Dervisci
di Francesca Recchia
Viaggiare nel cassone di un pick-up riempie i capelli di sabbia e i pensieri di vento.
A.K. suona il tar (una specie di chitarrina persiana) mentre si viaggia e dalle macchine che ci sorpassano la gente sorride e saluta. Un suonatore e uno straniero nel retro di un pick-up sono una combinazione piuttosto insolita da queste parti.
E così si va, verso sud est, lungo il confine con l´Iran, a Barzinja. Più che un villaggio sembra un anonimo agglomerato di case lungo la strada principale. Un campo da calcio recintato, una grande moschea, tanti prati e poco altro. Ci fermiamo, siamo arrivati. Siamo qui per il festival annuale della setta di Sufi Aqdiya dell´ordine dei Kasnazani, fondata nell´undicesimo secolo. I membri appartengono tutti alla tribù dei Barzinji e sono divisi fra l´Iran e l´Iraq – per il festival si radunano nel villaggio dove si prega e si festeggia tutti insieme.
Sono molto anni che subisco la fascinazione del mondo dei dervisci e della spiritualità Sufi. La prima volta che ho fatto direttamente esperienza delle celebrazioni è stata una notte di tanti anni fa a Lahore, dove l´immagine esotica del derviscio col vestito bianco circondato da un alone di purezza e santità è stata sostituita da una forma di misticismo molto più materiale: di sudore e terra più che di incenso e spirito. L´incontro con i dervisci curdi è stato simile, altrettanto intenso.
Il centro delle celebrazioni è nel campetto di calcio; c´e´ una tettoia per proteggere dal sole lo Sheikh e gli anziani della setta. Al centro del campo i suonatori di tamburi, i partecipanti al rito e gli spettatori. Sono con i miei amici dell´agenzia fotografica Metrography, mi dicono di coprirmi la testa e di seguirli. Tutte le teste si girano per guardarmi – sono l´unica donna nell´area delle celebrazioni. Alzo gli occhi donne e bambini sono subito fuori dal campo – sul fianco della collina immediatamente a ridosso che guardano dall´alto e partecipano al rito. Raggiungo il resto delle donne e assisto alle celebrazioni. Il battito dei tamburi è frenetico, i dervisci seguono il ritmo con il corpo: il busto, la testa, i capelli lunghi sciolti vanno su e giù, sempre più veloce, fino a raggiungere una sorta di trance. Due donne, una giovane e una anziana, sedute con le gambe incrociate sul bordo della strada seguono il ritmo della musica e sembrano perse in un mondo parallelo, altre donne si avvicinano per assisterle, per far sì che la testa rimanga coperta.
L´ordine dei Kasnazani è uno di quelli che pratica l´autoflagellazione come forma di estasi mistica. La musica si fa più frenetica, i dervisci che partecipano al rito sono in cerchio, il cerchio si allarga e un giovane con i capelli rossi raggiunge il centro del cerchio. É Khalid Konapowsi, un derviscio di 25 anni venuto dall´Iran per il festival. É lui il cuore delle celebrazioni. Una volta raggiunto il centro del cerchio uno degli anziani gli porge una spada, gli altri dervisci gli fanno spazio. Seguendo il suono dei tamburi comincia a battersi la schiena, con una violenza che cresce in parallelo al ritmo della musica. La folla è quasi ipnotizzata, io come gli altri – nessuno riesce a staccare gli occhi dalla schiena di Khalid. Non c´è sangue. Khalid torna in cerchio col resto del gruppo e riprende il movimento ritmico in sintonia con gli atri corpi. Di nuovo uno degli anziani lo chiama al centro. Questa volta ha in mano uno spillone. Khalid si inginocchia. L´anziano gli perfora la lingua con lo spillone. La gente trattiene il respiro. Nessun rumore oltre il vento e il suono dei tamburi. Non c´è sangue.
E così il rito finisce e la folla si disperde per continuare i festeggiamenti con un pic nic.
Io sono senza parole, il ritmo dei tamburi mi risuona nelle orecchie. Nella moschea c´è la tomba del fondatore della setta. Entriamo e lì mi trovo faccia a faccia con Khalid – ha un viso da bambino e un sorriso estatico, non c´è traccia di sofferenza.
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