Localismo e magia globalista
di Vic (commento ad un articolo pubblicato su Comedonchisciotte.org)
Il modello localista, chiamiamolo così per distinguerlo dal modello globalista, e' interessante anche per due motivi collaterali: uno, e' un modello estremamente ridondante, quindi robusto di fronte ad eventuali perturbazioni o disastri; due: rivaluta il know how della società locale, la sua capacità di essere autonoma in caso di necessità.
Con il modello globalista in pratica si delega il know how tecnologico a pochissime multinazionali superspecializzate nel loro settore, divenendone completamente dipendenti. E' invece nell'interesse di ogni nazione, o gruppo di nazioni con un medesimo sentire, di essere indipendenti su tutto per quel che riguarda il know how,. Dall'artigianato su su fino all'industria di punta.
L'umanità non può permettersi di diventare fragilissima solo in nome dell'efficienza produttiva. E' sufficiente un evento naturale nemmeno troppo sconvolgente, per mettere fuori uso tutto il sistema di comunicazione satellitare. Di conseguenza i trasporti, le industrie, gli ospedali, tutto ciò che ruota attorno all'informazione globale potrebbero venire bloccati. Non parliamo della difficoltà che ci sarebbe a reperire gente con le conoscenze adeguate per ripartire da un livello tecnologico "d'urgenza".
Gli avvenimenti di questi giorni ce lo mostrano in modo evidente. E' lampante che
Il degrado dovuto alla globalizzazione e' un degrado di tipo "magico". In che senso? Nel senso che troppi prodotti di cui facciamo uso ci sono familiari esteriormente, sappiamo come usarli, però non abbiamo la minima idea di come vengano fabbricati, sappiamo solo vagamente secondo quali principi funzionano. Questo significa che non saremmo in grado di replicarli, perché come società ci mancano coloro che sanno come fare, e poi mancano le infrastrutture adatte. Dunque questi oggetti in realtà funzionano "per magia", chiamiamola pure magia tecnologia. C'e' qualcuno che sa costruirli, ma non siamo noi. Piovessero dal cielo come la manna sarebbe la stessa cosa. S'intromette dunque il discorso del saper riparare, che equivale a quello del capire e del sapere, ed in fondo del saper fare.
Nei post di questo blog si adotta ormai troppo spesso un linguaggio di tipo militare: nemico, guerra, lotta. Basta, non se ne può più! Distinguiamoci una buona volta dagli Yankee con la colt in mano per ogni minima discussione. Le rivoluzioni armate in genere producono solo disastri. Sono le evoluzioni a far progredire, invece. Evoluzione invece di rivoluzione.
Forse dobbiamo anche rivedere il concetto di forze armate, di esercito. Se l'esercito serve a difendere uno stato, dovrebbe in primo luogo preoccuparsi di salvare il know how della società, di salvare mestieri indispensabili in caso di catastrofe, piccole e grandi industrie altrettanto indispensabili se putacaso i trasporti globali non funzionassero più. L'ottimizzazione centralizzata produce profitti per pochissimi, quelli che ottimizzano, ma rischi immensi per tutti gli altri, che nel frattempo non sanno più fare niente. Se l'esercito potesse salvare tutti i mestieri e le industrie di base sarebbe già un bel successo. Senza sparare un solo colpo!
Una catastrofe prima o poi arriva sempre. Una volta si chiamava peste, invasione, molto prima si chiamava glaciazione. Oggi potrebbe chiamarsi con qualunque nome: indigenza diffusa, virus tal dei tali, crisi economica. Le cause di possibili emergenze sono numerosissime. Continuare a sperare in un modello senza ridondanze e' proprio da imbecilli. Fu esattamente quel che fecero gli esperti dei rischi delle grandi banche, che ridevano dei rischi poco probabili, ridacchiavano dei cigni neri. Poi un bel giorno i cigni neri si sono materializzati, rischiando di smaterializzare il sistema finanziario globale. Ma a quanto pare nessuno ha capito la lezione. Si va avanti come e piu' di prima. Peggio di prima, in quanto sono proprio i più ancorati alla società locale quelli chiamati a pagare il prezzo dell'irresponsabilità degli ottimizzatori finanziari globalizzanti.
Riscopriamo ordunque una società localista, adeguiamoci pure a vivere in un mondo ormai globale, ma per carità non svendiamogli proprio tutto! Cerchiamo di costruire e produrre quello che ci serve con le nostre mani e con le nostre menti, anche se ci costa più fatica, più tempo. In cambio si rimette in moto il ciclo virtuoso dell'economia locale dove quella globale svolgerebbe un ruolo da comprimario, non più indispensabile. E' l'unica via per liberarci dalle troppe costrizioni calate dall'alto, per magia, dai maghi della globalizzazione.
programma d'insegnamento per le elementari e le medie: prodottologia (scusate il termine).
Si portano dei prodotti in classe. Si spiega da dove provengono e chi li ha costruiti, e perchè (geografia educazione civica). Si spiega di che materiali sono fatti (scienze naturali) e come sono costruti (applicazioni tecniche). Si illustrano infine i rischi legati al loro utilizzi, quali assuefazione e alienzaione (elementi di psicologia).
Questi insegnamenti, coadiuvati al fondamentale studio dell'etimologia (fin da piccoli. Chi non sa nulla di greco e latino non sa nulla dell'italiano), dovrebbero caratterizzare la scuola di domani, una scuola anti-classista, una scuola che prevenga il feticismo delle merci, una scuola che coltivi l'amore per il lavoro manuale, non il suo disprezzo. Una scuola che formi un popolo dotato di competenze essenziali, per fare un esempio, in medicina e idraulica, in modo da avere operai e dottori (secondo vocazione), capaci gli uni, colti gli altri.
Caro Claudio,
bravo. Sono molto felice che dal 20 dicembre p.v. sarai dei nostri.