Il contributo dei patrioti Arbëresh al Risorgimento (2a parte)
di GIUSEPPE FERRARI (storico e teologo)
Nel primo parlamento partenopeo siedono vari deputati albanesi, tra i quali Domenico Mauro e Muzio Pace. Con questi partirono alla volta di Napoli un bel nucleo di loro amici di fiducia, una specie di guardia del corpo. Nella famosa rivolta della Capitale erano più d’uno i nuclei albanesi di agitazione. Famoso si rese un prete albanese di Plataci: Angelo Basile, autore della tragedia Ines de Castro, composta in albanese quindi tradotta e pubblicata in italiano. Era il più implacabile. A capo d’una lunga fila di studenti armati di bastoni, seguiti da gran folla, vestito da prete greco con il caratteristico copricapo, girava per la città portando una bandiera tricolore e costringendo gli avversari a salutarla sotto la minaccia dei bastoni.
Non nutrendo più alcuna fiducia nella guardia nazionale, si moltiplicavano, in ogni città e villaggio, le sette segrete della Giovane Italia, dette anche «chiese». Celeberrima la loggia di Lungro, diretta da uomini dalla tempra di acciaio come Damis e Vincenzo Stratigò. A questa loggia, o a quella di S. Demetrio Corone, prendevano parte moltissimi del clero italo-albanese e quasi tutte le famiglie di rilievo dei vari villaggi. In quegli anni ancora, ogni villaggio albanese contava da dieci a quindici, fino a venti e più sacerdoti, quasi tutti legittimamente coniugati, giusto costume dei Greci, sempre da noi in vigore. Ottimi padri di famiglia, tutti educati nel collegio Corsini in S. Demetrio Corone, in quegli anni vero faro di cultura, essi si presentavano alle masse con prestigio enorme, derivante dalla loro integrità morale e dalle loro capacità intellettuali. Il movimento voleva essere un atto di protesta contro il baronismo, contro i soprusi dei potenti, contro il malgoverno dei Borboni.
Ribellarsi ai potenti, tener fronte ai prepotenti, è un vecchio istinto degli Albanesi, un’antichissima tradizione al cui fascino irresistibile nessuno sa sottrarsi. Questo il clero, che fu per molti secoli unica guida del popolo, doveva ben sapere e, certo, cercava di inculcare e di fomentare con ogni mezzo, per sopravvivere, avendo sperimentato che i villaggi erano circondati da nemici che miravano al loro annientamento, ammantati, assai spesso, di zelo religioso.
Il 17 maggio a Cosenza si istituisce il comitato di salute pubblica. Lo stesso avviene a Castrovillari, sempre sotto la presidenza di Muzio Pace. Per tutelare l’ordine pubblico, scendono qui, dai villaggi circonvicini, 500 Albanesi che si schierano nel Corso. Il 2 giugno giunse a Cosenza il conte Giuseppe Ricciardi. Fuggito da Napoli, si era rifugiato a Malta; da qui passò in Sicilia, dove prese contatto con quel comitato e dalla Sicilia venne a Cosenza. Con lui si inaugura un governo provvisorio. La Calabria era così tutta in rivolta. A Castrovillari, il 5 giugno, si volle celebrare le vittime del 15 maggio, nella chiesa della Madonna del Castello. Giungeva intanto notizia che il generale Busacca [genrale borbonico, ndr], con 2500 uomini, era sbarcato a Sapri. A Spezzano Albanese giungevano intanto, il 14 giugno, varie forze comandate da Domenico Mauro. Di lì, passando per Firmo e Lungro -tutti paesi albanesi -rinforzati via via, raggiunsero le alture di Campotenese, ove il 17 avevano già occupato tutta la zona. Si trattava di oltre 3000 uomini, quasi tutti albanesi. Il circondario di Castrovillari era comandato dal Pace; Spezzano Albanese da Vincenzo Luci; Lungro, Firmo, Acquaformosa dal Damis; San Rasile dal Bellizzi; S. Sofia d’Epiro da Luigi Raffa; S. Demetrio Corone e Macchia dal sacerdote albanese Antonio Marchianò, vice-presidente del collegio Corsini, che, per la circostanza, aveva chiuso, portandosi volontari appresso tutti gli alunni. Non mancavano all’appello gli albanesi della Lucania, al comando di Vincenzo Smilari.
Il Busacca, a Castrovillari, accerchiato in questa maniera, non si trovava certo in posizione comoda. Accorgendosi inoltre che i due campi di Spezzano e di Campotenese ogni giorno più si rinforzavano, ruppe ogni indugio e segretamente si mosse verso Spezzano Albanese. Giunse ai piedi della collina quando i volontari, presi dalla stanchezza, dormivano. Provvidero le donne del paese albanese a svegliarli in fretta, correndo a bussare di uscio in uscio, ove erano ospitati. Giunti nella cittadina, il 22 giugno, furono accolti in modo del tutto inaspettato. Si attaccò una feroce battaglia nella quale il primo urto fu sostenuto dalle donne albanesi, che si gettarono sul nemico con gli spiedi e i coltelli da cucina, mentre gli stessi bambini colpivano duramente con una fitta sassaiuola. Vi furono morti sia tra le donne e i bambini che tra le file del Busacca.
Il 30 i due fronti si scontrarono in una lotta assolutamente impari, che diede luogo ad una feroce battaglia. Gli albanesi di Mauro, senza vettovaglie, senza munizioni, si slanciarono come leoni, credendosi abbandonati e traditi, in un memorando corpo a corpo, scrivendo col sangue una vera pagina di gloria. Passarono il fiume è non si ritirarono che a notte inoltrata. Ma erano gli ultimi sprazzi di una luce che si spegneva. I morti furono molti. Cadeva da prode Agesilao Mosciari e altri dei migliori. Una piccola pattuglia di Albanesi, guidati da due sacerdoti, Vincenzo Mauro (il fratello di Domenico), Domenico Chiodi, entrambi da San Demetrio e Francesco Maria Tocci da S. Cosmo, si erano inoltrati nel campo del Lanza, decisi a ucciderlo. Ma nella mischia essi rimasero feriti e furon fatti prigionieri. Invitati a gridare «viva il re», rifiutavano, gridando invece «viva l’Italia». Dopo molte sevizie, che durarono alcune ore, furono barbaramente trucidati.
Il 13 novembre Ferdinando II nuovamente convocava i comizi elettorali. In questo Parlamento vi erano quaranta albanesi dei 169 deputati. Contemporaneamente ebbe inizio una fiera persecuzione contro i rivoltosi e i processi politici furono senza fine. Le prigioni riboccarono di detenuti. Circa tremila albanesi furono arrestati in quei giorni. Troppo noto è l’episodio di Agesilao Milano. Nativo di S. Benedetto Ullano, ove tuttora vive la famiglia, Agesilao fu educato, lui pure, nel collegio italo-albanese, come gli altri grandi patrioti dell’epoca, alunno di Mons. Bellusci. Di carattere chiuso, amico intimo di Atanasio Dramis da S. Giorgio Albanese, suo coetaneo e compagno di studi, erano visti assai spesso insieme; in quell’ambiente ove non si parlava che dell’unità della Patria e ognuno era spinto all’emulazione dell’altro, per compiere qualche gesto eroico, i due amici pensarono di uccidere il re Ferdinando. Forse si trattò allora soltanto di una idea, venuta su in quell’età giovanile. Ma venne una circostanza a dare corpo all’idea.
Tra i numerosissimi albanesi sospettati di attività antiborboniche, vi era anche il padre di Agesilao Milano e contro di lui fu spiccato mandato di cattura. La polizia, recatasi in casa per arrestarlo, lo trovò a letto con febbre altissima. A nulla valsero tutte le suppliche dei famigliari, perché si attendesse la guarigione per toglierlo di casa. Gli ordini erano tassativi e c’era niente da fare. In mezzo a violenze d’ogni sorta, l’ammalato fu strappato di casa per esser condotto in carcere. Ma lo sventurato morì appena giunto al corpo di polizia. E’ facile immaginare lo stato d’animo del figlio Agesilao. Le idee eroiche della sua giovinezza gli si presentano sotto nuova veste. All’odio mortale che aveva covato in collegio contro il Borbone, adesso si unisce un vivo desiderio di vendetta per la morte del padre.
Nonostante i rigori della legge e la condanna della Religione, sia Cattolica che Ortodossa, gli Albanesi hanno sempre mantenuta, da millenni, la consuetudine della vendetta, considerandolo azione da prodi. Al contrario il non vendicarsi è considerato atto vile, che disonora l’uomo. I due giovani amici Agesilao e Attanasio Dramis fecero pertanto giuramento di eliminare il tiranno. Per raggiungere lo scopo si arruolarono come soldati al posto dei rispettivi fratelli che, proprio in quell’anno, erano entrambi di leva. L ‘intendenza di Cosenza non ebbe difficoltà a concedere il cambio, per niente insospettito del progetto. Il Dramis fu assegnato a Salerno, mentre il Milano rimase a Napoli nel corpo dei cacciatori. Così l’8 dicembre 1856, mentre il re Ferdinando passava in rassegna le truppe al campo di Capodichino, il Milano gli si presentò fingendo di consegnargli una supplica e, nello stesso tempo, gli si avventò contro con tre colpi di baionetta, di cui però uno solo raggiunse il re alla coscia, portando egli sotto gli abiti la corazza, ciò che Agesilao non aveva previsto. Avrebbe continuato a vibrargli altri colpi se il tenente colonnello La Tour non l’avesse impedito, saltandogli adosso con il cavallo. L’eroico giovane albanese sarebbe stato lì per lì ucciso se il re Ferdinando non avesse dato ordine di non farlo. Non certamente per generosità, ma solo perché l’astuto e vile tiranno voleva da lui prima conoscere i suoi complici. Ma di complici non vi era l’ombra. Dopo alcuni giorni di inutili torture, condannato alla pena capitale, Agesilao Milano fu impiccato il 13 dicembre 1856, dando anche sul patibolo esempio di raro coraggio e dopo aver ricevuto tutti i conforti religiosi dal sacerdote greco residente in Napoli. Sembra che la paura e il colpo ricevuto alla coscia fossero stati la rovina di Ferdinando, da condurlo dopo qualche tempo alla tomba.
Come giudicare il gesto di Agesilao Milano? Evidentemente il primo suo movente fu quello patriottico: liberare l’Italia da un tiranno e raggiungere l’unità della Patria. Come tale pertanto va giudicato ed egli trova posto tra gli eroi della Patria. In Italia gli Albanesi si considerarono ospiti, almeno fino all’unità nazionale, e, come tali, si credettero un nucleo a sé, sottoposti alle proprie leggi. Questa loro mentalità fu da essi considerata tanto più valida quanto più l’accoglienza dei baroni e dei vescovi era stata pessima.
Con l’arresto di Agesilao Milano furono arrestati a Napoli tutti gli albanesi, per qualsiasi ragione si fossero trovati in quella città. Quanto agli albanesi arruolati nell’esercito, si ordinò che fossero tutti spediti in Sicilia, mettendone uno in ciascuna compagnia e mai due insieme. Le persecuzioni si moltiplicavano ogni giorno. Il governo affrontò in varie sedute “l’affare degli albanesi” e, per qualche giorno, era prevalsa l’opinione di costringere tutti gli abitanti dei villaggi a ripassare l’ Adriatico. Ma l’ipotesi dovette ben presto essere scartata, non solo perché troppo ridicola, ma perché la corte di Napoli ci teneva a far sapere all’Europa che, nel proprio regno, tutto filava placido come l’olio. Si pensò allora ad un qualche provvedimento contro il collegio Corsini, considerato, ora più che mai, “fucina del diavolo” e “semenzaio di ribelli”, come veniva comunemente chiamato. E si decise la chiusura. Ma a questa decisione fece viva opposizione la S. Sede. Il collegio era infatti di diritto pontificio e andava rispettato. Si ripiegò allora sulla scelta dei dirigenti dell’istituto; nessun membro del clero albanese della Calabria avrebbe più ricoperto cariche direttive.
Nel 1859 si fecero collette in tutti i villaggi albanesi e le somme raccolte furono consegnate all’ambasciatore del Piemonte a Napoli. I giornali dell’alta Italia si diffondevano sempre più; i comitati si moltiplicavano e si riorganizzavano meglio. Lo spirito pubblico si rianimò; si sentiva aria di primavera. Damis, Luci, Pace, Stratigò e altri premevano che si svolgesse qualche azione. L’insurrezione era ormai nell’animo di tutti i villaggi. Si attendeva il segnale e questo venne l’11 maggio, con lo sbarco di Garibaldi a Marsala. Tra i Mille figurano vari albanesi. Oltre al Crispi, Damis, Raffaele e Domenico Mauro. Quando l’eroe nazionale pose piede in Calabria, l’entusiasmo fu indescrivibile. A Cosenza corsero due legioni di albanesi, guidate dal Sarri e dal Pace e con essi una folla variopinta da tutti i paesi, per accogliere il dittatore, che giungeva il 1° settembre. Da Cosenza, il 2 settembre, si recò a Castrovillari, passando tra fitte ali di albanesi, che lo acclamavano. Qui nominò governatore Muzio Pace e a tutti raccomandò moderazione e concordia.
L’esercito garibaldino s’ingrossò molto attraversando questa larga fascia di villaggi alloglotti. Il colonnello Pace, il Sarri, lo Stratigò con i loro soldati (lo Stratigò ne aveva 500 dalla sola Lungro) seguirono Garibaldi e il 13 settembre fecero il loro ingresso in Napoli, sotto una pioggia di fiori. Lo stesso eroe si affacciò dal palazzo d’Angri per salutarli. L’1 e il 2 ottobre presero parte alla battaglia del Volturno comandati da Damis, compiendo prodigi di valore. Fu allora che Garibaldi, pieno di ammirazione, voltosi al condottiere albanese esclamò: «Damis, questi tuoi albanesi sono leoni!». Al Parlamento italiano, tra gli albanesi sedettero Crispi, Mauro, l’eminente finanziere Federico Seismet Doda, Giovanni Mosciaro, Giuseppe Pace, Vincenzo Pace, Domenico Damis, Raffaele Majerà, Guglielmo Tocci. Il primo Ministero italiano ebbe tre ministri albanesi: il Crispi, il Giura e lo Scura; quest’ultimo con il portafoglio di grazia e giustizia e dei culti.
Il 20 ottobre, da Caserta, Garibaldi emanava un decreto, con cui provvedeva al collegio Orsini. In esso è detto: «Il Dittatore dell’Italia meridionale in considerazione dei segnalati servizi resi alla causa nazionale dai prodi e generosi albanesi, decreta: cessati i bisogni della guerra e costituita l’Italia con Vittorio Emanuele dovrà il tesoro di Napoli somministrare immediatamente la somma di 12 mila ducati per l’ingrandimento del collegio italo-greco di S. Adriano. Ilo pongo sotto la garanzia della Nazione e del suo magnanimo Sovrano la esecuzione di giustizia del presente decreto. (f.to: Giuseppe Garibaldi)».
[fine]
[“Rassegna di studi albanesi”, novembre-dicembre 1960, n. 1]
Qui la prima parte dell’articolo
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