Foreign Affairs si esprime a favore della disintegrazione dell'Unione Europea
EMILIO MARTINES del FSI di Padova aveva tradotto questo importante articolo. Tuttavia siamo stati anticipati da Voci dall’estero, che ha già pubblicato una traduzione. Perciò offriamo ai lettori la traduzione degli amici di Voci dall’estero.
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di Jakub Grygiel, settembre 2016
Foreign Affairs dichiara apertamente che l’Unione europea – debole, inconcludente e impopolare – non è più strategicamente interessante per gli Stati Uniti. In passato l’hanno sostenuta, è vero: ma ora il ritorno agli stati nazionali è meglio, anche per gli interessi dello zio Sam. Sebbene il quadro geopolitico descritto nell’articolo sia deformato dalla lente degli interessi americani, la tesi espressa è di notevole importanza in quanto la rivista è un autorevole riferimento in politica estera per l’élite americana.
L’Europa si trova attualmente alle prese con la peggiore crisi politica dalla seconda guerra mondiale. In tutto il continente, i partiti politici tradizionali hanno perso ogni attrattiva, mentre i movimenti populisti ed euroscettici hanno attirato un ampio sostegno. Le speranze di una unità dell’Europa sembrano affievolirsi di giorno in giorno. La crisi dell’euro ha messo in luce profonde linee di faglia tra la Germania e gli indebitati Stati dell’Europa meridionale, tra cui Grecia e Portogallo. Germania e Italia si sono scontrate su questioni come il controllo delle frontiere e i regolamenti bancari. E il 23 giugno, il Regno Unito è diventato il primo paese nella storia a votare per uscire dall’UE – una botta scioccante per il resto del blocco.
E mentre la sua politica interna è deragliata, l’Europa deve ora affrontare nuovi pericoli esterni. A est, si profila minacciosamente una Russia revanscista, che ha invaso l’Ucraina e annesso la Crimea. A sud dell’Europa, il collasso di numerosi stati ha spinto milioni di migranti verso nord e ha creato un terreno fertile per il terrorismo islamico. I recenti attacchi a Parigi e Bruxelles hanno dimostrato che questi estremisti possano colpire nel cuore del continente.
Questo caos ha messo in evidenza il prezzo da pagare per avere ignorato le lotte geopolitiche che circondano l’Europa. Eppure l’Unione europea, paralizzata dalla crisi dell’euro e dalle divisioni su come suddividere i rifugiati, non sembra più né abbastanza forte né abbastanza unita per affrontare le sue turbolenze interne né le minacce alla sicurezza ai suoi confini. I leader nazionali in tutto il continente si stanno già rivolgendo verso l’interno, giungendo alla conclusione che il modo migliore per proteggere i loro paesi è attraverso una maggiore – e non minore – sovranità. Molti elettori sembrano essere d’accordo.
Come la storia dell’Europa mostra dolorosamente, un ritorno al nazionalismo aggressivo potrebbe essere pericoloso, non solo per il continente, ma anche per il mondo. Eppure un’Europa di stati-nazione che riprendono vigore sarebbe preferibile alla sconnessa, inefficace e impopolare UE di oggi. Ci sono buone ragioni per credere che i paesi europei riuscirebbero meglio a tenere sotto controllo la Russia, a gestire la crisi dei migranti, e a combattere il terrorismo ciascuno per conto proprio di quanto non abbiano fatto sotto gli auspici dell’UE.
Un’unione sempre più lontana
Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, numerosi leader europei sostennero in modo convincente che solo attraverso l’unità il continente europeo avrebbe potuto sfuggire al suo passato sanguinario e garantirsi la prosperità. Secondo questa linea, nel 1951 Belgio, Francia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Germania occidentale crearono la Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Nel corso dei decenni seguenti, l’organizzazione si trasformò in Comunità economica europea e, alla fine, nell’Unione Europea, mentre il numero dei paesi inclusi è cresciuto da sei a 28. Durante questo percorso, mentre la paura della guerra si allontanava, i leader europei hanno cominciato a parlare di integrazione non solo come forza di pace, ma anche come un modo per consentire all’Europa di stare al fianco di Cina, Russia e Stati Uniti come una grande potenza.
I sostenitori dell’UE affermavano che i benefici derivanti dal farne parte – un mercato integrato, frontiere condivise, e un sistema giuridico transnazionale – fossero evidenti da soli. Secondo questa logica, l’espansione dell’Unione verso est non avrebbe richiesto la forza né la coercizione politica; sarebbe semplicemente bastato attendere con pazienza, e gli stati non membri avrebbero rapidamente riconosciuto i vantaggi dell’appartenenza e chiesto di aderire al più presto possibile. Per molti anni questa logica ha tenuto: i paesi dell’Europa centrale e orientale hanno fatto a gara ad aderire all’Unione dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Otto paesi – Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacchia e Slovenia – sono diventati membri nel 2004; la Bulgaria e la Romania hanno seguito nel 2007.
Poi è arrivata la crisi Ucraina. Nel 2014, il popolo ucraino è sceso in piazza e ha rovesciato il loro corrotto presidente, Viktor Yanukovich, dopo che questi aveva annullato bruscamente un nuovo accordo economico con l’UE. Subito dopo la Russia ha invaso e annesso la Crimea, e ben presto ha anche inviato soldati e artiglieria in Ucraina orientale. I leader dell’UE avevano sperato che gli incentivi economici avrebbero inevitabilmente aumentato l’adesione all’Unione e portato la pace e la prosperità a un pubblico sempre più ampio. Ma quel sogno non ha potuto competere con i carri armati della Russia e i cosiddetti “omini verdi”.
La mossa di Mosca non sarebbe stata, di per sé, sufficiente a paralizzare l’Unione europea. Ma ben presto è esplosa un’altra crisi, e questa ha spinto l’Unione vicino al suo punto di rottura. Nel 2015, più di un milione di profughi – quasi la metà dei quali in fuga dalla guerra civile in Siria – sono entrati in Europa, e da allora molti altri li hanno seguiti. All’inizio molti paesi, in particolare la Germania e la Svezia, si sono dimostrati molto accoglienti, e i loro leader hanno criticato aspramente i paesi che cercavano di tenere i migranti fuori.
L’anno scorso, dopo che l’Ungheria aveva eretto un recinto di filo spinato lungo la frontiera con la Croazia, il cancelliere tedesco Angela Merkel condannò la mossa definendola una reminiscenza della guerra fredda, e il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius dichiarò che “non rispetta i valori comuni dell’Europa”. Ma all’inizio di quest’anno molti di questi stessi leader hanno cambiato musica e hanno cominciato a fare pressioni sui paesi ai confini dell’Europa perché aumentino le loro misure di sicurezza. Nel mese di gennaio diversi governi europei hanno avvertito la Grecia che, se non avesse trovato un modo per fermare il flusso di rifugiati, l’avrebbero espulsa dall’area Schengen, la zona di libera circolazione all’interno dell’UE.
Consapevolmente o no, i politici europei che sostengono le frontiere aperte non sono riusciti a dare la priorità ai propri cittadini rispetto agli stranieri. Le intenzioni di questi leader possono essere nobili, ma se uno Stato non riesce a limitare la sua protezione a un particolare gruppo di persone – i suoi cittadini – il suo governo rischia di perdere legittimità. In effetti, la principale misura del successo di un paese è come riesce a proteggere la sua gente e i suoi confini dalle minacce esterne, siano essi vicini ostili, il terrorismo o la migrazione di massa. A questo riguardo, l’UE ed i suoi sostenitori stanno fallendo. E gli elettori se ne sono accorti. Il popolo britannico ha dato una bella strigliata al blocco in giugno, quando ha votato per lasciare l’UE con un margine di 52 contro 48 per cento, ignorando gli avvertimenti del Fondo monetario internazionale, della Banca d’Inghilterra e del Tesoro del Regno Unito, secondo i quali la Brexit avrebbe portato al disastro economico. In Francia, secondo un recente sondaggio Pew, il 61 per cento della popolazione ha una opinione negativa sull’UE; in Grecia, lo ha il 71 per cento della popolazione.
Ai tempi in cui l’Europa non doveva affrontare minacce per la sicurezza, come è stato per la maggior parte degli ultimi due decenni, i paesi membri dell’UE poteva permettersi di perseguire obiettivi che volavano alto, come abolire i confini all’interno dell’Unione. Ora che i pericoli sono tornati, però, e che l’Unione europea ha dimostrato che non è in grado di farvi fronte, i leader nazionali europei devono adempiere al loro dovere più elementare: difendere se stessi.
Torniamo alle basi
Chi ha architettato la UE ha creato una testa senza corpo: ha costruito una burocrazia politica e amministrativa unitaria, ma non una nazione europea unita. L’UE aspirava a superare gli stati-nazione, ma il suo errore fatale è stata la sua costante incapacità di riconoscere la persistenza di differenze nazionali e l’importanza di affrontare le minacce alle sue frontiere.
Una conseguenza di questa cecità è stata l’ascesa di partiti politici che mirano a ripristinare l’autonomia nazionale, spesso facendo appello a sentimenti di estrema destra, populisti e a volte xenofobi. Nel 2014, l’ UK Independence Party ha ottenuto la maggioranza del voto popolare in una elezione per il Parlamento Europeo, era la prima volta dal 1906 che un partito nel Regno Unito batteva Labour e Conservatori in una elezione nazionale. Lo scorso dicembre in Francia il Fronte Nazionale di Marine Le Pen ha vinto il primo turno delle elezioni regionali del paese; quindi in marzo in Germania un partito euroscettico di destra, Alternativa per la Germania, ha ottenuto quasi il 25 per cento dei voti in Sassonia-Anhalt. E a maggio Norbert Hofer, un candidato di estrema destra Partito della Libertà, ha perso di stettissima misura le elezioni presidenziali in Austria (in Austria in seguito la Corte costituzionale ha annullato il risultato, obbligando a una replica delle elezioni che si terrà nel mese di ottobre.)
Alcuni di questi partiti hanno beneficiato del sostegno entusiasta della Russia, come parte della sua campagna per acquistare influenza in Europa. Fino a poco tempo fa, Mosca poteva contare su leader europei amichevoli nei confronti della Russia, tra cui l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder e l’ex primo ministro italiano Silvio Berlusconi. Ma ora, mentre nuovi partiti prendono il posto di quelli tradizionali, il Cremlino ha bisogno di nuovi partner. Ha dato contributi al Fronte Nazionale, e il Congresso degli Stati Uniti ha chiesto a James Clapper, direttore dell’intelligence nazionale degli Stati Uniti, di indagare sui legami del Cremlino con altri partiti marginali, tra cui Alba Dorata in Grecia e Jobbik in Ungheria. Eppure questi partiti sarebbero in crescita anche senza il sostegno russo. Molti europei sono delusi dai politici che hanno sostenuto l’integrazione europea, l’apertura delle frontiere, e la progressiva dissoluzione della sovranità nazionale; hanno un desiderio profondo e radicato di riaffermare la supremazia del loro stato-nazione.
Naturalmente, la maggior parte dei politici europei euroscettici non ha l’obiettivo di sciogliere completamente l’unione. In realtà, molti di loro continuano a vedere la sua creazione come una vittoria storica per l’Occidente. Però vogliono una maggiore autonomia nazionale in materia di politica sociale, economica ed estera, soprattutto in risposta agli invadenti obblighi dell’UE in materia di immigrazione e alla richiesta imposta a livello europeo di leggi controverse su questioni come l’aborto e il matrimonio. Molti nel Regno Unito, per esempio, hanno spinto per una uscita britannica dall’UE, o Brexit, a causa della frustrazione per il grande numero di leggi inglesi che sono arrivate da Bruxelles, piuttosto che da Westminster.
La scommessa contro la sovranità è stata persa. Ma la rinascita della sovranità ha rievocato oscure memorie del nazionalismo che per due volte ha portato il continente sull’orlo della distruzione. Molti osservatori ora temono che la politica europea cominci ad assomigliare a quella del 1930, quando i leader populisti vomitavano odio per moltiplicare i loro sostenitori. Questi timori non sono del tutto infondati. La xenofobia stridente del Partito della Libertà austriaco ricorda i primi tempi del fascismo. L’antisemitismo è aumentato in tutta Europa, spuntando nei partiti lungo tutto lo spettro ideologico, dal partito laburista del Regno Unito al Jobbik ungherese. E in Grecia alcuni membri del partito radicale di sinistra Syriza hanno sostenuto il ritiro della Grecia dalla NATO, primo esempio di una crescente antiamericanismo che potrebbe minare i fondamenti della sicurezza europea.
Eppure, affermare la sovranità nazionale non richiede un nazionalismo virulento. Il supporto per la Brexit nel Regno Unito, per esempio, era meno espressione di ostilità verso gli altri paesi europei di quanto non fosse una affermazione del diritto del Regno Unito ad auto-governarsi. Un ritorno agli stati-nazione comporta non il nazionalismo, ma il patriottismo, o quello che George Orwell ha definito “devozione a un luogo particolare e un particolare stile di vita.” È anche interessante notare che una delle più grandi minacce che l’Europa ha dovuto affrontare nel ventesimo secolo è stata di natura transnazionale: il comunismo, che ha diviso il continente per 45 anni e ha portato alla morte di milioni di persone.
Oltre la UE
Una rinazionalizzazione dell’Europa potrebbe essere la migliore speranza del continente per la sua sicurezza. I fondatori dell’UE avevano pensato che l’organismo avrebbe garantito all’Europa stabilità e prosperità – e per un po’ è sembrato che fosse davvero così. Ma oggi, anche se l’UE ha generato ricchezza attraverso il suo mercato comune, è sempre più una fonte di instabilità. La crisi dell’euro ha messo in luce l’incapacità dell’Unione di risolvere i conflitti tra i suoi membri: i leader tedeschi hanno avuto pochi incentivi ad affrontare i problemi greci, e viceversa. L’UE soffre inoltre di ciò che la Corte costituzionale federale tedesca ha definito un “deficit democratico strutturale.” Delle sue sette istituzioni, solo una – il Parlamento europeo – è direttamente eletto dal popolo, e non ha il potere di proporre leggi. Infine, il recente predominio della Germania all’interno dell’Unione europea ha alienato gli Stati più piccoli, tra cui Grecia e Italia.
Nel frattempo, l’Unione europea non è riuscita a mantenere l’Europa al sicuro. Dal 1949 l’Europa ha fatto affidamento sulla NATO e, in particolare, sugli Stati Uniti, per proteggere i propri confini. L’anemica spesa per la difesa della maggior parte dei paesi europei ha solo aumentato la loro dipendenza dalla presenza fisica degli Stati Uniti in Europa. È improbabile che l’UE crei un proprio esercito, almeno nel prossimo futuro, visto che i suoi membri hanno diverse priorità strategiche e poca voglia di cedere la sovranità militare a Bruxelles.
Molti dei sostenitori dell’UE ancora insistono sul fatto che in sua assenza l’anarchia inghiottirà il continente. Nel 2011, il ministro francese per gli Affari europei, Jean Leonetti, ammonì che il fallimento della moneta unica potrebbe portare l’Europa a “disfarsi”. Nel mese di maggio, il primo ministro britannico David Cameron ha affermato che un’uscita britannica dall’UE avrebbe aumentato il rischio di guerra. Ma, come il teologo americano Reinhold Niebuhr ha scritto nel 1940 “la paura dell’ anarchia è meno potente della paura di un nemico concreto.” Oggi i nemici identificabili che sono sorti in tutta Europa, dalla Russia all’autoproclamato Stato Islamico (noto anche come ISIS), sembrano molto più preoccupanti per la maggior parte delle persone rispetto al caos potenziale derivante dallo scioglimento della UE. La loro speranza è che i singoli paesi potranno fornire il tipo di sicurezza che Bruxelles non può dare.
Relazioni speciali
Dal punto di vista degli Stati Uniti, lo sfilacciamento della UE rappresenta una sfida seria, ma non insormontabile. Nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, Washington ha cercato di contenere l’Unione Sovietica non solo attraverso la deterrenza nucleare e una considerevole presenza militare in Europa, ma anche promuovendo l’integrazione europea. Un continente unito, era il ragionamento, avrebbe pacificato l’Europa, rafforzato le economie degli alleati degli Stati Uniti, e li avrebbe incoraggiati a cooperare con Washington per scongiurare la minaccia sovietica. Oggi, tuttavia, gli Stati Uniti ha bisogno di una nuova strategia. Poiché l’UE non sembra più all’altezza del compito di proteggere i suoi confini o concorrere a livello geopolitico, una maggior pressione americana verso l’integrazione europea semplicemente allontanerebbe il crescente numero di europei che hanno voltato le spalle alla UE.
Washington non deve temere lo scioglimento della UE. Stati europei pienamente sovrani possono rivelarsi più abili dell’Unione a scongiurare le varie minacce alle sue frontiere. Quando la Russia ha invaso l’Ucraina, l’Unione europea non ha risposto, oltre che con sanzioni e vaghi appelli a un maggior dialogo. Gli Stati europei che confinano con la Russia hanno trovato poche rassicurazioni nell’Unione, il che spiega il motivo per cui hanno cercato l’aiuto delle forze NATO e degli Stati Uniti. Eppure, in ciò in cui l’UE non è riuscita, i singoli paesi possono fare meglio. Solo il patriottismo ha quel tipo di richiamo potente e popolare che può mobilitare i cittadini europei a riarmarsi contro i loro vicini che minacciano. Le persone sono molto più disposte a combattere per il loro paese, per la loro storia, il loro territorio, la loro comune identità religiosa, piuttosto che per un organismo regionale astratto, creato per decreto. Un sondaggio Pew del 2015 ha rilevato che, nel caso di un attacco russo, più della metà di francesi, tedeschi, italiani non si muoverebbero in difesa di un membro della NATO – e quindi probabilmente neanche dell’UE.
Il ritorno agli stati-nazione non deve necessariamente portare l’Europa a tornare una accozzaglia anarchica di governi litigiosi. Una maggiore autonomia non impedirà agli stati europei di commerciare o negoziare gli uni con gli altri. Proprio come il sovranazionalismo non garantisce l’armonia, la sovranità non richiede l’ostilità tra le nazioni.
In un’Europa di resuscitati stati-nazione, i paesi continueranno a formare alleanze basate su interessi comuni e problemi di sicurezza. Riconoscendo la debolezza della UE, alcuni Stati lo hanno già fatto. La Repubblica Ceca, l’Ungheria, la Polonia e la Slovacchia, per esempio – normalmente un gruppo disunito -hanno unito le forze per opporsi ai piani dell’UE che le costringerebbero ad accettare migliaia di profughi.
Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno bisogno di un partner migliore della UE in Europa. Poiché l’Unione si dissolve, la funzione della NATO nel mantenimento della stabilità e scoraggiando le minacce esterne aumenterà – rafforzando il ruolo di Washington nel continente. Senza l’Unione europea, molti paesi europei, minacciati dalla Russia e sopraffatti dalla migrazione di massa, con ogni probabilità investiranno di più nella NATO, l’unica alleanza di sicurezza sostenuta dalla forza e, quindi, in grado di proteggere i suoi membri.
È il momento per i leader degli Stati Uniti e per la classe politica europea di riconoscere che un ritorno agli stati-nazione in Europa non deve necessariamente finire in tragedia. Al contrario, l’Europa sarà in grado di affrontare le sfide per la sicurezza più urgenti solo se abbandona la fantasia di unità continentale e abbraccia il suo pluralismo geopolitico.
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