Il referendum da Mortati a Emma Bonino: "società politica" contro "società civile"
di LORENZO D’ONOFRIO (ARS Pescara)
Si fa un gran parlare in questi giorni di referendum, quorum e astensione. Spesso si dà per scontato che il referendum abrogativo abbia ad oggetto sempre norme “sbagliate”.
Non è detto che sia così!
La disaffezione da inflazione referendaria, il disgusto per la politica in generale e il controllo mediatico sulle masse da parte del grande capitale sono pericoli immensi.
Si può discutere se la determinazione di un quorum sia una scelta opportuna o meno, ma non ci si può esimere dal cercare di comprendere le motivazioni che hanno spinto i Costituenti a fissare quel principio.
La storia insegna che in nome delle libertà abbiamo abdicato con troppa leggerezza a presidii importanti della nostra democrazia.
È sbagliato pensare che la modernità implichi necessariamente soluzione di problemi nuovi: le esigenze di democrazia diretta, ad esempio, non sono nate con il web, ma sono state attentamente valutate dall’Assemblea Costituente che ha consapevolmente optato per una forma di democrazia rappresentativa parlamentare, seppur con istituti di democrazia diretta.
Riporto alcuni stralci delle parole pronunciate da Costantino Mortati nelle discussioni sull’art. 75 della Costituzione, prima in Sottocommissione e poi in Assemblea Costituente, perché ritengo molto pericoloso e presuntuoso l’atteggiamento di chi si arroga il diritto di pretendere modifiche della nostra Carta fondamentale, senza prima adempiere al dovere di conoscerne la genesi ed i principi sottesi.
Si deve infine accennare alla funzione da attribuire al popolo come organo del potere legislativo. La tendenza moderna è quella di condurre il popolo, da una funzione limitata alla scelta dei suoi rappresentanti, ad una funzione più ampia, di attiva partecipazione politica, e il mezzo adoperato a questo scopo è il referendum, che ha una efficacia diversa a seconda del modo in cui sono congegnati i poteri pubblici […]
In ogni caso quello che bisognerebbe curare, ove si introducesse l’istituto del referendum, sarebbe di congegnarlo praticamente in modo che possa dare il massimo rendimento. È questo un punto molto delicato, che implica particolarità di dettaglio che influiscono sulle funzioni dell’istituto stesso. Bisogna aver cura che il popolo risponda nel referendum come entità organizzata, e non come popolo indifferenziato […]
Il quesito che occorre proporsi è se convenga oppure no instaurare in Italia un regime di puro parlamentarismo, senza, cioè, che sia accordata alcuna possibilità al popolo di invalidare la volontà del Parlamento. Per suo conto ritiene che la possibilità di un veto popolare non solo possa essere utile ai fini dell’interesse generale, ma possa anche servire benissimo a rafforzare l’autorità del Parlamento. Il Parlamento può anche errare e pertanto non riflettere esattamente la volontà popolare. Può, quindi, essere opportuno ammettere il referendum come forma di veto popolare, tanto più che non è stato accolto il principio del referendum su iniziativa del Governo. Ora, o si ammette che la sovranità risiede nella volontà del popolo, e allora si dovrà anche ammettere il veto popolare mediante referendum; o non si ammette quel principio, e in tal caso si può giustificare la richiesta di coloro che non vogliono il referendum come forma di veto popolare. Ammettere un simile correttivo dell’azione spiegata dal Parlamento da parte dell’opinione pubblica potrà essere utile al Parlamento stesso. Il Parlamento, infatti, sapendo in precedenza che un dato disegno di legge da esso approvato potrà non incontrare il favore dell’opinione pubblica, sarà più cauto e scrupoloso nelle deliberazioni che dovrà adottare. Ciò verrà, in ultima analisi, a limitare i casi di applicazione del referendum.
Si tenga anche presente che, mediante il referendum, si rende possibile fare interessare maggiormente il popolo a questioni che possono essere di vitale importanza per il Paese. Con il referendum quindi si potrà conseguire una maggiore educazione politica delle masse popolari, cosa da tutti auspicata, e lo sviluppo di una sana democrazia in Italia […]
Ritornando a quanto dicevo, osservo che precisamente la constatazione di uno scarto fra partiti e opinione pubblica viene a giustificare ancora di più l’adozione di questo istituto, perché questo contrasto fra rappresentanti e rappresentati può significare o una deficienza dei primi o una deficienza dei secondi. O sono i primi che interpretano male la volontà popolare e i bisogni reali del popolo, e allora è giusto che la loro attività sia arrestata dal popolo; o è il popolo che è scarsamente educato, e allora è ai partiti che si deve imputare tale situazione, ed il rimedio non può essere quello di escludere il popolo, bensì di eccitare il suo spirito politico, la sua sensibilità ai problemi politici, la sua capacità di intendere gli interessi generali, il che è compito specifico dei partiti, che non possono rigettare i mezzi per facilitare il raggiungimento di tali fini.
Proprio a ciò giova la politicizzazione degli interessi nei quali il popolo vive la sua vita di ogni giorno; ed è anche col servirsi delle varie associazioni spontanee e col loro inserirle nella vita politica che si può agevolare la sensibilità popolare alla voce degli interessi collettivi.
Il referendum è in sostanza una garanzia di libertà, in quanto può preservare da riforme non sentite o affrettate, ma non può certamente pregiudicare l’adozione di quelle che rispondano alla coscienza collettiva. Perché dovrebbe impedire in Italia le riforme sociali, l’attuazione per esempio della riforma agraria, come diceva ieri l’onorevole Corbi? Affermazioni di questo genere non si capiscono perché, o queste riforme incontrano l’opposizione delle masse, e allora giustamente dovrebbero essere impedite, o sono aderenti a bisogni sentiti dalla maggioranza, e allora il referendum non può agire sul loro esplicarsi.
In pratica, la stessa difficoltà di attuazione del referendum in un organismo così complesso come è un grande Stato moderno, si pone come un ostacolo di fatto al suo impiego frequente. C’è una remora precisamente nella difficoltà di mettere in moto una macchina così complicata. La importanza del referendum sta, dunque, più nell’azione potenziale che può esercitare col frenare le tentazioni di intemperanza dei partiti al potere, col renderli più meditativi circa la convenienza delle riforme proposte in confronto ai bisogni del popolo, che non nel suo impiego effettivo.
Qui si può leggere la discussione integrale sull’articolo.
Nel 1947 Mortati individuava nell’istituto referendario un efficace correttivo dell’azione parlamentare, concepito come un veto popolare destinato ad attivarsi nel caso in cui il Parlamento non riflettesse la volontà popolare su questioni fondamentali.
Un istituto, dunque, finalizzato da una parte a rafforzare l’autorità del Parlamento stesso, responsabilizzandolo circa la continua ed effettiva rispondenza delle normative proposte alla volontà del popolo rappresentato, dall’altra voluto come strumento in grado di agevolare la fondamentale funzione dei partiti (di educazione politica e formazione della classe dirigente) e di favorire la partecipazione dei cittadini alla vita politica, sia come singoli che attraverso le formazioni sociali nelle quali si svolge la loro personalità.
L’appello di Mortati ad “aver cura che il popolo risponda nel referendum come entità organizzata, e non come popolo indifferenziato”, il suo invito alla “politicizzazione degli interessi nei quali il popolo vive la sua vita di ogni giorno”, ad inserire le associazioni spontanee nella vita politica, costituiscono un evidente rifiuto del concetto oggi troppo in voga di “società civile” apartitica e la riaffermazione della necessità di una “società politica”.
È quest’ultima che va ricostruita attraverso la riscoperta della militanza, anche partecipando alla costruzione di nuovi partiti che rispondano alle proprie convinzioni ed ai propri ideali, poiché il partito politico (art. 49 Cost.) è l’unica forma aggregativa attraverso la quale il cittadino può tornare ad incidere sulle sorti del proprio paese.
La “società civile” delle manifestazioni e dei referendum ha palesato tutta la sua carica sostanzialmente individualista e una conclamata incapacità di generare un cambiamento, dimostrandosi spesso funzionale agli interessi dei globalizzatori (“…le proteste del XXI secolo somigliano, per alcuni versi, a quelle medioevali. A quel tempo le persone non scendevano in piazza con l’ambizione di rovesciare il re o di sostituirlo con un altro a loro più gradito; manifestavano per obbligare il sovrano a fare qualcosa in loro favore, o per impedirgli di far loro del male”).
La deriva individualista, antipolitica ed antistatalista generata dall’illusione referendaria è ben rappresentata dal delirio globalista di Emma Bonino del 1999, al momento della proposizione dei venti referendum «liberali» (fra i quesiti c’era anche la richiesta di abrogazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori):
In questi ultimi anni – pur senza dimenticare i diritti civili, l’antiproibizionismo e via discorrendo – l’iniziativa politica radicale è stata improntata alle riforme economiche. Per l’Italia di oggi sono le riforme economiche – più libertà di impresa, meno Stato nell’economia, flessibilità e autonomia contrattuale nel mercato del lavoro, meno spesa pubblica, rottura dei monopoli, liberalizzazione dei mercati – la chiave della modernizzazione. Qualcosa di analogo, appunto, ai diritti civili negli anni settanta. Dico questo perché deve essere chiaro a tutti che la libertà da affermare per gli europei del duemila sarà sempre più quella di potere avere libertà di scelta come consumatori ed utenti tra una molteplicità di opzioni in un mercato concorrenziale. Attraverso la scelta «liberista» vogliamo affermare la libertà di impresa, certo, ma anche la libertà del consumatore di ottimizzare la propria utilità orientandosi tra offerte davvero in concorrenza. Gli economisti parlano, nella teoria, “di sovranità del consumatore”. Noi vorremmo che, almeno un po’, questa fosse anche “la pratica”.
Le campagne referendarie moderne (anche laddove condivisibili negli obiettivi come nel caso dell’acqua pubblica) sono allora il sintomo, non la cura, di una grave crisi democratica: il ricorso continuo ai referendum è chiaro indice di inceppamento della democrazia e dell’occupazione del potere legislativo da parte dei poteri privati, mentre non è pensabile che gli attuali gravi problemi di partecipazione possano essere risolti con ulteriori modifiche costituzionali.
Una lezione della storia è quanto accaduto con i 4 referendum del 2011:
il 12 e 13 giugno 2011 ben 26 milioni di italiani diedero, a detta di molti, una grande prova di maturità civica, sostenendo con un fragoroso SÌ una campagna referendaria caricata di una fortissima valenza politica, anche per la presenza di un quesito sul famigerato legittimo impedimento (“Valanga di sì, schiaffo a Berlusconi” titolava Repubblica).
Tutti ricordiamo i festeggiamenti per un presunto riscatto degli italiani, la solita Norma Rangeri che dalle pagine del Manifesto celebrava finalmente l’avvento della tanto attesa “MASSA CRITICA” ed altri sproloqui del genere.
Cosa accadde dopo?
NULLA! Berlusconi restò in sella fino a quando non accettò la destituzione a colpi di spread (in realtà con un potente attacco a Mediaset), fra scroscianti applausi di quella massa critica, scesa in piazza esultante a celebrare con rituali brindisi la “liberazione”.
Quella stessa massa critica, la “società civile”, accoglieva poco dopo il sobrio “liberatore” Mario Monti, ovvero mister “abbiamo bisogno di crisi per fare passi avanti”, mister “la Grecia è il più grande successo dell’euro”, mister “stiamo distruggendo la domanda interna con il consolidamento fiscale” e tante altre nefandezze costate a questo paese parecchi suicidi, insieme a pezzi importanti di democrazia e di tessuto produttivo.
Del resto sempre la storia ci ricorda come, proprio attraverso l’istituto referendario, la volontà popolare sia stata trasformata in un grimaldello per scardinare uno dei capisaldi della democrazia costituzionale, la rappresentatività parlamentare: sono state così spalancate le porte all’avvento di quel sistema elettorale maggioritario che ha consentito l’affermazione del Partito Unico unionista e globalista, fanatico dello “Stato minimo” ed artefice del sovvertimento dell’impianto costituzionale.
A questa deriva possiamo reagire solo con una scelta, rinunciando alla nostra condizione di consumatori per tornare ad essere cittadini, sapendo che abbiamo di fronte una lunga e dura lotta, ma avendo ben chiaro che la nostra prospettiva deve essere storica e che può esistere un’unica linea del fronte: la nostra Costituzione repubblicana.
CI LIBEREREMO!
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