Sono come tu mi vuoi
di Adriano Segatori fonte Ariannaeditrice
Il proponimento del successo.
“Molti sono i chiamati, pochi gli eletti; molti hanno talento, pochi il carattere per realizzare quel talento. È il carattere il mistero; e il carattere è individuale”.(1)
James Hillman
Un tempo nelle famiglie e nelle scuole, compatibilmente con le possibilità economiche delle prime e le capacità selezionatrici delle seconde, di fronte all’indirizzo di studio e di lavoro di un giovane ci si poneva la domanda: In cosa è più portato? Da questo interrogativo partivano poi la ricerca degli indirizzi più congrui, delle risorse per attuarli, delle opportunità per svilupparli.
Con il tempo questo presupposto è venuto meno, sia per problemi sociali che per cause economiche: il mondo del lavoro ha pressato affinché gli studi fossero sempre più funzionali alla conoscenza pratica e al sapere applicativo, e le famiglie hanno privilegiato la concretezza del posto fisso e della paga sicura. Entrambi le prospettive avevano ed hanno un loro senso, in un contesto sociale cambiato nelle esigenze e nelle aspettative.
Il paradigma dell’antico approccio al lavoro era dato dall’apprendistato. Questa forma di studio applicato non era soltanto una modalità di affinare un dote innata, o di recuperare una competenza nascosta, o ancora di costruire una capacità specifica adeguata, ad esempio, al copione familiare, ma una vera e propria educazione alla vita, la costruzione di una mentalità personale.
Prendiamo una biografia particolarmente significativa per sottolineare questo discorso. Quando Leonardo venne mandato a bottega a Firenze da suo padre, presso Andrea di Michele Cioni detto Il Verrocchio, egli aveva già dimostrato – a dodici anni – le grandissime abilità artistiche. Ma Il Verrocchio era un artigiano eclettico, per cui il giovanissimo genio “doveva dedicarsi al disegno su tavoletta e ad acquisire familiarità con i materiali dell’artista, che non si potevano certo comprare già fatti. Era necessario miscelare i colori freschi ogni giorno, dopo aver sfarinato i pigmenti; Leonardo doveva imparare a fabbricare i pennelli, a preparare gli smalti vitrei, ad applicare l’oro dei fondi, e alla fine, dopo molti anni a dipingere”(2) . E solo dopo molti anni gli fu consentito dipingere e venne riconosciuto come maestro.
È questa abnegazione, questo spirito di sacrificio, questa disponibilità all’apprendere che James Hillman intende per quel “carattere” che, solo, decide sullo sviluppo di un talento. Al di là e al di sopra della semplice predisposizione sentimentale o della superficiale vena interiore, quello che contava e che conta è quella disciplina interiore che deve essere messa costantemente alla prova durante il periodo in questione. Non contava nulla né la fretta di arrivare ad un certo risultato né, tanto meno, la voglia di notorietà da raggiungere nel più breve tempo possibile, ma solo la costanza nell’intento e il rigore nel conoscere.
L’apprendistato, in fondo, era l’applicazione pratica di una educazione al carattere, un percorso non solo volto ad acquisire delle semplici competenze tecniche, ma una vera e propria formazione della personalità ed esercizio della vocazione. Tanto è vero che gli apprendisti erano obbligati a tenere accuratamente un diario sul quale annotare anche osservazioni riservate e miglioramenti personali.
La prescrizione fondamentale che veniva trasmessa era lo spirito di sacrificio, collegato indissolubilmente alla fatica della conoscenza e al rigore della preparazione. Ciò che risultava alla fine mai conclusa del sapere era il segno dell’originarietà, il marchio personale della propria inclinazione.
Non era forse una modalità simile ad un percorso di individuazione? Una procedura con un’importante valenza psichica, attraverso la quale attivare la potenza del proprio destino?
Un tempo gli insegnanti erano soliti puntualizzare i punti di forza e di debolezza di un allievo: “non è portato per la matematica”, “è dotato di molta fantasia”, “manca di rigore scientifico”, “è ricco di interessi letterari”, “è negato per il disegno”, “ha una fertile vena poetica”. In ogni studente, ad eccezione di incorreggibili fannulloni o di clamorosi incapaci, veniva trovato un filone di interesse e di capacità ad quale dedicarsi e sviluppare. La realizzazione nel campo degli studi era la dimostrazione concreta delle proprie capacità intellettive, dell’impegno individuale – e quasi sempre anche familiare – per attivarle, del buon inquadramento delle peculiari predisposizioni.
I due paradigmi <<lavoro>> e <<studio>> devono essere intesi come semplici strumenti concreti di due possibili realizzazioni di sé, e non obiettivi principali della realizzazione stessa: il primo, comunque, come opera anche su di sé; il secondo come esercizio del proprio inconscio. <<Realizzarsi>>, quindi, come formazione permanente di quelle “doti il cui seme la natura ha depositato nell’uomo, ma che senza adeguata coltivazione non germoglieranno mai”(3) ; un percorso incessante e mai esaurito di conoscenza che – idealmente – dovrebbe seguire le indicazioni dell’oracolo di diventare ciò che si è per natura. <<Realizzazione>> come massima espressione della propria natura originaria, indissolubilmente legata al rischio di distanziamento della normalizzazione proposta con voluta pervasività dal contesto sociale, il desiderio di essere ciò che si è passando attraverso il dovere imposto da altri e la volontà interiore di liberarsi.
Stando a questo criterio, non esisteva una <<realizzazione nel lavoro>>, esattamente come sarebbe improprio parlare di <<realizzazione sociale>>. Nel primo caso perché il risultato corrispondeva alla conformazione di una vocazione, o di una funzione gerarchica, di cui il lavoro era un semplice strumento e mai un obiettivo. Nel secondo in quanto la risultante sociale era la componente non di giudizio di merito, ma un dispositivo passivo verso cui tendere come obiettivo di educazione.
Il successo era la dimostrazione di una propria capacità e il risultato di un percorso di consapevolezza.
Il paradosso della notorietà.
“L’agente dello spettacolo messo in scena come vedette è il contrario dell’individuo, il nemico dell’individuo per sé altrettanto evidentemente che per gli altri. Passando nello spettacolo come modello di identificazione, egli ha rinunciato a ogni qualità autonoma per identificarsi alla legge generale dell’obbedienza al corso delle cose”.(4)
Guy Debord
Completamente sovvertito è il concetto di <<realizzazione>> nel nostro tempo. Essa non viene intesa come la riuscita della propria vocazione e del proprio destino, neppure nella dimostrazione materiale di una personale e specifica capacità nel compimento di una certa opera, ma è valutata secondo gli indici di notorietà e di riconoscimento di immagine.
Per certi versi la situazione che stiamo vivendo è letteralmente psicotica, scissa, confusiva. Una volta l’educazione era selettiva, e lo scopo essenziale era fare emergere dal gruppo dei pari i migliori nelle singole discipline. Oggi si predilige invece il lavoro di gruppo, la capacità di interagire nella squadra, evitando le conflittualità prestazionali e di risultato individuale. Il sistema sociale, per altro, non richiede nessuna dote interiore specifica o, come va molto di moda dire, lo sviluppo dell’intelligenza emotiva, al massimo si esigono doti canore o abilità sportive o corporeità disinvolta , meglio se condite da una buona dose di spregiudicatezza e di disponibilità a vendersi. Per un verso punta ad una selezione del becerume più triviale, per l’altro seduce verso stili di vita sempre più omologati.
Insomma, tentando di riassumere le direttive di questo sistema schizofrenico, si nega una selezione delle qualità superiori e si invita ad una omologazione dei difetti peggiori.
Tutto ciò non è casuale. Si potrebbe dire che il progetto rientra proprio in un disegno mirato. Come è chiaro che siamo in piena neutralizzazione della politica – secondo la preoccupazione di Carl Schmitt –, così è altrettanto evidente che causa ed effetto contemporanei di questa deriva sono la disidentificazione di qualsiasi soggettività e l’evaporazione di ogni competenza.
La <<realizzazione>> segue la regola del <<sono come tu mi vuoi>>, cioè degli schemi e delle prescrizioni del mondo della pubblicità e dell’immagine. È l’<<adeguamento>> l’imperativo categorico di questa pseudo realizzazione, per la quale viene richiesto soltanto l’indice di gradimento, sia quello elettorale o quello legato alla vendita di un giornale o quello ancora agganciato allo share televisivo. In questa virtualità deformante consiste il paradosso di Debord annunciato in esergo: nel fatto che la notorietà, direttamente intesa come <<realizzazione>> è direttamente proporzionale alla perdita della propria autenticità. E non si pensi che sia solo una caratteristica legata agli ambienti frivoli dei pettegolezzi e dello spettacolo da trash, perché la politica stessa è complice e vittima di questo contagio.
Del resto, sono decenni che si sente sempre dire <<se non appari, non sei>>, e che il singolo non conta nulla, ma è il <<noi>> a dare il senso alla realtà di ciascuno, perciò la condizione in esame è solo il trionfo finale di una operazione pervasiva di lunga durata. Umberto Galimberti sottolineava anni fa una certa trasformazione: “(…) atomizzazione e disarticolazione in singolarità individuali che, foggiate da prodotti di massa, consumi di massa, informazioni di massa, rendono obsoleto il concetto di massa come concentrazione di molti, e attuale quello di massificazione come qualità di milioni di singoli”(5) . E così è avvenuto.
Mi viene in mente Maurizio Corona come esempio di uomo realizzato dell’attualità. Uno che viene dalla massa, e la cui notorietà è legata a discutibili stili di vita, ad atteggiamenti trasgressivi e a riprovevoli comportamenti pubblici; quel tanto che serve a rendersi visibile e a diventare <<qualcuno>>, indifferentemente come. In contemporanea, la massa tende alla sua imitazione adeguandosi alle stesse dubbie caratteristiche, dal tatuaggio all’abbigliamento. Lui si comporta come gli altri vogliono che sia, e gli altri si omologano per aspirare ad essere come lui è. Un adattamento conformistico in cui si annulla ogni differenza tra <<essere>> e <<sembianza>>, tra una personalità sincera e i significanti pubblicitari ai quali tende, tra il rischio dell’autenticità e la sicurezza del riconoscimento uniformato.
Ciò che rimane di autentico, oramai, è solo il disadattamento consapevole, il senso di estraneità che deriva da un percorso di individuazione, il disagio che procura la troppa stretta vicinanza con il prossimo, e la comprensione interiore che, come dice Hillman, “Quello che il sistema offre è qualcosa che in realtà non voglio”. <<Io non sarò mai quello che tu vuoi che io sia!>>: questo potrebbe essere il motto per un’autentica realizzazione di sé ed una fedele individualizzazione anticonformista.
1 J. HILLMAN, Il codice dell’anima, trad. it., Adelphi, Milano 1997, p. 311.
2 F. CAPRA, La scienza universale, trad. it., Rizzoli, Milano 2009, p. 114.
3 L. ZOYA, Coltivare l’anima, Moretti&Vitali, Bergamo 1999, p. 90.
4 G. DEBORD, La società dello spettacolo, trad. it., Baldini&Castoldi, 2001, p. 80.
5 U. GALIMBERTI, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 1999, p. 44.
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