Il declino italiano: un'ipotesi di lavoro a partire da Cesaratto
di SIMONE GARILLI (FSI Lombardia)
Perché la nostra produttività ristagna da lungo tempo? Dov’è l’origine del nostro declino? È davvero tutta colpa dell’euro? A queste domande di un ipotetico studente, Sergio Cesaratto risponde nel suo ottimo manuale di economia. La risposta è articolata, ed è bene scomporla commentandola insieme pezzo per pezzo.
“Per l’Italia ciascuno di noi avrà la sua lista preferita di cause, fra le quali il difettoso carattere nazionale sarà probabilmente in testa […] ma questa linea di ragionamento ci porterebbe in terreni troppo lontani e malfermi; vale piuttosto la pena tracciare un’ipotesi interpretativa più concreta, anche se a questo stadio non è più di un’ipotesi di lavoro. L’ipotesi è che il Paese abbia cercato di sedare il conflitto sociale, la cui manifestazione è stata un tasso di inflazione relativamente più elevato dei concorrenti e una finanza pubblica malgovernata, attraverso un vincolo estero più stretto. Questo accade dapprima con lo SME, una volta che adottare certe misure vincolistiche non sembrò più “atto sedizioso”, e poi con l’euro […]“[1].
L’ipotesi di lavoro, quindi, è ambiziosa: non il debito pubblico, non l’incapacità della classe dirigente e l’insufficiente apertura al mercato mondiale, ma proprio l’adesione acritica alle logiche e alle norme di questo stesso mercato sono all’origine della decadenza italiana, in particolare a partire dalla fine degli anni Settanta. Nel 1979 infatti l’Italia aderisce al Sistema Monetario Europeo (SME), legando il tasso di cambio della lira a quello delle principali valute europee, con limitate possibilità di oscillazione rispetto ai rapporti di cambio prefissati. Questa decisione politica provoca l’ultimo sussulto del PCI, già normalizzato dal “compromesso storico”, come sostiene a più riprese Cesaratto. L’adesione allo SME segue anni di inflazione in doppia cifra, e risponde in effetti proprio alla necessità politica di ridurre e stabilizzare l’inflazione. Secondo la vulgata eterodossa l’inflazione, di per sé, non è un male, e lo stesso Cesaratto accenna nel suo testo al “tiro alla fune” dell’economista americano Albert Hirschman: se l’inflazione corre è perché, in un modo o nell’altro, i lavoratori stanno giocando la loro partita contro il capitale privato, che tende all’estrazione del maggiore plusvalore possibile. Un alto tasso di inflazione deriva dal tentativo dei capitalisti di proteggere il tasso di profitto dall’erosione provocata dall’aumento dei salari nominali. L’inflazione, inoltre, è l’incubo del creditore, che in generale corrisponde al capitalista, non al lavoratore. Due ottimi motivi, dal punto di vista del capitale privato, per disinflazionare l’economia.
Il florido tasso di inflazione, quindi, è il segnale di un conflitto sociale che in Italia risulta essere particolarmente acuto per tutti gli anni Sessanta e che raggiunge il suo apice nel 1969 e negli anni successivi, fino a quando i sindacati riprendono il controllo del movimento operaio e lo indirizzano sulla strada di un riformismo via via meno conflittuale. Le due crisi petrolifere mondiali (1973 e 1979) esasperano il tiro alla fune e convincono la grande borghesia nazionale a interrompere la ricreazione, passando al contrattacco. Ma la spiegazione inflazionistica dello SME non soddisfa del tutto. Il punto non sta solo nei salari nominali e nella crisi petrolifera, se è vero che con la “scala mobile” e la manipolazione del cambio la politica poteva reagire agli shock interni (salari) ed esterni (aumento del prezzo delle materie prime) garantendo alti salari e alti profitti. La ragione della controrivoluzione borghese, semmai, sta nella natura di quel conflitto, che non produceva solo aumenti salariali (nominali e reali), ma anche progressi della classe lavoratrice sul come, sul quanto e sul cosa produrre. Cesaratto cita, a proposito, le conquiste della FLM, la federazione unitaria dei metalmeccanici che arrivò a chiedere, nel 1975, il controllo sindacale sugli investimenti industriali.
Dalla natura sovversiva di questo conflitto deriva quindi la decisione di rinforzare il vincolo estero (che in certa misura è ineliminabile, se è vero che qualsiasi Stato nazionale si può definire tale perché deve rapportarsi con altri Stati nazionali di diversa struttura, potenzialità e risorse); lo SME cala come una ghigliottina sulla fune di Hirschman e costringe le rappresentanze politiche e sindacali dei lavoratori ad abbassare la cresta anche sulla qualità del lavoro e della produzione, pena un maggior indebitamento estero e maggiori oneri finanziari sul debito pubblico contratto con gli investitori stranieri. Lo SME, come l’euro vent’anni dopo, lungi dall’esser stato un errore tecnico, va altresì interpretato storicamente come un preciso e ragionato “metodo di governo” del conflitto sociale.
Il punto politico, però, sta tutto in una domanda: perché la classe borghese ha avuto la forza di imporre lo SME disinteressandosi delle proteste formali del Partito Comunista?
Cesaratto parla, in questo senso, di “occasione persa” da parte del Partito Comunista e di tutte le forze progressiste (dal Psi alla corrente sociale della Democrazia Cristiana). Negli anni Sessanta, infatti:
“[…] le minacce di golpe di cui si sentì per la prima volta parlare e che rimasero a lungo una spada di Damocle sulla democrazia italiana, pose[ro] fine a queste velleità riformiste […] Il centro-sinistra di limitò ad assecondare la ripresa di un modello di crescita largamente disordinato, mentre la programmazione economica, l’idea di guidare lo sviluppo, si trasformò nel famoso libro dei sogni. Si sviluppò piuttosto la gara tra Dc e Psi nell’occupare centri di potere, corrompendo quel motore di modernizzazione industriale che furono le Partecipazioni statali , le imprese pubbliche industriali e bancarie sino ad allora guidate da lungimiranti commis d’Etat“[2].
Ecco allora che al conflitto sociale si andò incontro:
“[…] cercando di accontentare un po’ tutti, fra l’altro aumentando la spesa, ma non le imposte. Lo SME e il divorzio Tesoro-Banca d’Italia fecero, in questa situazione, da detonatore del debito pubblico. La perdita di competitività esterna dovuta al differenziale inflazionistico significò un minore sostegno alla crescita da parte delle esportazioni mentre, a parità di domanda aggregata, una maggiore quota di domanda cominciava a rivolgersi a prodotti stranieri. Una medesima domanda aggregata generava meno prodotto nazionale e dunque, a parità di spesa pubblica, minori entrate per fiscali per lo Stato. L’aggravio dei conti pubblici fu accentuato dagli alti tassi di interesse volti ad attirare capitali esteri […]“[3].
Il giudizio di Cesaratto sul PCI (post)berlingueriano è, in questo senso, impietoso:
“Nei governi di unità nazionale con la DC, il Pci cercò la strada di alcune riforme economiche, in particolare nella politica industriale cercando di imporre politiche di indirizzo strategico (la Legge 675/1977), misure destinate a cadere presto nel dimenticatoio“[4].
Si arriva, così, all’ultimo inutile sussulto comunista del 1979, quando il terreno culturale e politico dello SME era già ampiamente fertile, complice anche un ingenuo europeismo e lo sdoganamento del concetto sinistro di “austerità” da parte dello stesso Enrico Berlinguer (“un irritante moralismo verso il benessere delle masse”, lo definisce Cesaratto).
Ciò che interessa, è che da un’analisi storica e tecnica di questo tipo emerge, con le parole di Cesaratto,
“[…] un importante e relativamente inesplorato nesso causativo che va dalla ricerca di una disciplina importata alla crescita del debito pubblico (e non viceversa come nella narrazione mainstream). Il Paese entra dunque dagli anni Ottanta nell’ossessione di arrestare il peggioramento delle finanze pubbliche, che è visto come causa degli squilibri esterni, quando non anche del differenziale inflazionistico. Si inverte così il nesso causativo: invece di attribuire la crescita del debito pubblico ed estero a un auto-imposto vincolo estero (sotto forma di cambi fissi), si attribuisce ogni responsabilità al bilancio pubblico. Le misure di aggiustamento fiscale, oltre che la perdita di competitività esterna, non possono non aver nuociuto alla domanda aggregata e all’andamento della produttività. Mentre gli economisti tradizionali vedono la produttività dipendere da fattori dell’offerta – flessibilità dei mercati, efficienza dello Stato e, quando va bene, da politiche di formazione e ricerca – per noi eterodossi la produttività è un fattore assai più relativo alla domanda […]“[5].
Peraltro:
“Gli effetti di un vincolo estero autoimposto hanno finito per incidere anche sul “lato dell’offerta”, non solo su quello della domanda. Ogni esito viene dunque da cause molteplici che si alimentano a vicenda. E sulla competitività ha inciso anche la comparsa di nuovi concorrenti asiatici; così come sulla produttività la contrazione del settore più moderno a favore del terziario, oltre che il mancato stimolo alla modernizzazione delle tecnologie dovuta alla disponibilità di mano d’opera a buon mercato, in seguito sia delle riforme del mercato del lavoro che del massiccio ingresso di forza lavoro immigrata. Enfin è arrivato l’euro […]“[6].
In estrema sintesi:
“[…] il Paese paga dei vincoli esterni che si è autoimposto, in nome di una disciplina interna che non è riuscita a realizzare con un compromesso politico che vedesse la giustizia sociale al suo centro“[7].
Il punto, come dice Cesaratto, è il nesso causativo. La finanza pubblica è insostenibile nella misura in cui le mutilazioni semi volontarie della nostra sovranità economica e politica la rendono tale. Sono i cambi fissi e la progressiva liberalizzazione dei movimenti di capitale a causare il raddoppio del debito pubblico sul Pil tra 1979 e 1993, dal 60% al 120%. Per quanto riguarda il “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia, nel 1981, si tratta più che altro di una misura preventiva, che sarà poi messa in pratica solo negli anni ’90. L’esplosione del debito è guidata dai cambi fissi, dal successivo disavanzo di partite correnti e, infine, dalla necessità di pareggiare la bilancia dei pagamenti via debito estero, costoso non solo per la sfiducia nei titoli italiani (sfiducia però causata dal vincolo estero autoimposto!), ma anche per le politiche deflattive che dal Volcker shock del 1980 si sono propagate in Europa (proprio a causa dei cambi fissi dello SME!, altrimenti potevano essere quantomeno gestite con il tasso di cambio).
L’ipotesi di lavoro di Cesaratto sul declino italiano, accompagnata dalle precisazioni proposte in questa sede, andrà di certo approfondita “scientificamente”, ma il dato politico sembra al riparo da ribaltoni: è il vincolo estero il problema strutturale dello Stato nazione italiano, e il motivo per cui da quarant’anni la Carta del 1948 è non solo disapplicata, ma anche negata e avversata dal punto di vista ideologico. Vincolo estero che a sua volta deriva, come ogni ‘evento’ politico epocale, dal conflitto sociale nazionale e dalle gerarchie internazionali, queste ultime lasciate sullo sfondo in questa sede (come d’altronde ha deciso di fare Cesaratto, ed è forse questo l’unico neo del suo eccellente manuale, dove si cita spesso e volentieri il mercantilismo tedesco ma mai o quasi l’imperialismo americano).
C’erano alternative?
Evidentemente sì. Il peccato originale, se vogliamo chiamarlo così (”lotta di classe” sarebbe più rigoroso) sta nel rifiuto della grande borghesia nazionale di raggiungere un compromesso sociale di alto livello con i lavoratori. Che è poi, in Italia, nient’altro che il compromesso nobilissimo della Costituzione del 1948. L’aver rinunciato, prima o dopo, alla Costituzione, è però responsabilità ancor più delle forze non liberali, dal PCI ai gruppi e gruppetti extraparlamentari, chi perché insoddisfatto di un orizzonte ‘solo’ riformista, chi perché, ormai spaventato da qualsiasi ipotesi classista e ideologicamente avverso al pluriclassismo, ha preferito un interclassismo di fatto che includesse anche forze per definizione esterne al recinto costituzionale (il grande capitale industriale privato, per sua natura proiettato oltre i confini e i vincoli della sovranità nazionale).
Cesaratto si avvicina a queste conclusioni quando afferma che
“[…] il Pci non è mai stato un partito riformista, anzi il ritenerlo tale da parte della sinistra estrema italiana ha portato all’equivoco esiziale per cui riformismo significa moderatismo e non avanzamento sociale e controllo del governo da parte dei partiti dei lavoratori, pur nel quadro della democrazia occidentale. Amendola vedeva nell’inflazione il germe del fascismo, altro che conflitto sale della democrazia!”[8].
Si può forse eccepire sul giudizio sempiterno, ma sembra difficile negare il moderatismo regressivo del Pci perlomeno a partire dagli anni Settanta; moderatismo che si è risolto infine nell’assenza totale di riforme popolari, e anzi nella sistematica perdita delle conquiste precedenti. Riformista è, nel senso pieno della parola, colui che con radicalità politica, talvolta estrema, ottiene cambiamenti graduali ma sostanziali. Moderato è chi, di solito, non ottiene altro che privilegi politici personali o di partito. Che senso ha essere moderati nel perseguire i principi politici in cui si crede? Nessun senso, a meno che ci si trovi in una posizione di forza tale che è sufficiente essere moderati per ottenere le riforme. Non era certo il caso del Partito Comunista negli anni della feroce reazione borghese.
Non sbaglia quindi Cesaratto quando dice che l’estremismo diffuso negli anni Settanta (terrorismo rosso e nero, omicidi politici):
“è frutto di società arretrate strette fra ceti dominanti retrivi e istanze sociali frustrate“[9].
Frustrate però non solo e non tanto dal grande capitale nazionale e internazionale, ma dalle forze che dovevano rappresentare le classi lavoratrici e hanno smesso di farlo, consentendo al grande capitale di rifiutare la via riformista.
Va aggiunto però che l’Italia è in ottima compagnia, se è vero che nelle stesse democrazie liberali pacificate la diseguaglianza sociale non è certo inferiore, anzi, e che la disciplina è stata mantenuta per qualche decennio solo con le armi tossiche della spettacolarizzazione della politica e con l’allontanamento della stessa dai residui corpi intermedi di natura popolare (da cui anche una elevatissima e crescente astensione elettorale). Una toppa che evidentemente non può durare a lungo, nonostante le droghe del credito al consumo, dei diritti civili desocializzati e del volontariato in assenza di Stato stiano contribuendo ad allungare l’agonia.
Compito dei sovranisti è riappropriarsi di alcune importanti verità intorno alla storia della nazione e del suo recente declino, traendone le necessarie implicazioni politiche. Teoria, storia e prassi procedano insieme perché si ripristini quella tensione sociale che ha garantito molte conquiste sostanziali, prima di una fatale rinuncia al conflitto che, se disciplinato – come lo è simbolicamente e normativamente nella Costituzione del 1948 – è il “sale della democrazia”[10].
[1] Sergio Cesaratto, Sei lezioni di economia, Imprimatur, Reggio Emilia, pp. 242-243.
[2] Ivi, p. 211.
[3] Ivi, p. 243.
[4] Ivi, p. 221.
[5] Ivi, pp. 243-244.
[6] Ivi, p. 244.
[7] Ivi, p. 245.
[8] Ivi, p. 221.
[9] Ivi, p. 219.
[10] Concetto che Cesaratto evidenzia a più riprese nel testo.
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