Gli scenari politici internazionali della crisi sistemica
di Piero Pagliani Intervento all’assemblea "Fuori dall'euro! Fuori dal debito!"di Chianciano Terme, 22 ottobre 2011.
1. Capitale e Potere: l’origine della crisi
1. Poche settimane or sono, in pieno attacco all’euro, “La Repubblica” mentre da una parte terrorizzava i suoi lettori parlando della caduta nell’abisso delle borse e persino dell’oro, dall’altra li invitava surrettiziamente ad investire in titoli a lungo termine del debito pubblico della Germania e degli Stati Uniti, ultimi rifugi al riparo dalla bufera planetaria.
Ma come? D’accordo la Germania, ma gli Stati Uniti? Il Paese più indebitato del mondo da che mondo è mondo?
D’acchito la perplessità è d’obbligo. Eppure, per lo meno sul breve periodo (ma difficilmente sul medio e a maggior ragione sul lungo – e qui sta una parte del trucco degli imbonitori) i titoli di debito pubblico di questi Paesi potrebbero veramente essere un affare sicuro.
Fino a quando?
Fino a quando regge la credibilità degli Stati Uniti come superpotenza dominante sul piano militare, politico e diplomatico mondiale, anche se non sul piano economico, dato che è dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso che gli USA hanno perso questo primato (o, come si diceva una volta, non sono più l’opificio del mondo). I Paesi dominanti sul piano economico devono allora essere “contenuti” o associati all’impero come viceré sub dominanti, come nel caso, per l’appunto, della Germania.
Questa frattura tra il dominio economico e il dominio politico-militare è poco comprensibile se ci si attiene alla divisione meccanica struttura-sovrastruttura. E’ molto più comprensibile se invece si assume l’ottica leninista dell’analisi dell’intreccio tra le contraddizioni sociali e quelle intercapitalistiche.
A quel punto la rinnovata lente analitica ci permette di scoprire un ulteriore problema: il predominio economico e quello sui mezzi di pagamento mondiali, entrambi appannaggio della Cina, oltre a non coincidere col predominio politico-militare non coincidono nemmeno col predominio finanziario. Le principali piazze finanziarie del mondo rimangono infatti la City di Londra, a due passi da Downing Street, e Wall Street che sta a quattro ore di macchina dalla Casa Bianca[1]. In altri termini la finanza internazionale più che la sirena dei cosiddetti “fondamentali economici” sembra stare ad ascoltare quella del potere territoriale. Non è un problema da poco per chi non riesce ad affrancarsi da una visione meccanica del rapporto tra la cosiddetta “struttura” e la cosiddetta “sovrastruttura”.
2. Ma non siamo di fronte ad una stravaganza storica. Nell’agosto del 1971 il Presidente Nixon annunciò che il dollaro non era più convertibile in oro. Le riserve di Fort Knox venivano così messe al sicuro da Goldfinger, cioè dagli attacchi dei Paesi partner in surplus, in primis la riottosa, coriacea e spigolosa Francia gaullista, e in sostanza fu dichiarato che il sistema monetario internazionale da quel momento si sarebbe basato senza fronzoli sulla pura potenza militare, politica e diplomatica degli USA, senza più lo schermo della parità con l’oro a 35 dollari l’oncia e la copertura minima del 25% dei dollari circolanti.
In quel preciso momento implodeva uno dei pilastri del sistema di Bretton Woods, quello finanziario, ma non implodeva per niente l’altro pilastro, ovvero quello politico-militare basato su una gerarchia ramificata di Stati facenti capo agli USA, preannunciata da Hiroshima e Nagasaki e organizzata nella NATO.
Da quel momento la NATO diventava direttamente un’organizzazione non solo militare difensiva, ma un sistema che doveva garantire anche gli equilibri monetari internazionali basati sul dollaro. E per far ciò doveva garantire una particolare configurazione politica spaziale che includeva oltre alla legalità formale degli scambi internazionali, oltre alla divisione internazionale del lavoro, anche ovviamente, le dinamiche geopolitiche che reggevano tutta la complessa costruzione, ovvero che dovevano prolungare nel tempo la potenza militare, politica, culturale e diplomatica degli Stati Uniti, ovverosia la loro combinazione di dominio ed egemonia.
Per farlo non bastava mantenere lo status quo, perché i meccanismi di “accumulazione allargata di potere”, complementari a quelli di accumulazione allargata di ricchezza, impongono di correre sempre più forte per potere quanto meno stare fermi e non arretrare, come accadeva ad Alice oltre lo specchio.
E’ un fenomeno ricorrente in ogni lotta per il potere e che quindi caratterizza la progressione storica, sia quella lenta pre-capitalistica, sia quella parossistica del capitalismo.
L’incorporamento delle funzioni finanziarie in quelle di costruzione dello Stato e di conduzione della guerra furono codificate in una prassi che l’economista statunitense Michael Hudson ha chiamato “Treasury-bill standard”: non potendo più incassare in oro i propri dollari, ed essendo i gioielli industriali strategici americani protetti a tripla mandata, i Paesi in surplus avevano solo una scelta (quindi nessuna scelta): comprare titoli di debito del Tesoro statunitense, preferibilmente illiquidi e a lungo termine.
In definitiva lo standard monetario internazionale era diventato il debito pubblico nordamericano. Una soluzione fantastica che dimostra che il capitalismo dispone di ben altri strumenti di sopravvivenza che non la continua estrazione di profitto – processo per altro effettivamente alla radice delle immani crisi di questo sistema sociale[2].
Con quel debito si poteva poi continuare a finanziare l’espansione di potenza statunitense, in un circolo virtuoso che aveva solo il difetto di basarsi su bombe atomiche, cannoni, portaerei, missili, bombardieri, eserciti e centinaia di migliaia di morti.
Quando si parla di “signoraggio” bisogna allora ricordarsi che esso è innanzitutto un signoraggio politico, ovvero facente capo a conflitti per il potere, non all’ingordigia di un branco di banchieri (puri Charaktermaske, per dirla con Marx) che troppo spesso ritornano ad essere caratterizzati come “anglo-giudeo-saxon” (sic!). Ricorda qualcosa questo termine? A me sì, e qualcosa di assai spregevole.
3. Eppure la nostra lotta è contro le oligarchie finanziarie, si obbietterà. Contro lo strapotere delle banche che ci hanno riempito di debiti e di titoli tossici che adesso vogliono fare scontare a noi classi subalterne con un massacro sociale.
E’ verissimo, ma la nostra lotta non può avere successo se ci si dimentica da dove tutta questa sconcezza è nata e cosa la tiene in piedi.
Intanto ricordiamoci che se per Marx lo schema di accumulazione è D-M-D’, cioè denaro (D) che viene investito in commercio e industria (M) per ricavare denaro in quantità accresciuta (D’), allora aveva ragione Schumpeter a dire che in ultima istanza il finanziere, il detentore di denaro, è colui che guida le danze, è colui che decide – imprestando, facendo credito – chi può avere a disposizione i mezzi di produzione. Il finanziere, insomma, non è una figura strana che appare quando il capitalismo sta andando a rotoli. Il finanziere è il capitalista, anche se può non essere un imprenditore.
Non solo, ancora Schumpeter ricordava che da soli i capitalisti non sono nemmeno in grado di difendere i propri interessi. O, per dirla con Thomas Friedman, la mano invisibile del mercato non funzionerà mai senza il pugno visibile di chi detiene il monopolio della violenza (o più capacità distruttiva o anche, per usare un’espressione di Immanuel Wallerstein, i servizi di chi è più esperto nell’«arte criminale», cioè nel mestiere delle armi).
Grandi novità? Nemmeno per sogno: basta rileggersi il capitolo sull’accumulazione originaria del I Libro del Capitale di Marx.
Questa necessità del capitale di utilizzare altri apparati per proteggere i propri interessi genera quello che Giovanni Arrighi ha chiamato «scambio politico tra il Potere del Denaro, D, e il Potere del Territorio, T» e che io definisco “rapporto tendenziale di aggiunzione T-D” utilizzando uno schema formale matematico, la relazione di aggiunzione, che in qualche modo riesce a rappresentare un rapporto di scambio dialettico[3].
Questo rapporto è da me qualificato come “tendenziale” perché è intrinsecamente contraddittorio, e nelle crisi questa contraddizione si esprime con un paradosso: viene approfondita la differenza tra le logiche che sottostanno ai due tipi diversi di Potere proprio mentre si acuisce la necessità del rapporto di aggiunzione tra di essi.
E uno dei fenomeni ai quali stiamo assistendo oggi è proprio il tentativo di mantenere con le unghie e coi denti – leggasi “con le guerre” – questo rapporto di aggiunzione tendenziale tra il potere territoriale dominante, quello statunitense, e il Potere del Denaro, ovvero la Haute Finance privata.
2. Politica e finanza: tra storica collaborazione e storico conflitto
1. Eppure la Haute Finance nemmeno si fece vedere durante i colloqui di Bretton Woods che nel 1944 partorirono i lineamenti del sistema commerciale, monetario e di potere internazionale.
A Bretton Woods i banchieri privati fecero però sapere che loro avrebbero preferito un ritorno allo standard aureo puro. Avrebbero capito solo in seguito che la chiave di volta del loro strapotere sarebbe stata l’esatto opposto. Ma questa comprensione differita non è dovuta al fatto che fossero stupidi, ma al drastico cambiamento delle condizioni politiche mondiali.
Ecco perché nessuna analisi economica e meno che meno nessuna proposta economica, possono prescindere dal contesto politico vigente in ogni dato momento e dalle condizioni politiche necessarie per rendere una soluzione (come ad esempio quella di un default) verosimile e credibile.
In quella località statunitense circondata dalla Foresta delle Montagne Bianche i pilastri ideologici e politici portanti erano quelli del New Deal: la politica doveva governare l’economia. Così «il denaro mondiale», come osservò Giovanni Arrighi, da «sottoprodotto delle attività di realizzazione dei profitti […] divenne un sottoprodotto delle attività di formazione degli stati» cioè la sua produzione, la sua circolazione e il suo utilizzo furono sottomessi ad una rete di organizzazioni governative facenti capo alla Federal Reserve e «motivate principalmente sa considerazioni di benessere, sicurezza e potere».
Cosa non è funzionato, allora, nel rapporto di aggiunzione tra il sistema di potere governativo facente capo a Washington e il Potere del Denaro? Perché questo sistema è entrato nella crisi profondissima che abbiamo davanti agli occhi?
2. La ripresa economica mondiale del secondo dopoguerra si basò su una mobilitazione senza precedenti di risorse economiche, sociali e naturali. La scala estremamente estesa di questa mobilitazione promosse un ritmo di espansione materiale e accumulazione senza precedenti (il ciclo D-M-D’ di Marx), ma questo ritmo miracoloso (il “miracolo economico” lo chiamavamo infatti in Italia) iniziò presto a generare capitali che non potevano più essere reinvestiti nelle stesse attività commerciali e industriali da cui erano stati prodotti, senza il rischio di svalutarsi, ovvero senza il rischio di generare un saggio di profitto inferiore ad una soglia di “tollerabilità”, una soglia differenziale rispetto ad altri impieghi.
L’affollamento di capitali nelle attività profittevoli provocava infatti una esacerbazione della concorrenza sugli input e sugli sbocchi di mercato, così che i vari capitali si intralciavano a vicenda. Come particolare conseguenza, la lotta dei lavoratori nelle condizioni favorevoli di piena occupazione non solo aveva permesso ai salari di stare al passo con gli aumenti di produttività, ma tra il 1968 e il 1973, grazie alle lotte dei salariati a volte persino inserite in una coscienza soggettiva anticapitalistica, li aveva spinti oltre schiacciando verso il basso il tasso di plusvalore[4].
Nel frattempo le spese per la guerra nel Vietnam e in generale per l’espansione globale di potenza statunitense facevano crescere i deficit degli USA in modo drammatico. Da una parte quindi i capitali sovraccumulati fuoriuscivano dagli immobilizzi in commercio e industria (movimento M-D) per rimanere in forma liquida e dedicarsi alle attività finanziarie, creando il mercato dell’eurovaluta poi ingigantito dall’apporto dalle masse di petrodollari prodotte dagli shock petroliferi. Dall’altra il Tesoro USA per coprire il sempre più smisurato deficit pubblico immetteva in circolazione una quantità crescente di dollari che per mezzo del deficit commerciale esportava inflazione nei Paesi partner e, in aggiunta, entravano in concorrenza con l’offerta privata di capitale mobile. Si creò così una lunga stagione di stagflazione (stagnazione con inflazione) che se sulle prime ridiede fiato ai profitti commerciali e industriali tuttavia non poteva risolvere la sfida tra il potere territoriale degli USA, e in subordine dei suoi alleati, e l’alta finanza privata, ovvero i veri detentori del Potere del Denaro, che stavano prendendosi una rivincita su Bretton Woods e il suo impianto caratterizzato da un forte controllo sull’economia da parte del potere politico.
Paradossalmente la loro rivincita non si basava su un ritorno a quel gold standard che, inascoltati, avevano richiesto nel 1944, bensì sul forse inevitabile “passaggio al limite” del gold-dollar exchange, ovvero sulla sua mutazione in uno standard basato sul puro dollaro, cioè sulla moneta di una particolare potenza.
In questo modo la finanza privata riprendeva il controllo della liquidità internazionale e moltiplicava i mezzi di pagamento attraverso i meccanismi interbancari di produzione della moneta, ormai potenzialmente privi di limiti grazie alla combinazione di lassaiz-faire e pure dollar standard, nel mentre, come osserva Arrighi, si conclamava l’inadeguatezza delle politiche economiche nazionali nel far fronte ad un sistema di imprese sempre più transnazionalizzato che alimentava i movimenti puramente finanziari, a partire dalla speculazione sui cambi, ormai fluttuanti. Negli anni successivi alla dichiarazione di inconvertibilità il differenziale tra transazioni finanziarie e transazioni commerciali crebbe esponenzialmente: già nel 1979 il valore complessivo del commercio mondiale era sceso a 1/11 del commercio di valute estere (17,5 trilioni di dollari). Ma nel 1984 con 35 trilioni di dollari il rapporto era arrivato a 1/20. Sono i dati di una battaglia persa.
3. Per lo meno dal 1971 al 1979 il Potere del Territorio dominante, gli USA, cercò di contrastare lo slittamento in mani private del controllo sui mezzi di pagamento mondiali. Come abbiamo accennato, lo fece con una politica espansiva che immetteva in circolazione continue dosi di liquidità, abbassando i tassi di interesse al costo di una iperinflazione, sperando che queste risorse fossero utilizzate in un nuovo ciclo di espansione del commercio e dell’industria.
Tuttavia, a causa della crisi di sovraccumulazione solo una parte modestissima di questa liquidità si tramutava in investimenti produttivi. Il resto finiva per alimentare proprio il mercato del capitale mobile. Un mercato centrato sulla City di Londra. L’offerta di capitale divenne così sovrabbondante che qualcuno si spinse ad affermare che il capitale era in sostanza diventato una “merce gratuita” e i finanzieri privati misero a farsi una feroce concorrenza l’un l’altro e facevano anticamera per cercare di piazzare la propria merce a tassi irrisori presso i Paesi in “via di sviluppo”.
E’ questo un carattere particolare e perdurante della crisi odierna: i conflitti principali nell’ambito delle scalate al Potere del Denaro oggi si svolgono nella sfera finanziaria.
Ma come si è detto la sfera finanziaria è la sfera capitalistica per eccellenza. Se quindi la maggioranza delle analisi di sinistra dipinge questa epoca come il tentativo di nascondere le nudità del capitalismo con i drappeggi fantasiosi della finanziarizzazione (derivati, titoli tossici, sospensione della legge del valore, eccetera), al contrario io penso che la finanziarizzazione proclami finalmente coram populo: “Il Re è nudo!”.
Da queste due visioni contrapposte derivano ovviamente conclusioni divergenti.
La lotta degli anni Settanta tra finanza privata e finanza pubblica non avrebbe avuto altro possibile esito che quello di indebolire fino a livelli pericolosi entrambi i Poteri, quello del Denaro e quello del Territorio, ampliando la rottura del rapporto di aggiunzione T-D, vitale per la stessa esistenza delle condizioni di accumulazione capitalistica.
La soluzione, temporanea, fu frutto dell’applicazione della pura razionalità capitalistica. Con l’ultimo anno della presidenza Carter e per tutta la successiva amministrazione Reagan, la frattura tra T e D fu ricomposta con una feroce politica restrittiva, che vide i tassi di sconto aumentare di percentuali inimmaginabili dall’oggi al domani.
Dall’ottobre 1979 fino all’agosto 1982 gli Stati Uniti, e di conseguenza il mondo intero, furono sottoposti alla cosiddetta “terapia shock” di Volker: in poche settimane il tasso ufficiale di sconto salì da una media del 7,6% dei quattordici anni precedenti ad un inaudito 21,5%, per la gioia dei finanziari e la disperazione dei lavoratori, perché ciò diede vita a una «recessione mostruosa», per dirla con F. W. Engdhal.
Con l’aggiunta del riarmo della Seconda Guerra Fredda (le cosiddette “guerre stellari” di Reagan), gli Stati Uniti si trasformarono in un enorme aspirapolvere delle risorse finanziarie mondiali, riportando New York al centro della Haute Finance internazionale.
Con un duplice effetto devastante.
In primo luogo i Paesi in via di sviluppo per potere accedere ai prestiti dovevano ora dissanguarsi e mettere mano a quei famigerati aggiustamenti strutturali che li avrebbero depredati, a partire immancabilmente dal dominio pubblico.
Con ciò si dava l’avvio ad uno dei tre meccanismi, raggruppabili nel loro complesso sotto il termine “Washington consensus”, con cui si cerca di contrastare la crisi di sovraccumulazione, ovvero l’acquisizione di ricchezza già prodotta previa sua svalorizzazione, ovvero, per usare la densa espressione di David Harvey, l’accumulazione per spoliazione.
Il secondo meccanismo, molto classico, controbilanciava gli esorbitanti tassi di sconto facendo ritornare i profitti a livelli più che “tollerabili”, innanzitutto detassando il capitale e aumentando il tasso di plusvalore. Ricominciò così la lotta di classe del capitalismo contro i salariati. La controffensiva del capitale a partire dai lavoratori salariati e poi estesa alla classe media nel suo complesso, iniziò con la sconfitta da parte di Reagan della lotta dei controllori di volo della PATCO, nel 1981, e di quella durissima ed eroica dei minatori britannici (dall’8 marzo del 1984 fino al 3 marzo 1985) ad opera della signora Thatcher. Era ormai aperta la strada in tutto il mondo capitalistico occidentale all’attacco alle condizioni di lavoro, ai salari, al potere negoziale e alle condizioni di vita dei lavoratori.
Ciò però non ebbe quasi alcun effetto sul terzo meccanismo, ovvero la finanziarizzazione, il ciclo abbreviato D-D’ di Marx, che continuava a ritmi crescenti. In compenso fece a quel punto la sua comparsa anche una crisi di sovrapproduzione che si intrecciò con quella di sovraccumulazione in un giro vizioso[5].
La nuova alleanza di potere tra T e D induceva quindi effetti perversi che testimoniavano in termini cristallini la straordinaria fondatezza dell’affermazione di Karl Marx che il capitalismo supera le proprie contraddizioni solo per ritrovarsele davanti più gigantesche di prima.
La finanziarizzazione, continuava quindi a crescere in modo esponenziale. Una gigantesca massa monetaria in libera uscita, cioè non più controllabile dalla gerarchia di banche governative immaginata a Bretton Woods, dilagava sottoforma di speculazione sulle valute o gettandosi nel mercato del capitale mobile che vedeva tra i protagonisti principali i governi statali e locali, riproducendo in parte uno schema già tristemente noto nella Repubblica di Weimar. Il debito pubblico iniziò a correre ad un ritmo direttamente proporzionale alla decrescita della massa di salari e profitti nel commercio e nell’industria (che si trasformava in massa di capital gain tassata in misura molto minore), alla decrescita degli investimenti in questi settori e, viceversa, alla crescita della deindustrializzazione che induceva una corrispondente crescita del deficit commerciale nel mentre lasciava uno strascico di devastazione sociale, materiale e culturale. Inoltre il debito pubblico era direttamente proporzionale alla crescita della quota parte di reddito prodotto che le industrie dovevano riversare alle banche sottoforma di servizio del debito sottraendola quindi alla tassazione a tutto vantaggio delle banche e a svantaggio del cittadino. Le banche, obbligavano così gli attori economici privati e pubblici ad assorbire capitale fittizio, mentre i governi abdicavano ad ogni controllo e, anzi, imponevano ai lavoratori (non formalmente ma col ricatto) di affidare le proprie pensioni e le proprie liquidazioni alla speculazione finanziaria. Ovverosia li spingevano a chiudersi da soli in trappola (era quanto successe col governo Prodi II)[6].
Ecco, allora, come mai le grandi multinazionali e, solo in seguito però, le grandi banche presero nell’immaginario popolare le sembianze dei due arcinemici dei popoli. Lo erano, ma come vedremo tra poco, mancava un’altra volta il convitato di pietra. E stavolta esso non era il Potere del Denaro, come a Bretton Woods, bensì il Potere del Territorio. Era assente non nella realtà ma nella testa economicista di gran parte della sinistra marxista che infatti è rimasta progressivamente stordita dalla ripresa dell’imperialismo armato o eversivo statunitense, fino ad accettarne le ultime imprese criminali.
3. Capitale e Potere: i paradossi politici della loro aggiunzione
1. Come è noto l’utilizzo di una divisa nazionale come moneta internazionale genera un particolare paradosso, detto “Dilemma di Triffin”: il Paese che emette moneta internazionale deve accettare crescenti disavanzi delle partite correnti al fine di soddisfare la domanda mondiale di moneta di riserva. Ma i crescenti deficit indeboliscono la fiducia nella solidità della moneta nazionale usata come standard internazionale. In conclusione il sistema monetario internazionale è stretto tra uno scenario di crisi della fiducia nella moneta di riserva internazionale e uno scenario di deflazione per insufficienza di mezzi di pagamento internazionali.
Ma questo è solo l’aspetto formale, disequazionale, del dilemma. Perché in verità esiste la “soluzione”, per quanto temporanea possa essere: la fiducia nel Paese emittente imposta con la forza[7]. Pertanto, sarà pur di pietra, ma il convitato, ovvero il potere imperiale statunitense, può trascinare con sé nell’inferno qualsiasi banchiere ingordo e qualsiasi amministratore delegato peccaminoso, non meno del Commendatore con Don Giovanni.
Un convitato di pietra che non può fare a meno dei disavanzi commerciali e del debito pubblico, inizio e fine del suo potere globale, a sua volta inizio e per ora fine del potere globale della Haute Finance cosmopolita.
Ma anche la libertà di manovra dello stupefacente stato-nazione continentale chiamato Stati Uniti d’America ha dei limiti. Il progetto di “Great Society”, ovvero di società nazionale opulenta, sognato dai presidenti statunitensi negli anni Sessanta e Settanta si è infranto contro diversi scogli frutto di contraddizioni incrociate[8]: a) le esorbitanti spese per la propria politica di potenza; b) la liberalizzazione dei movimenti di capitale; c) l’emergere di altre enormi nazioni concorrenti e al di fuori della sfera d’influenza statunitense, vuoi per motivi storici vuoi per defezione politica, come la Cina, l’India, il Brasile, l’Indonesia, e la riemersa Russia; d) la crescente sottrazione di capitali dall’investimento produttivo, innanzitutto nazionale; e) il conseguente depauperamento della classe media, che per definizione non gode dei benefici della finanziarizzazione; f) la latente fronda degli alleati, oscillanti tra il desiderio di sganciarsi da un alleato sempre più inaffidabile in politica estera e in politica economica e la sudditanza coatta o interessata.
Proprio questo quadro fluido fa della crisi un’ottima occasione per scalare posizioni nella gerarchia del Potere del Denaro, con ritmi di concentrazione e centralizzazione del capitale ben superiori a quelli normalmente permessi dall’accumulazione (come ben sapeva già Marx) e, per i singoli Stati, in quella del Potere del Territorio. La recente gara tra UK e Francia per diventare il plenipotenziario degli USA in Europa, scatenatasi attorno all’aggressione alla Libia, ne è una testimonianza lampante. Tra i due contendenti sembra aver goduto il terzo, la Germania, che forte della sua indiscussa posizione economica ha pensato bene che mimare un inizio di Ostpolitik e non partecipare direttamente alla guerra rafforzava il suo potere negoziale nei confronti del potente alleato che continua ad occuparla militarmente.
Già, perché con le basi americane e NATO sul proprio territorio, di più non si può fare, nemmeno volendolo.
In realtà il, per ora, ritrovato asse Francia-Germania, illustra in modo cristallino la divisione del lavoro in Europa tra il ruolo delle armi e quello del denaro, nella gestione subdominante del potere nello scacchiere europeo e mediterraneo. Anche questo ha, come si vedrà, un effetto notevole sulle soluzioni proponibili.
2. Le varie sfide lanciate alla superpotenza assieme all’avvitarsi veloce della crisi congiunta di sovraccumulazione e sovrapproduzione hanno portato ad una escalation formidabile. Ora sono gli stessi Paesi europei a subire il trattamento fino a poco tempo fa riservato alle nazioni politicamente e militarmente più deboli: obbligo di indebitarsi per creare sbocchi ad una massa crescente di “capitale fittizio” inutilizzato, e obbligo di servire i debito tramite aggiustamenti strutturali rapinosi a partire dalla svendita all’incanto di tutto il dominio pubblico.
Se si hanno in mente le parole d’ordine del movimento no-global di dieci anni fa, si pensi solo a Genova nel 2001, c’è da rimanere impressionati: gli slogan per l’annullamento del debito e contro la rapina operata dalle Istituzioni Finanziarie Internazionali che allora gridavamo in difesa dei Paesi più malconci dell’Africa nera e dell’America Latina, oggi li gridiamo in difesa nostra!
Che poi la finanza intergovernativa e l’alta finanza privata operino con “strumenti europei”, come l’euro, la BCE e le associate banche nazionali, in realtà private, il risultato non cambia, se non nel fatto che da una rapina coloniale siamo passati ad autorapine nazionali. O, come direbbe Arundhati Roy, stiamo colonizzando noi stessi.
Ciò dà una misura del grado di avvitamento della crisi sistemica: il capitalismo occidentale si è trasformato in un Conte Ugolino e noi siamo chiusi nella cella assieme ai nostri divoratori.
Ma ancora una volta, questa è la parte economica, e sicuramente sociale, della questione. L’altra, ineliminabile, rimane quella politica, diplomatica e militare. Gli Stati Uniti hanno un bisogno esiziale di ribadire la propria egemonia sull’Europa e, soprattutto, sui Paesi che sono di confine e per questo più soggetti a spinte centrifughe ma anche più indispensabili.
Bisogna domandarsi come mai dopo la Grecia è venuto il turno dell’Italia e non della Spagna, dell’Irlanda o del Portogallo.
Certamente la speculazione finanziaria segue le sue logiche, ma esse non possono entrare in contrasto con disegni strategici più ampi, proprio perché l’odierna finanza internazionale non è acefala, come si è visto, ma ha un cervello territoriale, di cui un lobo sta a New York e l’altro a Washington; mentre il cervelletto risiede a Londra.
La guerra alla Libia ha dimostrato che il nostro Paese sarà pure mal governato attivamente da Berlusconi ma anche che col tramite passivo di Berlusconi esso è stato umiliato dagli ordini guerrieri del Colle sotto il quale si ammonticchiano le miserie dell’opposizione e delle fronde di centrodestra come “pecore contro l’acquazzone”, per usare un metafora fin troppo poetica. La contesa tra Francia e UK su chi doveva essere il camerlengo del papa “nero”, e quindi per definizione “buono”, che dalla Casa Bianca tira le fila from behind, e la posizione isolata, fortissima e nel contempo subalterna assunta dalla Germania, hanno confermato che l’Europa è senza difese politiche, disorganica e disgregabile come non mai e che quindi i tempi per l’attacco erano maturi. Un attacco finanziario, politico e diplomatico.
L’attacco militare, per ora, si svolge alla nostra periferia, là da dove ogni ipotesi di disimpegno dall’alleato d’oltreoceano deve obbligatoriamente passare: le coste del Nord Africa, il Medio Oriente e l’Asia Centrale. Guardando una carta geografica non ci vuole molta fantasia per capire che la linea di sconvolgimenti, guerre, caos e disordine che parte dalla Libia, passa per l’Egitto, continua per la Siria, lambisce la Turchia, si dirama nello Yemen, tocca le repubbliche caucasiche, punta all’Iran, colpisce da anni in Iraq e in Afghanistan, si spinge pericolosamente verso il Pakistan e si incunea fino dentro la Cina tramite lo Xinjiang e il Tibet, non ci vuole molto a capire che questa linea è un vallo tagliafuoco che separa l’Europa dall’Asia e per certi versi dalla Russia stessa e a sua volta la Russia dall’India e dall’Oriente asiatico.
La “grandezza strategica” di Obama, ammesso che il termine sia appropriato, è stata quella di aver saldato gli esiti delle guerre di Bush con quelli di eventi in parte imprevisti, in parte previsti e cavalcati (ma potrebbero esserci grosse sorprese, come in Egitto), in parte suscitati a freddo come in Libia e, in differenti condizioni, in Siria.
La guerra contro la Libia, un’aggressione che passerà negli annali delle infamie, è li a dimostrarci, tra le altre cose, che se non si ha un debito con cui essere ricattati e tenuti a bada, si è passibili di bombardamenti stragisti. Ma in termini più generali dimostra la verità di quanto aveva affermato già anni fa David Harvey, cioè che qualsiasi tentativo di mettere in questione l’egemonia statunitense “da parte di potenze estere (per esempio, attraverso la fuga di capitali e il crollo del dollaro) [avrebbe suscitato] sicuramente negli USA una risposta politica, economica e anche militare selvaggia”.
4. Ipotesi di resistenza all’autocolonizzazione dei Paesi europei
1. Per resistere all’autocolonizzazione dell’Europa e innanzitutto del nostro Paese, per poi sconfiggerla, possiamo formulare molte ipotesi: come non pagare il debito, o come non farlo pagare alle classi subalterne, se reintrodurre una sorta di Glass-Steagall Act (cioè la separazione tra banche commerciali e banche d’investimento), se bisogna nazionalizzare le banche centrali, se occorre uscire dall’euro o rifondare la UE. Ma se non si pone come precondizione la neutralità dell’Europa e/o dell’Italia, per tutte le ragioni che abbiamo fin qui spiegato ogni buona intenzione può tramutarsi in disastro e le proposte plausibili si riducono di molto. E purtroppo si riducono a quelle che non possono evitare il disastro.
Sostanzialmente all’interno dell’odierno quadro politico internazionale le “soluzioni” alla crisi sono di quattro tipi.
Prima di passarle in rassegna occorre una illustrazione preliminare del caotico quadro in cui ci troviamo[9].
Il capitalismo deve sempre cercare di tenere assieme capra e cavoli, a causa delle sue intrinseche contraddizioni.
Da una parte il capitale finanziario ha bisogno di mettere le mani su qualcosa di “so(li)do”, come un vecchio sporcaccione, ma questa solidità oggi non può essere creata con investimenti produttivi perché siamo in una crisi intrecciata di sovraccumulazione-sovrapproduzione. La solidità ricercata è allora vista nell’insieme dei gioielli strategici delle nazioni via via più assoggettabili politicamente (e militarmente) e, per prima cosa, il loro dominio pubblico, il più vulnerabile in un Paese politicamente vulnerabile. Quindi alè con gli “aggiustamenti strutturali” che ovviamente solo un corrotto (in senso aristotelico) che fosse anche matto farebbe se non ci fossero il ricatto del debito e i picciotti dei creditori, noti come “agenzie di rating”. D’altra parte nemmeno questo basta e il capitale finanziario ha bisogno di trovare sbocchi sul mercato del capitale mobile scovando, e più che altro creando, chi deve indebitarsi (scommetto che la Libia tra un po’ avrà un bel debito sovrano da zero che era, magari con la scusa che non si trova il “tesoro” di quel “perfido” di Gheddafi). Questa, a rigore, è un’esigenza che sarebbe in contrasto con il “rientro” del debito fino alla cervellotica soglia “europea” del 60% del PIL a suon di massacri sociali, privatizzazioni e recessione. Occorre invece mantenere sempre un po’ di pepe al sedere del debito. Ma il risultato dell’azione congiunta di queste due esigenze potrebbe essere l’ «effetto Balzac», ovvero tirare via da sotto i piedi il tappeto ai propri grandi creditori (e a grandi economie come la nostra). Non è una bella mossa. Per evitare l’effetto Balzac occorre prendere misure per far ripartire il PIL per poi ridepredarlo.
Una sorta di politica di stop-and-go che non convergerà mai verso un equilibrio tra economia reale ed economia finanziaria almeno per due ordini di motivi:
1) Detto in termini un po’ di grana grossa ma non disgiunti dalla realtà, l’economia finanziaria cresce al ritmo degli interessi composti, quella reale non lo può fare. E l’economia finanziaria non può non crescere, a quei ritmi, pena la macellazione di immensi capitali che invece hanno la capacità di mobilitare le risorse per la lotta per il potere.
2) Attualmente la cosiddetta “profondità finanziaria” sul PIL nei Paesi capitalistici maturi varia dal 388% al 462% (negli USA). Anche solo il raddoppio del PIL mondiale per riportare la profondità finanziaria ad un livello quasi tollerabile sarebbe problematico in termini di capacità produttive, prodotti, risorse e mercati.
Ovviamente una grande guerra mondiale potrebbe forse far ripartire dal Vicolo Corto passando per il Via. Ma lasciamo questa possibilità sullo sfondo (se non altro per l’immensa mutua distruzione che comporterebbe).
Oggi, quindi, la sfera d’influenza tedesca che sta risucchiando le risorse dei Paesi periferici dell’Europa a capitalismo maturo, ha di fronte due obiettivi contrastanti: il primo è non uccidere gli organismi che sta parassitando; il secondo è non farli sopravvivere a scapito dei propri privilegi, cosa che costerebbe cara alla propria tenuta politica e sociale.
Nel cerchio più esterno, gli USA sperimentano lo stesso deadlock con una addizionale necessità politico-diplomatica. Innanzitutto hanno bisogno che il loro viceré tedesco sia in surplus di modo da mantenere la presa strategica sull’Europa on behalf of the USA. In secondo luogo ne hanno bisogno perché la Germania e i Paesi che ricadono nella sua sfera d’influenza possano rinnovare una cospicua parte del debito pubblico statunitense[10].
Tuttavia nemmeno gli USA possono permettersi che gli organismi che la Germania parassita vengano uccisi, per gli stessi motivi per cui non lo può fare la Germania.
Gli USA e molti altri Paesi stanno infatti in questi giorni dimostrando una sacrosanta paura che un semi fallimento dell’Europa esporti recessione in mezzo mondo. Questi timori sono oggi espressi dall’insistenza, all’apparenza paradossale, con cui i commentatori anglosassoni insistono su una maggiore cooperazione e unità politica della UE. Una insistenza meno paradossale se si considera il già citato asse Parigi-Berlino saldamente subordinato alle politiche imperiali statunitensi[11]
Queste contraddizioni incrociate sono la storia perenne dell’impossibile equilibrio in un sistema basato necessariamente su lotte per il potere (dirette o sottoforma di concorrenza) e su temporanee tregue basate su asimmetrie di potere[12].
E’ quindi abbastanza verosimile che si punterà a politiche di stop-and-go, in cui il “go” sarà molto cauto e non dovrà precludere la possibilità dello “stop” coi suoi famelici strascichi di privatizzazioni, acquisizioni, piazzamento di capitale mobile in eccesso a prezzi da strozzino.
In questo quadro abbiamo varie opzioni.
A) La soluzione neoliberista estrema, che vede ogni possibile rilancio dell’accumulazione materiale passare per una sottrazione di risorse dai lavoratori, dalle pensioni e dal dominio pubblico. Una soluzione-non-soluzione, perché i rischi di avvitamento recessivo di queste politiche sono quasi certezze.
B) Una posizione neoliberista moderata. Un acquietamento delle tensioni finanziarie tramite l’emissione di eurobond o l’acquisto diretto di titoli di debito dei Paesi in “difficoltà” da parte della BCE, non prima di aver spremuto quanto possibile risorse come nel punto A) precedente. Penso che questa sia la soluzione alla quale stanno pensando i nostri governanti europei.
C) Una soluzione neokeynesiana interna alla UE, basata sull’emissione di eurobond e la possibilità della BCE di essere finanziatore di ultima istanza dei deficit dei Paesi dell’area Euro. Questa soluzione ha come requisito la sconfitta delle posizioni neoliberiste più coriacee della Germania sostenute oltre Atlantico, et pour cause. La variante “progressista” potrebbe prevedere un complementare reperimento di risorse tramite una tassazione fortemente progressiva comprendente imposte patrimoniali severe. Non è nemmeno detto che a fronte di una “rigidità sociale verso il basso” questa soluzione sia la meno praticabile – ripeto: all’interno del quadro geopolitico dato – perché, come si è detto, i timori che l’Europa esporti recessione sono alti.
D) Un default controllato, con rinegoziazione di una parte del debito e un rilancio neokeynesiano dell’economia reale (è una variante di C).
A sua volta il rilancio economico può avere almeno due varianti:
B.1) Un’espansione materiale classica, basata su beni di consumo e prodotti ad alto valore aggiunto (tra i quali, come sempre, le armi).
B.2) Un’espansione materiale maggiormente indirizzata ai servizi e ai beni collettivi e/o ecologicamente sostenibili.
Il primo scenario implica l’ utilizzo di nuovi settori, come le biotecnologie o le nanotecnologie, che però non è per nulla detto che possano da soli trascinare lo sviluppo nei termini precedenti. E nemmeno è garantito che questi settori possano sfornare prodotti di massa e non solo di élite. Ad ogni modo questo scenario richiede una lotta politica per la rinegoziazione della divisione internazionale del lavoro e non è detto che possa fare a meno di pratiche protezionistiche.
Il secondo scenario richiede di capire cosa sia un’economia di servizi, di beni e di consumi collettivi.
2. E) La proposta più radicale per ora è quella che contempla un default selettivo che non penalizzi le classi subordinate, i pensionati, i piccoli risparmiatori, e via discorrendo, con reperimento delle risorse tramite una tassazione fortemente progressiva e patrimoniali severe, sostenuto dalla nazionalizzazione della banca centrale ed eventualmente di istituti di credito di importanza nazionale, con possibile uscita dalla zona Euro, oppure con lo sdoppiamento dell’Euro o l’instaurazione di una doppia circolazione. Ad ogni modo, senza la messa in discussione di questo Euro è poco verosimile che si possa pensare di spezzare il meccanismo del debito. Così come è impossibile districarsi dal suo abbraccio mortale senza cadere dalla padella alla brace, se non si rimette in discussione la collocazione internazionale dell’Italia e dell’Europa.
Anche qui si possono avere più varianti, ad esempio una riconfigurazione policentrica del potere mondiale tramite: E.1) una nuova Bretton Woods dove gli USA sarebbero su un piano paritario con altre nazioni o blocchi di nazioni; E.2) Un’azione di forza unilaterale di singole nazioni o blocchi di nazioni.
A titolo di esempio si possono prendere come riferimento la proposta Badiale-Tringali pubblicata sul sito “Megachip” col titolo “Meglio la finestra. Liberarci dall’Euro per un’altra Europa” ora nel volume “Liberiamoci dall'Euro” (Asterios, 2011), o quella di Vasapollo, Martufi e Arriola contenuta nel libro “La rivincita dei maiali” (Jaca Book, 2011).
Anche in questo caso le precedenti varianti B.1 e B.2 si ripresentano. Sotto questo rispetto, entrambi i testi citati pongono l’accento su consumi e servizi collettivi ed eco-solidali. Ma perché ciò sia effettivo occorre non solo che la politica eserciti un primato sull’economia, ma anche che questa politica eserciti un controllo sulla valorizzazione del capitale finalizzato alla transizione verso una società dove il ribaltamento economicistico capitalista sia sua volta ribaltato. Ovvero verso una transizione da una società e di una natura asservite all’economia ad una economia al servizio della società nella natura.
Ciò è indispensabile, perché qualsiasi rilancio dell’espansione materiale guidato, al contrario, dal fine della valorizzazione infinita non può che richiedere la mobilitazione di immense risorse sociali e naturali, in una quantità tale da indurre un ritmo di accumulazione forsennato che brucerebbe queste risorse in un lasso di tempo ben minore del ventennio d’oro del capitalismo del dopoguerra, riproponendo la stessa crisi in modo più drammatico, perché ad ogni tornata lo spazio dei problemi si amplia e quello delle soluzioni si restringe.
In ogni caso questo scenario ha come requisito un rivolgimento geopolitico. Non a caso in entrambe le proposte citate si prevede uno spostamento dell’Italia, e degli altri Paesi che dalla politica imposta dal viceré Germania non possono che ricevere danni, verso l’Est e verso il bacino mediterraneo.
Ma è proprio qui che la politica imperiale statunitense ha scavato o sta scavando più in profondità il vallo tagliafuoco che abbiamo sopra illustrato.
E a ragion veduta, a quanto pare.
I Paesi europei sembrerebbero così presi in una trappola per topi geopolitica complementare a quella finanziaria in cui sono imprigionati i propri cittadini e le proprie forze produttive (che ovviamente, in Italia, non si possono confondere con la Confindustria e collegati centri d’interesse, per il semplice motivo che essi non possono o non hanno nessuna intenzione di mettere in discussione l’attuale ordine mondiale e quindi conviene loro essere agenti di questo ordine all’interno del proprio Paese – Marchionne è solo la punta avanzata di queste scelte).
E’ quindi necessario mettere a punto strategie che consentano di uscire da questa doppia trappola e combattere i suoi manovratori locali e sovranazionali.
Le strategie devono obbligatoriamente essere internazionali e internazionaliste ma non possono non avere un fondamento nazionale.
E’ elementare, tautologico, che non ci possa essere sovranità nazionale se si è subordinati, costretti a prendere ordini. E la sovranità nazionale rispecchia un dato elementare, anche questo non solo ignorato ma dileggiato da moltissima sinistra sedicente marxista: questi processi avvengono in imprescindibile collegamento tra vari Paesi (non c’è soluzione autarchica che tenga), ma avvengono a partire dai vari stati-nazionali. Per un elementare motivo: le classi subalterne vivono in un luogo determinato e da lì ricevono forza; il cosmopolitismo – che in molta sinistra si presenta come l’esito corrotto dell’internazionalismo – è al contrario il terreno d’elezione dei loro avversari. In altri termini: il capitale si delocalizza, fluttua per il mondo; il proletariato al più emigra. E c’è una bella differenza. Mi dispiace per Deleuze e Guattari, ma il nomadismo è un tratto tipico del capitale, non dei soggetti subalterni.
La conclusione, ovvia, è che bisogna prendere atto che non c’è democrazia se non c’è popolo sovrano e non ci può essere popolo sovrano se non c’è sovranità nazionale.
3. Quanto appena detto è sotto gli occhi di tutti. Il quadro degli “eroi” italiani della guerra in Libia lo illustra in tutta la sua chiarezza. Da un lato il ministro della guerra ex-fascista, dall’altro il presidente della repubblica ex-comunista e in mezzo a questa allarmante composizione rossobruna, l’umiliato Cavaliere centrista, il cui governo boccheggiante è tenuto in vita – per ora – da una flebo che parte da Palazzo Chigi e arriva al Quirinale, collegando l’uomo più sputtanato e detestabile d'Italia con quello più sacralizzato e intoccabile, vizi privati e pubbliche virtù, esecutori e mandanti. La quadratura del cerchio: la repubblica cripto-presidenziale.
Poco più in là del Quirinale c’è Bankitalia la clearing house dei due poteri, quello del Denaro e quello del Territorio.
E’ ovvio che questo scenario ci obbliga a porci con decisione la questione della democrazia.
Ormai sono sempre più convinto che di fronte a noi ci siano due tipi di fascismo e in mezzo una porta molto stretta.
Il primo in realtà non è un fascismo in senso stretto. E’ un “autoritarismo democratico e progressista”, chiamiamolo così; la prassi politica di quelli che bombardano umanitariamente, esportano democrazia e svolgono le funzioni compradore al servizio dell'imperialismo statunitense e delle oligarchie finanziarie sue alleate. Un disastro.
L'altro è un nazional socialismo abbastanza tradizionale, i cui prototipi in sedicesimo sono la Lega corporativa e razzista e il deputato europeo Borghezio – l’unico che abbia denunciato i rapporti della Commissione Europea ai suoi maggiori vertici con il Gruppo Bilderberg. Cosa che tipicamente fa un nazional socialista e cosa che tipicamente non fa una sinistra che lascia la porta aperta ai nazionalsocialisti. Lo abbiamo già visto nel 1933 in Germania e anche oggi è il modo migliore per perdere il consenso di chi verrà triturato da questa Europa dei banchieri alleati con Washington. Un altro disastro.
In mezzo c'è una porta molto stretta, che porta alla lotta contro il capitalismo e contro la sua accumulazione senza fine e senza un fine. Una lotta per l’emancipazione sociale. L'unica strada che può evitare il disastro.
4. Il “pubblico” di sinistra, al quale per ragioni storiche ci rivolgiamo prevalentemente, con sincerità o per opportunismo è in gran parte dominato culturalmente e politicamente dal mito progressista oggi incarnato da Barack Obush, come giustamente chiamato da Giulietto Chiesa e Pino Cabras, e dalla sua politica di esportazione della democrazia “from behind”, cioè in modo meno spaccone e da cow-boy di George “Dubia” Bush.
La sinistra americana, ovviamente non ne è più abbagliata da un pezzo, ma nelle province dell’impero la sinistra, se vuole ritornare al potere, deve crederci o far finta di crederci o comunque non criticare radicalmente la politica imperialistica statunitense e le sue propaggini europee. Deve quindi manipolare informazioni e conoscenze per indurre un “pubblico” tradizionalmente disattento alla politica internazionale a credere alla stessa cosa.
Materialmente però questo stesso pubblico è immerso in uno spazio sociale più vasto che vive in una crescente paura condivisa. Politicamente per ora non sa a che santo votarsi per trovare una soluzione alle rapine delle escort della City e di Wall Street – e meno che meno a quelle delle grandi maitresse in carica. In mancanza di proposte chiare e praticabili potrebbe quindi oscillare tra le due soluzioni reazionarie sopra citate: quella apertamente fascistoide (è impossibile, per fare un esempio, non notare come stia montando il razzismo nei quartieri popolari di Roma) oppure quella della “democrazia” dei bandwagon rituali, dei bombardamenti abituali e della Golden Rule, cioè delle Costituzioni non più garanti della democrazia e al servizio della società nazionale, bensì al servizio delle oligarchie finanziarie e garanti dei loro immensi patrimoni.
Note
[1] Detto incidentalmente, può sembrare un mistero la stessa importanza attuale della City di Londra, a più di un secolo abbondante da quando la Gran Bretagna perse il titolo di “opificio del mondo” e a sessant’anni dalla perdita di ogni supremazia territoriale e finanziaria a favore degli Stati Uniti. Un mistero che non si risolve con gli “zurück zu Marx” e nemmeno con i ritorni fideistici a Lenin, ma che obbliga a rinnovare gli strumenti analitici. Ovviamente esistono anche le scorciatoie sciagurate e spesso repellenti che risolvono tutto coi complotti: della massoneria, degli ebrei, della massoneria giudaica, della massoneria britannica, della massoneria giudaica britannica, e via intrecciando combinazioni di idiozie che a volte non si vergognano nemmeno di citare i rettiliani o i Protocolli dei Savi di Sion, per poi dire che è vero che sono tutte scemenze, per carità di Dio, ma che in fondo in fondo sono segnali di qualcosa di vero. Ma quel che è peggio è che ci sono persone per bene che ci mettono un po’ troppo a capire che questi signori bisogna accompagnarli gentilmente alla porta.
[2] Il sistema capitalistico-imperialista, due termini inscindibili in Occidente, non è nuovo a queste trovate immaginifiche. Si pensi alla perversione della Gran Bretagna imperiale che metteva in conto all’India anche le spese per le donne delle pulizie dell’Indian Office di Londra. E, molto prima, pensiamo alla vendita alla Corona inglese dell’India da parte della Compagnia delle Indie Orientali. L’india fu pagata dalla Corona con la stessa merce acquistata, ovverosia con un aumento stratosferico del debito indiano, come notò con grande acume Jawaharlal Nehru nel suo libro “The Discovery of India”: “Il debito pubblico indiano nacque in questo modo: dal prezzo d’acquisto dell’India, pagato dall’India.”. Esempio micragnoso, il primo, di come si inzeppa un debito pubblico, ed esempio grandioso, il secondo, di leveraged buyout, la manovra finanziaria alla quale ci hanno abituato i “capitani d’industria” tra cui i famosi “capitani coraggiosi” così amati da D’Alema. La fantasiosità di queste soluzioni, oggi strettamente legate alla finanziarizzazione dell’economia di cui parleremo tra poco, hanno tratto in inganno i teorici tardo operaisti, che vi hanno letto la sospensione della legge del valore e conseguentemente il mantenimento del capitalismo tramite “puro comando” attuato tramite la “violenza della moneta” e le pratiche della “biopolitica” e qualcun altro vi ha letto l’avvento di un “capitalismo assoluto”. Ciò è vero, e solo parzialmente, esclusivamente nella misura in cui questi fenomeni sono conseguenza di una crisi che spinge ad una crescente lotta per assicurarsi quelle “esternalità” di cui il sistema capitalistico ha bisogno come l’aria, lotta che necessita di enormi capitali che possono essere considerati “fittizi” solo in rapporto con la mobilitazione delle risorse da cui si estrae valore e plusvalore, ma non se si considerano le immense risorse di potenza che possono mobilitare. Non vi hanno quindi letto i tratti tipici dei conflitti interimperialistici. E’ la conseguenza di una interpretazione minuziosamente letterale del pensiero di Marx e di una incomprensione di quello di Lenin e della storia successiva, incomprensioni che hanno una delle loro origini nel Sessantotto, periodo storico che rivendico come parte integrante della mia formazione politica e umana, ma che non posso sottrarre alla critica di “idealismo” e “ideologismo” proprio nel senso deteriore usato da Marx. Solo dei “marxisti della parola” (come lo eravamo tutti per questioni di collocazione sociale) potevano credere di essere antimperialisti perché andavano metodicamente in piazza a protestare contro la guerra nel Vietnam, e nel frattempo non capire che la Francia gaullista con la sua insistenza – squisitamente politica – ad incassare dollari in oro, addirittura su base mensile, era in quel periodo, assieme alla montante opposizione interna, il peggior mal di testa per l’imperialismo statunitense. Una contraddizione che il già citato Michael Hudson ha sintetizzato in pochissime parole: “Arrivò il Maggio francese e il problema non si pose più”. Del Maggio francese la maggior parte della attuale sinistra sedicente comunista o radicale è purtroppo una fedele erede nell’incomprensione della complessità e non linearità dei fenomeni e quindi delle strategie da elaborare ed attuare.
[3] Giustificherò il suo utilizzo in un libro che tra non molto metterò a disposizione militante.
[4] In quel periodo, infatti, molti analisti di sinistra iniziarono a teorizzare il salario come “variabile indipendente” e a parlare di “reddito operaio”. Un sogno ad occhi aperti. Il brusco risveglio, come vedremo tra poco, arrivò poco più di un lustro dopo, trasformando quel sogno in un incubo da cui non siamo ancora usciti.
[5] E’ in questo momento che si iniziò a parlare di organizzazione reticolare, di Business Process Reingineering, di Change Management e più tardi di Knowledege Management. Modi paludati per dire che la vecchia organizzazione gerarchica fordista, legata alla mass production, non funzionava più e bisognava adattare la “value chain” alla mass customisation. Ma alla fin fine alla finanziarizzazione, basti pensare alla penalizzazione degli investimenti e della ricerca e sviluppo causata da ossessive rendicontazioni finanziarie trimestrali che bloccavano anche il più volenteroso dei manager (all’estremo opposto, nel bailamme della corsa al “rinnovamento” è significativo come venisse “calcolato” il Return on Investment – il mitico ROI – per i progetti di Knowledge Management: in base al valore del “capitale intellettuale” dato, ahimè, dalla differenza tra Market Value e Book Value. Un inno alla speculazione borsistica in cui la conoscenza aziendale non c’entrava un fico secco. Con buona pace dei teorici del “capitalismo cognitivo”).
[6] Come si evince dai grafici riportati, il debito pubblico dei Paesi occidentali corre di pari passo con la finanziarizzazione, la quale, a sua volta, esibisce una forte corrispondenza con l’andamento dei tassi di profitto che nonostante l’aggravamento delle condizioni salariali e di lavoro non sono riusciti a ritornare ai livelli pre-crisi. Con due notevoli eccezioni: la Gran Bretagna il cui debito pubblico ha beneficiato delle devastanti politiche sociali della signora Thatcher, per poi ricominciare a salire inesorabilmente a partire dal 2001: dai 385,5 miliardi di sterline allora (37,7% del PIL) ai 967,5 miliardi di sterline odierne (61,5% del PIL). La seconda eccezione è l’Irlanda che incorse nella crisi del 2007 quando aveva un debito pubblico di solo 37,6 miliardi di euro, pari al 19.5% di PIL per arrivare, dopo gli “aggiustamenti strutturali” a 109,610 miliardi odierni (105% del PIL).
[7] Molti commentatori statunitensi descrivono la politica internazionale del proprio Paese come l’atteggiamento del bullo del racket di quartiere: offrire protezione e, per essere convincenti, creare un pericoloso caos e usare minacce.
[8] A volte queste contraddizioni incrociate sono illustrate in modo logico-sistemico limitatamente all’aspetto economico, come nel citato Dilemma di Triffin o nel Trilemma (o trinità inconsistente) di Mundell-Fleming, che esclude la possibilità simultanea di a) una politica monetaria sovrana, b) cambi fissi e c) perfetta mobilità dei capitali. E’ significativo che questi “paradossi” siano stati studiati negli anni Sessanta, cioè quando stava maturando l’attuale crisi.
[9] Non nascondo il carattere ipotetico di ciò che segue. Ipotesi che nascono però da dati, osservazioni di fenomeni e riflessioni sulla storia economica dal dopoguerra ad oggi. Tuttavia poiché le interpretazione che riguardano il passato non sono mai univoche, a maggior ragione le ipotesi che riguardano il futuro sono sempre da verificare e discutere.
[10] La sfera d’influenza tedesca comprende l’Olanda, il Belgio, il Lussemburgo, la Finlandia, la Polonia, l’Ungheria, la Slovacchia, la Slovenia, la Repubblica Ceca, l’Austria e la Croazia. Il possesso di questi Paesi di Treasury securities statunitensi è più del 7%. Una cifra di peso se si tiene conto del progressivo sganciamento della Cina dal dollaro.
[11] Le flebili proteste di Frattini contro l’asse franco-tedesco sono state sbeffeggiate dalla sinistra che sventolava l’appoggio di Obama a tale asse. Quelle proteste erano risibili invece per ben altro motivo: la miserabile sudditanza di Frattini stesso agli ordini imperiali.
[12] Per un esempio non lontano di politica di stop-and-go, si pensi che tra il Plaza Accord e il Reverse Plaza Accord passano solo dieci anni (1985-1995).
Serie economiche
Serie economiche
La crescita del debito pubblico nei Paesi occidentali.
Fonte: Bank for International Settlements (aprile 2010)
24. La crescita del debito pubblico nei Paesi occidentali.
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