi. Questa contraddizione nella sua forma positiva è la coscienza infelice. Nello sviluppo di questa figura l’autocoscienza, accettando di dipendere dal ministro di Dio, umilia radicalmente la propria indipendenza e con questo sforzo di assimilarsi alla cosa cessa il suo orgoglio, cessa di essere autocoscienza e diventa ragione: non più certezza della nullità delle cose, ma certezza della propria identità con le cose.
Queste pagine sono difficili non solo per il metodo che seguono, per l’astrazione dei termini, ma soprattutto per il loro contenuto, che contrasta il senso comune. Esse iniziano dall’individuo, come fa il senso comune; ma questo non appare misurato nei suoi impulsi, gentile con gli altri, come appare nel senso comune; anzi, iniziare dall’individuo significa proiettarsi in uno scenario selvaggio in cui la sua superiorità dell’uomo sulle cose è concepita nella forma elementare del distruggerle e il riconoscimento tra gli uomini è concepito nella forma elementare della lotta. Tutto questo è lontano dall’esperienza quotidiana. Infatti, senza che il senso comune se ne accorgiamo, l’esperienza quotidiana non risulta dall’interazione di autocoscienze naturali, ma da autocoscienze asservite.
Attraverso la servitù, dunque, non nella sua purezza, l’autocoscienza entra nella ragione, cioè nel vivere collettivo che fa da sfondo al senso comune. La vita collettiva è l’autocoscienza che si realizza in un ordine positivo perché l’educazione (e l’educazione è un asservimento) inibisce le sue bramosie e permette un riconoscimento senza lotta. Il risultato paradossale dello sviluppo dell’autocoscienza è quindi che la libertà, ben lungi dall’essere l’altro della servitù, la presuppone. L’inizio dell’uomo, l’autocoscienza come bramosia che va senz’altro alla soddisfazione, è una falsa partenza, che deve essere corretta; la libertà inizia dopo che questa correzione, l’inibizione dell’immediatezza dell’autocoscienza, si è già verificata. Alla fine della preistoria e all’inizio della storia dell’umanità, per quanto ciò ferisca la credenza in un’anima bella originariamente armonica con il suo altro, c’è la servitù, perché solo con la servitù l’uomo si libera da un asservimento alla propria bramosia da cui potrebbe scaturire soltanto lo stato di natura, la condizione del perfetto orrore.
Secondo l’idea hegeliana, che lo stato inizi come asservimento dell’arbitrio (ossia della bramosia nella sua forma civilizzata), anziché condannare lo stato, fa dell’asservimento una necessità ineludibile. La storia lo presuppone quindi come suo inizio: essa è lo sviluppo delle forme statali dal paternalismo alla monarchia costituzionale, in cui si restaurano i diritti della particolarità. La restaurazione del particolare all’interno dell’asservimento dell’arbitrio, dunque l’organizzazione della libertà, sono realizzate dalla sovranità dello stato progredito nella sua forma moderna. Sovranità significa che tutti gli individui si subordinano all’individuo collettivo. La loro libertà è garantita dalla negazione dell’arbitrio nell’ambito pubblico, dal fatto che l’ambito pubblico sia regolato da leggi generate da un processo di mediazione tra poteri differenti. È questa mediazione che sopprime l’arbitrio dei governanti e realizza la sovranità.
Alla fine della storia moderna lo stato assoluto è abolito perché la sovranità si estende all’intero popolo, governati e governanti, e ciò permette il dominio della legge e lo sviluppo della libera particolarità. Solo a partire dall’umiliazione di ogni bramosia elementare (l’alienazione totale dei diritti naturali, secondo Rousseau) la volontà particolare dell’individuo è in grado di misurarsi e di comporsi con quella degli altri. Solo se si presuppone questo spegnersi dell’arbitrio nella sovranità diventano concepibili la sfera privata e la democrazia: il godimento della sfera privata è condizionato dalla sicurezza, cioè dalla fiducia nella soppressione della bramosia altrui; la democrazia presuppone nei singoli la percezione del proprio interesse subordinato all’interesse generale. Così, poiché i diritti sono il riconoscimento della libertà generale e la libertà generale presuppone l’illegittimità dell’arbitrio, non ha senso riferire i diritti all’arbitrio, cioè all’uomo al di fuori della sovranità: i diritti dell’uomo sono un dovere degli stati, un effetto della loro sovranità; la soppressione della sovranità è dunque la soppressione di ogni diritto.
Il disprezzo della sovranità è il primo articolo di fede dell’Unione Europea; mentre gli stati europei gliela cedevano, essa la rifiutava. In un discorso pronunciato all’università di Stanford[5] l’ex-presidente della Commissione Europea Barroso ha celebrato questo contegno proclamando che l’Unione Europea non è «né un super-stato né un’organizzazione internazionale»: l’Unione Europea da una parte sopprime la sovranità degli stati, in quanto non si limita a facilitarne il coordinamento, come farebbe un’organizzazione internazionale, ma è loro superiore; d’altra parte non è uno stato sovrano. Così la sovranità ceduta dagli stati europei non è raccolta da un potere pubblico europeo, ma svanisce nel nulla. Lo svanire della sovranità non è però l’avanzamento della libertà in una nuova epoca filosofica, è regressione nell’autocoscienza elementare, quindi nello smisurato della bramosia e nel rapporto tra signoria e servitù. Divenuti membri dell’Unione gli stati europei, anziché innalzare i loro popoli nel paradiso dei diritti, sul piano interno smantellano l’organizzazione dei poteri costituzionali, distruggono perfino l’apparenza di democrazia e si privano degli strumenti per gestire i problemi economici, sul piano esterno disarmano le loro capacità di difesa, così da porsi alla mercé di ciechi interessi privati internazionali e dell’imperialismo di quegli stati dell’Unione che si sono avvantaggiati conservando la propria sovranità mentre gli altri l’abbandonavano.
[1] Non sempre li si intende così: il Wittgenstein del Tractatus commette l’ingenuità di camuffare da ontologia il procedimento analitico.
[2] Spesso, sulla traccia dei fraintendimenti di Lukács e di una lettura parziale di un passo della Fenomenologia, si dice che il metodo hegeliano consisterebbe nel concepire la verità come totalità. La determinazione di totalità si presenta nella «Scienza della logica», ma solo per incorrere nella sua dialettica, che la dissolve nella determinazione della forza; quindi non si presenta affatto come determinazione complessiva – che è invece quella di idea. Se con totalità intende la completezza delle parti, la concezione della verità come totalità fraintende Hegel, che concepisce invece la verità come circolo generato dal dissolversi degli estremi l’uno nell’altro: quella hegeliana è insomma una totalità poco affollata, quella che raccoglie i due momenti negati nel processo di costituzione del circolo complessivo. Così il «sapere assoluto» con cui termina la Fenomenologia non è affatto la stupida presunzione di sapere tutto, ma la coscienza la quale, avendo scoperto che l’estraneità inconciliata dell’oggetto nasce dalla propria inquietudine critica, nel saperlo differente lo riconosce anche identico a se stesso.
[3] Questo vale anche dell’autocoscienza naturale in senso ontogenetico, quella del bambino: egli si rapporta a un oggetto annullato, cioè al giocattolo, e finisce col distruggerlo – così realizza la sua certezza di sé.
[4] Nel caso del bambino questo accade nel rapporto con la madre.
[5] J. M. Barroso, Speech by President Barroso: «Global Europe, from the Atlantic to the Pacific», discorso pronunciato all’Università di Stanford il primo maggio 2014.
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