L'inciviltà (al potere) di "certi politici esteri" e la mancanza di rispetto verso se stessi (il punto sulla sovranità negletta)
di ARTURO (da LUCIANO BARRA CARACCIOLO)
Questo post di Arturo è bellissimo e particolarmente tempestivo.
Bellissimo lo è perché fa magistralmente il punto su una serie di fondamentali questioni (la sovranità, il “vincolo esterno”, le condizioni giuridiche di principio, proprie delle Nazioni Civili, nonché di legalità costituzionale, che consentirebbero di arrestarne la geometrica potenza distruttiva di benessere e democrazia nel nostro paese); e tali questioni costituiscono uno dei filoni fondamentali affrontati su questo blog, ormai, nel corso di anni.
Il post risponde perfettamente alla conseguente necessità di riordinare e riassumere le idee esposte per i “non giuristi”, ormai divenuti “colti”nel senso più sano della parola, in quanto si sono formati su queste pagine; con grande orgoglio da parte mia per aver visto i frutti tangibili di questa crescita, nelle risposte fornite da commentatori e frequentatori del blog.
Tempestivo lo è per una ragione molto attuale e non paradossale; gli “eventi che precipitano”, secondo la traiettoria che si era pre-tracciata in post che risalgono ai primi passi di questo blog, si stanno sviluppando per linee esterne, cioè sul piano internazionale, e “autoctone”, cioè della politica interna (che vanno confrontate con quanto detto nella prima parte del mio intervento a Chianciano, che spero sia presto disponibile in rete).
A una prima impressione, personalmente, devo resistere alla tentazione di cadere nel più profondo sconforto. Una condizione psicologica che porterebbe, nella sua logica “emotiva”, a seri ripensamente sulla stessa utilità di proseguire l’esperienza del blog.
Ma questo sconforto non ce lo possiamo permettere: la linea di giustizia nel diritto che si è tentato qui di sostenere, impone di lasciare che i “semi” della legittimità costituzionale democratica siano ancora da preservare, nella speranza che un giorno possano comunque germogliare (“a futura memoria”, come ho detto più volte).
Perciò, continuare a rendere testimonianza di questa legittimità democratica, mentre si cercherà di “realizzare” razionalmente la portata degli eventi che si stanno dipanando in questi giorni tormentati, rimane sempre un compito che la coerenza con lo Spirito dell’Uomo rende degno di perseguire.
Per capire il fondamentale ruolo che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha svolto e svolge nel processo di integrazione comunitaria, e quindi poter apprezzare la reazione della Corte Costituzionale italiana di fronte ad esso, bisogna necessariamente fare un po’ di passi indietro sia teorici che storici.
- Per prima cosa bisogna tornare sulla definizione giuridica di sovranità: i termini della questione sono stati cristallinamente chiariti in questo importante post sul Brexit che vi consiglio di (ri)leggere.
In termini generalissimi, la sovranità degli Stati ha quindi due aspetti: uno esterno, consistente nell’indipendenza, nel senso di originarietà dell’ordinamento statale; e uno interno, nel senso di supremazia rispetto alle realtà sociali e politiche interne.
- I federalisti tuonano spesso contro “la sovranità assoluta” degli Stati la cui “malefica virtù” ha spinto “qualche cultore di diritto pubblico a compiere una costruzione elegante” («Corriere della Sera», 28 dicembre 1918; lettera a firma Junius, cioè il solito Einaudi).
Ci sentiamo di tranquillizzarli: la realtà della sovranità esterna è esattamente all’opposto di come la immaginano loro: “la sovranità, lungi dall’essere incompatibile con il diritto internazionale, è anzi un concetto – e, se si vuole, un “istituto” – suo proprio. In primo luogo, la sovranità è riconosciuta (o denegata) precisamente da norme internazionali. In secondo luogo, la sovranità è il presupposto per l‘applicabilità di (altre) norme internazionali.
La sovranità, insomma, è non la negazione di ogni obbligo internazionale, ma al contrario il suo necessario presupposto: solo gli stati sovrani sono soggetti ad obblighi internazionali.” (R. Guastini, Lezioni di teoria del diritto e dello Stato, Giappichelli, Torino, 2006, pag. 214).
O anche, come ha detto, a me pare lucidamente, Natalino Irti (Norma e luoghi, Laterza, Roma-Bari, 2001, pag. 96): “La sovranità degli Stati e le decisioni politiche sono tramiti necessari di qualsivoglia assetto internazionale. Il vago e umanitario cosmopolitismo, che nega sovranità e indipendenza degli Stati, non giova né alla cooperazione né alle pacifiche intese. Esso distrugge il reale e storico fondamento dei suoi stessi disegni. Non senza gli Stati, ma solo attraverso gli Stati, e dunque con la mediazione del volere politico, sono perseguibili gli obbiettivi di carattere internazionale.”
2.1. Il vero bersaglio di Einaudi è ovviamente un altro: “Se i parlamenti si sono rapidamente trasformati in camere di registrazione, quella trasformazione, già iniziatasi del resto prima della guerra, fu imposta dalla necessità. Quando le materie soggette a discussione ed a deliberazione hanno carattere internazionale, non possono essere discusse e decise da parlamenti municipali. Sopra agli stati, divenuti piccoli, quasi grandi municipi, ed ai loro organi deliberanti, debbono formarsi, si sono già costituiti idealmente stati più ampi, organi di governo diversi da quelli normali.”
Insomma, il bersaglio della retorica del grande pennello è una certa conformazione dellasovranità interna, già troppo democratica se lasciata ai Parlamenti.
Ovvio che Einaudi non si disturbi a criticare ciò che nemmeno può concepire (nel 1918, poi, figuriamoci), cioè quella specifica conformazione della sovranità interna che è la sovranità democratico-costituzionale volta a realizzare i diritti fondamentali (sociali in primis), ma il significato antidemocratico delle sue argomentazioni è comunque chiaro.
- Antidemocratico perché?
Come giustamente s’è osservato:
“la compressione della sovranità non dipende solo dall’esistenza in sé di un potere generalizzato di interferenza con le prerogative di un certo Stato (cioè un’interferenza che può andare al di là dei settori di competenza UE elencati nei trattati, come lamenta il regno Unito col riferimento alla “Carta dei diritti”, incorporata in un certo modo nel diritto europeo), ma dipende, anche e soprattutto, dal tipo e dal contenuto delle norme sovranazionali che si impongono in virtù della (supposta) prevalenza del diritto europeo.”
D’altra parte, come analizzava lucidamente in un articolo di qualche anno fa (altro consiglio di (ri)lettura) Giancarlo Montedoro: “I fondamentali orientamenti normativi – eguaglianza, relazioni sociali governate da regole legali, libertà generali, rispetto per i diritti umani – anche se spesso non pienamente praticati, restano legati allo stato-nazione.
Paradossalmente, lo stato-nazione funziona anche come barriera sostanziale, nella misura in cui tali orientamenti restano mere finzioni al di fuori dei confini dello stato-nazione.
I diritti umani trovano infatti sostanza solo in quanto codificati come diritti civili entro uno stato-nazione, mentre le relazioni internazionali restano affidate alla dipendenza (coloniale), alla violenza e alla guerra.”
Penso che il ragionamento, già ripetutamente svolto, sia chiaro: la radicale diversità sociologica, e quindi politica, fra rapporti internazionali e rapporti interni allo Stato-nazione rende, almeno per il momento, la preservazioni della sovranità statale esterna requisito non sufficiente ma sicuramente necessario a una conformazione di quella interna ai principi-fini di democrazia sostanziale previsti dalla Costituzione, vale a dire, ripetiamolo ancora una volta, – visto che pare che fuori di qui nessuno ne capisca o ne ricordi il significato-, l’attuazione generalizzata dei diritti fondamentali e in primis quello al lavoro, così da renderne l’esercizio concretamente uguale per tutti realizzando l’uguaglianza sostanziale:
“Il secondo comma dell’art. 3 fa appunto riferimento a limiti di fatto che, nei confronti di un gran numero di soggetti, impediscono la attuazione piena del principio di uguaglianza, e che devono essere eliminati mercè interventi di indole pubblicistica diretti a consentire a ciascuno la partecipazione, in condizioni di parità, a tutte le attività sociali.
Pertanto, se si coordina l’art. 1 con la disposizione citata per ultimo, appare confermata l’opinione che vede nel valore lavoro l’elemento fondamentale dell’ideologia politica informatrice dell’intero assetto statale, e perciò costitutivo del tipo di regime.” (C. Mortati, Il lavoro nella Costituzione, Il diritto del lavoro, 1954, I, pp. 149-212 ora in Scritti, vol. III, Giuffrè, Milano, 1972, pag. 235).
Ma sarà proprio così drammatica questa differenza fra società nazionale e internazionale?
Non bastasse quanto già riportato, sentiamo anche un economista (il solito, ma non è mai troppo, Caffè: Cooperazione economica o vassallaggio?, “Il Messaggero”, 7 novembre 1977 ora in Contro gli incappucciati della finanza, a cura di G. Amari, Lit Edizioni, Roma, 2013, s.p):
“È bene premettere, a scanso di equivoci, che una cooperazione economica come quella che si manifesta nel «Comecon», l’associazione tra i Paesi dell’Est europeo e l’Unione Sovietica, non può incontrare l’approvazione di chi ritenga che la cooperazione costituisca qualcosa che vale soltanto se implichi fondamentale uguaglianza tra le parti e non rapporti di sudditanza. Del resto, l’esplicita insofferenza che è stata manifestata in varie occasioni da alcuni membri del «Comecon» sta a indicare che i rapporti di sudditanza possono essere subìti, ma non graditi.
Ciò detto, sarebbe soltanto un voler autoilludersi se si pensasse che le forme di collaborazione esistenti tra i Paesi a economia più o meno di mercato non comportinorapporti di dominazione, assoggettamento a posizioni egemoniche, tendenze involutive miranti a trasformare una ideale cooperazione tra uguali in un concreto assoggettamento a regole imposte, talvolta con pesante brutalità, da un ristretto direttorio di potenti.
[…]
Malgrado ciò, una economia di mercato in vario modo imputridita può essere considerata preferibile a una pianificazione centrale burocratizzata. Ma si tratta, allora, della scelta di un male minore, che non giustifica in alcun modo una idealizzazione mistificatoria della «economia di mercato», come se ciò che essa è nella realtà coincidesse con le astrazioni dei libri di testo. Né la scelta di un simile sistema, qualora sia posta come una «scelta di civiltà», significa necessariamente l’accettazione della inciviltà di personaggi politici esteri che, ospiti del nostro Paese, distribuiscono elogi e rimproveri,invitano a filar dritto se si desiderano investimenti di capitalisti stranieri e, in un momento in cui era in discussione la possibilità di un qualificato rilancio economico nel nostro Paese, intervengono con pesante rudezza per dire che questo rilancio non si ha da fare. Questo, in tema di ricordi, può rievocare la «cupidigia del servilismo», non alimentare uno spirito di cooperazione.
In sostanza, sia il «mercato», sia la «cooperazione internazionale» non sono cose la cui connaturale bontà debba darsi per scontata. La loro validità va verificata nell’esperienza quotidiana e dando peso adeguato alle vicende storiche.”
Valutate voi se, da ultime, le vicende greche e italiane confermano o meno le considerazioni di Caffè e Montedoro.
3.1. E non è davvero che i trattati di libero scambio meritino una considerazione più benevola, anzi! A conforto di quel che è già stato spiegato più volte, vi riporto questo giudizio, ancora lui, di Caffè (E’ consentito parlare di protezionismo economico? “L’astrolabio”, XV, n. 12 (28 giugno 1977) ora in La solitudine del riformista, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, pag. 238 e ss.):
“Non si riesce a comprendere perché lo stesso senso di pudore e di autocontrollo non debba essere avvertito da coloro che evocano la «follia autarchica», di fronte a ogni modesta proposta ispirata al fatto che, da che mondo è mondo, le politiche commerciali sono state informate a un dosaggio, non sempre raffinato ma reale, tra protezionismo e liberismo. La mancanza di rispetto verso se stessi, più che verso gli altri, da parte di coloro che con tanta stravaganza stabiliscono l’identità tra protezionismo e autarchia è rafforzata dal fatto che essi, di certo, non ignorano in quanti modi subdoli il protezionismo sia praticato proprio dai paesi che occupano posizioni di egemonia sul piano mondiale.”
Vi riporto anche una fonte poco frequentata, le “lucide considerazioni” (così secondo Caffè) formulate “a caldo”, quindi senza senno di poi, da Marco Fanno (Note in margine al trattato del Mercato Comune Europeo, apparso in II Mercato Comune (Problemi attuali di Scienza e di Cultura, Quaderno n° 44), Roma, 1958 ora in L’Europa e gli economisti italiani, a cura di Gabriella Gioli, Franco Angeli, Milano, 1997, pag. 187):
“Riassumendo queste indagini preliminari possiamo quindi concludere che la creazione del Mercato Comune:
1) è bensì destinata a modificare la distribuzione delle varie produzioni tra i paesi partecipanti nel senso di una maggiore specializzazione e a modificare l’ampiezza delle zone di smercio delle loro industrie, ma tutto questo in misura minore di quella della soluzione ottima, che si compendia nello slogan di un Mercato Comune di 160 milioni di consumatori; e precisamente in misura tanto minore quanto minore è il grado di complementarietà delle economie dei paesi partecipanti;
2) che essa è pertanto destinata a recare alla Comunità globalmente considerata benefici minori di quelli della soluzione ottima, e anche questi tanto minori quanto minore è cotesto grado di complementarietà;
3) che perché essa risulti in definitiva vantaggiosa a tutti i paesi partecipanti è necessario, qualora alcuni di questi sieno prevalentemente industriali ed altri prevalentemente agricoli, che la redistribuzione intemazionale delle produzioni da essa promossa si fermi al di qua del limite al quale i paesi meno industrializzati comincerebbero a deindustrializzarsi.”
Insomma, qualsiasi “apertura” al diritto internazionale, e il diritto comunitario è e resta diritto internazionale (affermazione che mi riservo di argomentare più avanti), dev’essere considerata con estrema cautela e ne dovrebbe essere puntualmente verificata la compatibilità con i compiti di attuazione dei diritti fondamentali che lo Stato è costituzionalmente obbligato a perseguire.
- Si può intuire che lo Stato ha potuto svolgere quella funzione di “barriera sostanziale”, come la chiama Montedoro, perché è esistita, e ancora esiste, una soluzione di continuità giuridica fra diritto internazionale e diritto statale. E’ proprio questa barriera che il diritto comunitario pretende di aver superato.
Si parla a questo proposito di superamento del dualismo del diritto internazionale.
Occorre fare molta attenzione perché di dualismo si può parlare in due sensi: dal punto di vista del diritto internazionale; dal punto di vista del diritto costituzionale.
4.1. Il diritto internazionale è dualista nel senso che “le norme interne sono prive di rilevanza per il diritto internazionale: esse sono, dal punto di vista del diritto internazionale, meri “fatti”. La sola conseguenza, che il diritto internazionale prevede per il caso della emanazione o promulgazione di norme interne incompatibili, è la responsabilità internazionale dello Stato interessato: non mai l’abrogazione o l’invalidità delle norme in questione.” (Guastini, op. cit., pag. 202).
Quando lo stesso fenomeno è osservato dall’interno degli Stati si parla di “impenetrabilità” dell’ordinamento Statale da parte dell’ordinamento internazionale (e di qualsiasi altro ordinamento).
Lo spiega con la consueta chiarezza Crisafulli: “Ma siffatta soggezione alle norme [del diritto internazionale] non menoma l’indipendenza degli Stati, quanto al rispettivo ordinamento interno, giacché i limiti che essi incontrano nell’ordinamento internazionalenon producono effetti all’interno se non per libera determinazione degli Stati medesimi. È ben vero quanto osserva il Kelsen, che, cioè, nell’ordinamento internazionale, “uno Stato può esser vincolato contro la propria volontà”; ma è anche vero che, nel diritto interno,tutto dipenderà poi dalle scelte politiche operate dall’autorità statale, vale a dire – salvo che sia diversamente disposto dal diritto statale – atti contrastanti con gli obblighi internazionali saranno egualmente validi, oltre che efficaci, sebbene, dal punto di vista del diritto internazionale, possano integrare un “comportamento illecito” dello Stato”. (V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, I, CEDAM, Padova, 1970, pag. 66).
4.2. Credo a questo punto si intuisca anche che cos’è il dualismo, oppure il monismo, in diritto costituzionale: è appunto il contenuto di quella “libera determinazione degli Stati medesimi” circa l’efficacia interna delle norme internazionali, fissato nelle rispettive Costituzioni.
Ovvero (Guastini, op. cit., pagg. 198 e ss.): “È “dualistica” ogni costituzione per la quale: (a) solo il diritto interno è applicabile, mentre (b) le norme internazionali – consuetudinarie e convenzionali – non sono applicabili se non quando siano state recepite mediante atti normativi interni.”
“È “monistica” ogni costituzione per la quale le norme internazionali – tutte: consuetudinarie e convenzionali – sono direttamente applicabili, al pari del diritto interno.”
“Sono “miste” quelle costituzioni che combinano una norma monistica per ciò che concerne il diritto internazionale generale consuetudinario con una norma dualistica per ciò che concerne il diritto internazionale convenzionale, o viceversa (ma il primo caso è assai più frequente).”
Chiariamo con riferimento alla nostra Costituzione: le consuetudini internazionali obbligano lo Stato nell’ordinamento internazionale che egli lo voglia oppure no, ma sono immediatamente efficaci nell’ordinamento italiano solo in forza del rinvio contenuto nell’art. 10 della Costituzione, da un lato (e quindi rispetto alle consuetudini internazionali la nostra Costituzione è monista); ma nei limiti contenutistici della loro compatibilità con i fini supremi dell’ordinamento italiano, stabiliti dalla stessa Costituzione, dall’altro. La sentenza n. 238 del 23 ottobre 2014 di cui si è più volte parlato riguardava proprio l’art. 10 (anche, se significativamente, estendeva apertamente il principio così riaffermato anche nei riguardi del diritto europeo che, pure, non era direttamente coinvolto nel caso risolto dalla Corte).
E’ quindi prima di tutto la Costituzione di ogni paese il filtro attraverso cui passa (o non passa) l’efficacia interna delle norme internazionali. (Chiaramente anche altre fonti, come la legge, possono introdurre negli ordinamenti statali norme internazionali…nel rispetto delle Costituzioni, e, dunque, in concreto, sempre sul presupposto del rispetto delle “competenze” delle varie fonti normative, a disciplinare certi contenuti e materie, stabilite dal sistema costituzionale delle “fonti” stesse).
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea sostiene che, nei rapporti col diritto comunitario, questo filtro per i paesi membri dell’Unione non esiste e quindi qualsiasi norma comunitaria suscettibile di essere efficace sulla base delle regole comunitarie, sia pure nei limiti delle competenze formali e materiali dei Trattati – il cui rispetto sarà però sempre e solo la stessa Corte Europea a valutare-, lo sarà ipso facto anche all’interno degli ordinamenti statali e dovrà essere applicata dai giudici interni a preferenza di qualsiasi norma statale, anche di livello costituzionale, con essa contrastante: è questo il modo in cui opera tecnicamente quello che Lordon chiama “diritto internazionale privatizzato” in Europa (qui p. 8), e che del tutto logicamente viene indicato come modello globale da quegli autori che auspicano un’attuazione del diritto internazionale in grado di garantire “diritti di pace, sicurezza e vantaggi economici direttamente agli individui” (pag. 1697). Insomma, il fogno.
Come e perché la Corte abbia avanzato queste straordinarie affermazioni, quale ne sia la plausibilità e la reazione degli Stati di fronte ad esse sarà oggetto delle prossime puntate.
fonte: http://orizzonte48.blogspot.it/2016/09/lincivilta-al-potere-di-certi-politici.html
Commenti recenti