Heiner Flassbeck: le ragioni della crisi economica italiana
FONTE Voci Dall’estero
Giuseppe Vandai, fondatore di RISORSE – Associazione per capire meglio l’economia, ci ha gentilmente inviato la traduzione di un’analisi della crisi italiana di Heiner Flassbeck, pubblicata in due parti su Makroskop. L’economista tedesco analizza con la consueta lucidità tutti i fattori economici che hanno portato al declino italiano, mettendo in evidenza il ruolo cruciale svolto dalla “concorrenza sleale” tedesca e dai vincoli politici ed economici dell’Unione monetaria nel declino del nostro Paese.
Di Heiner Flassbeck, 29.07.2016
Traduzione di Michele Paratico
Tutti parlano dell’Italia e delle sue banche. Qui noi analizziamo la sua drammatica situazione a livello macroeconomico. È necessario comprendere questa situazione per capire il dramma delle banche italiane. Effettivamente l’Italia è molto malata. Ma la malattia non è solo italiana. L’Italia è solo la più grande vittima di un vero e proprio attentato all’intelligenza economica.
Nelle scorse settimane abbiamo riportato alcune analisi sugli sviluppi politici in Italia e vogliamo completare il quadro attraverso un’approfondita analisi macroeconomica del paese, mettendolo a confronto con i suoi vicini più importanti (Francia e Germania).
Nei confronti di nessun paese europeo i tedeschi hanno un così evidente schema di pregiudizi, come verso l’Italia. Nel cervelletto dei tedeschi è difficile accettare che nella Bella Italia, dove per la maggior parte del tempo regna la dolce vita, quando si prendono in seria considerazione i numeri, si siano registrate nel passato impressionanti performance economiche. Il Paese, con la Lira cronicamente debole e l’alto debito pubblico, sarebbe stato inefficiente già da prima dell’euro. Fatto diventato poi lampante con l’Unione monetaria europea. Questo il pregiudizio diffusissimo in Germania.
Un’immagine falsa dell’Italia
Questa immagine dell’Italia era ed è falsa, così come è falsa la diagnosi attuale del malato italiano dal punto di vista tedesco. E per riconoscerlo è sufficiente leggere quanto prodotto dal corrispondente dall’Italia del Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ). Tobias Piller s’indigna per il fatto che in Italia ci sia un’avventurosa discussione, in cui la responsabilità dei problemi dell’Italia viene attribuita alla politica della Germania nell’Unione monetaria. Nello stesso giornale il commentatore di economia internazionale, Thomas Mayer, scrive che non si può negare
“che negli ultimi 18 anni non è riuscito all’Italia affermarsi economicamente all’interno dell’unione monetaria”
E agli “autori di best seller” (virgolettato nell’originale, ndt.) Friedrich e Weik non viene in mente niente altro che la scoperta priva di senso di Hans-Olaf Henkel:
“l’esperimento politicamente motivato dell’Unione monetaria è troppo forte per l’Italia“
Tutto ciò non ha niente a che fare con la realtà economica. Anzi, si tratta solo di una manovra evasiva in quanto ci si rifiuta di discutere apertamente del ruolo dei paesi con surplus nella bilancia commerciale cosi come del ruolo dei paesi con un deficit della bilancia commerciale. L’Italia in questo momento non registra alcun deficit. Eppure continua a soffrire della malattia che, se la situazione economica dovesse normalizzarsi, farebbe emergere esattamente dei deficit commerciali.
Lo sviluppo macroeconomico, in termini di prodotto interno lordo, offre un quadro spaventoso se messo a confronto con la Francia e la Germania (Grafico n°1 / Abbildung 1). Fino al 2007 la crescita dell’Italia ha tenuto il passo di quella tedesca, nel 2008 il PIL è però crollato e praticamente non ha più recuperato.
Dal 2011 l’Italia si trova in una pesante recessione. Invece la Francia, fino alla crisi finanziaria mondiale, si è comportata meglio della Germania. Però, dopo la crisi, non ha più tenuto il passo con il paese tedesco, cosicché nel frattempo quest’ultimo l’ha raggiunta.
[ Qui sotto: “Reales BIP” = “PIL reale” ]
Ancora più chiara appare la drammaticità della tendenza se, anziché il PIL, si guardano i dati duri e crudi della produzione industriale (Grafico 2 / Abbildung 2). Qui le curve dell’Italia e della Francia sono quasi simili dall’inizio del 2000, però, specialmente dal 2004, rimangono indietro rispetto al trend tedesco. Tuttavia, dal 2011 in poi, la Francia non è crollata quanto l’Italia.
[ Qui sotto: “Industrieproduktion” = “Produzione industriale” ]
La competitività nella Unione Monetaria Europea è il fattore decisivo
Ciò si spiega, e come potrebbe essere altrimenti, con i differenti sviluppi del costo del lavoro per unità di prodotto (ovvero: CLUP, in tedesco: Lohnstückkosten) dopo la nascita dell’Unione monetaria (Grafico 3 / Abbildung 3): una cosa che ora non voglio nemmeno commentare nel dettaglio. Fino al 2006 la differenza (nel CLUP) era già cresciuta del 20% tra l’Italia e la Germania, dove nei primi anni dell’ unione monetaria il CLUP non è per niente aumentato.
[ Qui sotto: “Lohnstückosten” = “CLUP ” ]
Tra le persone che possono contare su almeno un grammo di cervello è persino ovvio che un tale gap (nel CLUP) tra paesi con una comparabile struttura economica debba portare a violente eruzioni. Ciò che oggi viene ampiamente dimenticato è che l’Italia era fino ai primi anni novanta uno dei principali concorrenti della Germania nell’ingegneria meccanica, cioè in uno dei settori industriali per eccellenza.
Anche ammettendo che il paese avesse in passato una moneta relativamente debole (vecchi “esperti” amano ancora adesso più di ogni altra cosa divertirsi con la debolezza cronica della Lira), questo non dice nulla, assolutamente nulla, sulla sua capacità di mettere sul mercato mondiale prodotti concorrenziali. La debolezza della Lira traeva origine, in confronto con la Germania, dal tasso d’inflazione relativamente alto. Un fattore che non ostacola in alcun modo la produzione dei migliori prodotti concepibili – perlomeno finché il paese era in grado di lasciar deprezzare in modo logico e al momento giusto la propria moneta. Anche il cambio effettivo reale [in inglese: REER, ndt.] dei tre paesi (in altre parole la competitività su scala globale) mostra esattamente lo stesso risultato (Grafico 4 / Abbildung 4). L’Italia, con l’inizio dell’unione monetaria, ha avuto una forte sopravvalutazione della moneta. Per la Francia vale la stessa cosa, anche se meno dell’Italia. La Germania ha pesantemente svalutato e quindi, attraverso la sua moderazione salariale, chiaramente aumentato la sua competitività all’interno dell’Unione monetaria europea.
[ Qui sotto: “Realer effektiver Wechselkurs” = “Tasso di cambio effettivo e reale ” = “Real effective exchange rate“ in inglese ]
L’Italia è quindi capitata tra le macine di una sopravvalutazione reale in un’unione monetaria (cioè, una sopravvalutazione attraverso un alto costo del lavoro per unità di prodotto) e ha perso molto rapidamente la sua capacità di esportare con successo. Esattamente questo si può vedere negli sviluppi delle esportazioni (Grafico 5 / Abbildung 5).
[ Qui sotto: “Reale Exporte” = “Esportazioni in termini reali” ].
Uno vince, due perdono
Al più tardi nel 2004, la Francia e l’Italia si sganciano completamente dall’esorbitante sviluppo della Germania e il distacco diventa di anno in anno sempre più grande. Dopo la crisi finanziaria mondiale, l’export della Germania è inarrestabile. Nel frattempo ha realizzato un vantaggio stabile nei costi di almeno il 15% nei confronti della Francia e chiaramente di oltre il 20% rispetto all’Italia. Un vantaggio competitivo con cui può sbaragliare la concorrenza dei paesi confinanti sia in Europa che sul mercato mondiale.
Anche nelle importazioni naturalmente la Germania si colloca avanti, anche se ampiamente sotto le sue esportazioni. La Francia per contro importa quasi quanto la Germania, tuttavia senza mostrare le stesse performance nell’esportazione (Grafico 6 / Abbildung 6). In Italia collassano le importazioni con la profonda recessione e si attestano oggi al di sotto del livello del 2007.
[ Qui sotto: “Reale Importe” = “Importazioni in termini reali” ].
Grazie ad una leggera crescita dell’export il conto delle partite correnti italiano è migliorato e mostra addirittura dal 2012 un avanzo. Ciò non ha però nessun significato in relazione alle problematiche di base. La diminuzione delle importazioni è da attribuire esclusivamente alla profonda recessione, poiché in realtà non è migliorata la posizione in termini di competitività internazionale (vedi: Grafico 3 / Abbildung 3).
In linea di principio il Grafico 7 (Abbildung 7) mostra con insuperabile chiarezza come si spostano i saldi (delle partite correnti, ndt.) con gli sviluppi divergenti del CLUP. Bisogna essere veramente ignoranti per ignorare tutto ciò.
[ Qui sotto: “Leistungsbilanzsaldo” = “Saldo nel Conto delle partite correnti” ].
Con la perdita di competitività nei confronti della Germania il destino del paziente italiano era segnato. Non c’è nessuna via di uscita semplice da questo scenario all’interno dell’unione monetaria. Non c’è soprattutto nessuna via di uscita facilmente praticabile in una democrazia.
Nella seconda parte scoprirete in che modo la debolezza causata dall’export ha colpito anche il resto dell’economia, così come la capacità dello Stato di risolvere i pressanti problemi economici.
Il paziente Italiano – Parte 2
Nella prima parte abbiamo mostrato come l’Italia si trovi in una disastrosa situazione economica, che solo in parte è attribuibile al paese stesso. Quali sarebbero le possibili vie di uscita da questa situazione e perché sono bloccate?
Il punto di svolta nella più recente storia economica italiana è stata la crisi finanziaria del 2008/2009. L’Italia è caduta in una profonda recessione, come abbiamo mostrato nella prima parte, e da allora non ne è più uscita. Lo si può vedere molto chiaramente anche dagli investimenti (Grafico 1 / Abbildung 1). Diversamente dalla Francia e dalla Germania, dove gli investimenti, dopo un leggero recupero successivo alla grande recessione, continuano in fase di ristagno, in Italia si è verificata un’enorme caduta.
[ Qui sotto: “Reale Bruttoanlageinvestitionen” = “Investimenti industriali in termini reali” ]
Questo si vede anche dalla quota degli investimenti sul PIL (Grafico 2 / Abbildung 2), che da un livello assolutamente adeguato crolla a un livello inferiore al 17% del prodotto interno lordo. Questo è successo anche in Francia e in Germania (e non è da giudicarsi affatto in maniera positiva) ma a questi paesi, rispetto all’Italia, è andata di gran lunga meglio.
[ Qui sotto: “Investitionsquote” = “Quota degli investimenti sul PIL” ]
Da dove trae origine la brutale diminuzione degli investimenti? Ora, questa ha certamente a che fare con l’incapacità degli esportatori italiani di riagganciarsi ai mercati internazionali dopo la recessione. Ma ciò non è sufficiente a spiegare la caduta. Alla debolezza delle esportazioni si accompagna un’eclatante debolezza del mercato interno. Dopo lo scoppio della crisi nella unione monetaria europea, nel 2012, nel paese si è verificata anche una fortissima riduzione dei già deboli consumi privati (Grafico 3 / Abbildung 3), a cui si aggiunge una marcata riduzione dei consumi statali (vedi: Grafico 5 / Abbildung 5)
[ Qui sotto: “Realer privater Konsum” = “Consumi privati in termini reali”]
Il crollo dei consumi privati, che quantitativamente per l’Italia gioca un ruolo molto grande (la sua quota nel PIL è del 60%), avviene contemporaneamente all’enorme aumento della disoccupazione, dall’8%, immediatamente successivo alla recessione, a un nuovo picco del 12% (Grafico 4 / Abbildung 4). È evidente che l’insicurezza dei consumatori in seguito alla paralisi della politica economica ha fatto sì che la crisi immediatamente si amplificasse.
[ Qui sotto: “Arbeitslosigkeit in der EWU” = “Disoccupazione nell’Unione monetaria europea”
A ciò va aggiunto che pure lo Stato – pur sempre con un peso equivalente a un terzo del consumo privato – ha ridotto chiaramente le sue spese.
[ Qui sotto: “Realer staatlicher Konsum” = “Consumo dello Stato in termini reali” ]
Il crollo del consumo privato è stato determinato solo in piccola parte dalle variazioni degli stipendi reali (Grafico 6 / Abbildung 6). Fino al 2010 la paga oraria in termini reali in Italia ha avuto una dinamica grosso modo simile Germania. È dunque cresciuta solo di poco.
[ Qui sotto: “Reallohn” = “Salario in termini reali” ]
In Italia però, assolutamente al contrario che in Germania, una stagnazione del salario reale è stata in gran parte in sintonia con un debole sviluppo della produttività (Grafico 7 / Abbildung 7)
[ Qui sotto: “Produktivität” = “Produttività” ]
Effettivamente la dinamica della produttività in Italia era già molto debole prima che entrasse in gioco la debolezza degli investimenti. Ciononostante il paese era riuscito a mantenere lo sviluppo del salario reale nell’area di crescita della produttività senza grossi conflitti interni. Cosa che di per sé sarebbe stata sufficiente a garantire la stabilità dei prezzi e pure la stabilità della domanda reale delle famiglie.
Che la Germania, il più importante partner commerciale, si dotasse di una politica completamente diversa e controproducente per il proprio paese, l’Italia non poteva aspettarselo. Per questo motivo la reazione è stata tardiva.
Quale politica economica è adeguata?
Da queste premesse è chiaro per ognuno che la soluzione deve venire dallo Stato. I saldi di finanziamento dei tre settori interni e dell’estero (Grafico 8 / Abbildung 8) non lasciano nessun dubbio. Di conseguenza in Italia è unicamente lo stato che può attuare gli investimenti necessari.
[Qui sotto: “Finanzierungssalden der Wirtschatssektoren in Italien 1991 – 2015” = “I saldi di finanziamento dei settori economici in Italia dal 1991 al 2015 ” ]
Private Haushalte = famiglie / Unternehmen = imprese / Staat = stato / Ausland = Estero (saldo tra import e export)
1) in % del PIL nominale
2) un valore negativo significa un indebitamento (nel nostro caso, del settore estero e dello Stato)
I risparmi delle famiglie, che prima in Italia erano una grossa quota, in altre parole un importante saldo netto positivo, sono scesi a un livello molto basso dall’ingresso nell’Unione monetaria, livello che durante la crisi mondiale ha sfiorato lo zero. In seguito la quota dei risparmi ha recuperato qualcosa, ma rimane molto bassa. Ma il grande problema in Italia (come in molti altri paesi del resto) sono gli imprenditori.
Ciò spiegato, le carte in mano all’Italia sono così pessime che solo lo Stato può garantire che i diversi processi di aggiustamento abbiano successo. Ma questo stesso Stato è costantemente costretto dall’Unione monetaria ad attuare misure sbagliate, specialmente dall’Eurogruppo sotto la guida tedesca.
Tanto per chiarire ancora una volta con precisione: il saldo commerciale positivo, l’ho mostrato nella prima parte, non significa nulla per l’Italia, perché è solo il riflesso della lunga e pesante recessione, e non di un miglioramento della competitività. L’Italia non potrebbe migliorare la sua competitività senza tagliare gli stipendi. Ma ciò colpirebbe e comprimerebbe di nuovo la domanda interna. Questa via è quindi impraticabile. Se lo Stato volesse spingere le famiglie a ridurre ancor di più la loro già bassa quota di risparmio (cioè indurle a consumare di più, ndt), in un contesto di tassi d’interesse nulli, si imbarcherebbe in un’impresa rischiosa e insensata.
Il problema decisivo in Italia sono gli imprenditori. Portare gli imprenditori da una posizione di saldo positivo di finanziamento all’indebitarsi per fare investimenti, non è ancora stato tentato da nessuno e sarebbe sicuramente ancor più rischioso che farlo con le famiglie. Fuori dai denti: non esiste nessun sofisticato e provato meccanismo d’azione, al quale uno stato voglia ricorrere, che possa costringere gli imprenditori a compiere la loro decisiva funzione nella economia di mercato, ovvero quella di finanziare i propri investimenti ricorrendo ai crediti. Solo lo Stato, indipendentemente dal livello del suo deficit e del suo indebitamento globale, può dare impulsi per rianimare l’economia. Ma proprio questo gli viene vietato dalle regole dell’Unione monetaria.
Il risultato è geniale. La controrivoluzione neoliberista degli anni settanta non ha lasciato nulla di intentato. Da una parte invitava lo Stato a viziare gli imprenditori fintanto che avessero realizzato guadagni senza indebitarsi e senza investire. Dall’altra parte pretendeva che lo Stato non si indebitasse per nessuna ragione. Rimane dunque, logicamente, solo la “soluzione tedesca” (Grafico 9 / Abbildung 9) come soluzione globale: tutti i paesi del mondo devono lavorare affinché l’estero si indebiti.
[Qui sotto: “Finanzierungssalden der Wirtschatssektoren in Deutschland 1991 – 2015” = “I saldi di finanziamento dei settori economici in Germania dal 1991 al 2015 ” ]
Commenti recenti