Recensione ad ALDO BARBA – MASSIMO PIVETTI, La scomparsa della sinistra in Europa, Imprimatur, 2016*
di PAOLO DI REMIGIO (FSI Teramo)
Oltre alla straordinaria padronanza della materia, ciò che colpisce ne ‘La Scomparsa della sinistra in Europa’ è la volontà dei suoi autori di conservare un tono pacato. Proprio per questo la storia che il libro racconta ha un effetto ancora più inquietante: è la storia degli ultimi quarant’anni, in cui la sinistra, la rappresentanza dei lavoratori, è diventata esecutrice di politiche economiche contro i lavoratori.
I fautori della svolta neoliberale l’hanno scelta perché i lavoratori se ne fidavano; il suo nuovo protagonismo era lo strumento ideale per paralizzarne le reazioni. Così è stata la sinistra a far credere che la svolta verso la nuova politica economica, l’economia dal lato dell’offerta, avrebbe permesso il superamento della fase critica degli anni ’70 e avrebbe avviato l’economia mondiale verso una crescita stabile. L’economia dal lato dell’offerta non poteva fare però nulla di tutto questo.
Lo aveva dimostrato proprio il pensatore più importante della sinistra, Karl Marx, distinguendo tra mercato in generale (sistema mercantile semplice) e mercato capitalistico. Il mercato in generale è lo scambio di equivalenti tra proprietari privati, il mercato capitalistico mette insieme lo scambio di equivalenti tra proprietari e lo scambio ineguale tra capitalista e lavoratore.
Il lavoratore, secondo Marx, non è pagato in misura del valore che aggiunge al prodotto, ma sulla base del valore della sua forza-lavoro che è necessariamente inferiore al valore aggiunto. E la forza che abbassa il salario al valore della forza-lavoro e gli impedisce di corrispondere al valore aggiunto è la concorrenza tra i salariati: maggiore è l’offerta di forza-lavoro più irresistibile è quella forza.
Dall’inizio dell’umanità il lavoro è stato sempre scarso; così la spoliazione del lavoratore per lunghe epoche non ha potuto prendere l’apparenza dello scambio. Da quando si è trovato il modo per far sì che l’offerta di lavoro ecceda la domanda, il lavoro diventa merce e nasce il mercato propriamente capitalistico.
Il suo primo apparire è rappresentato dalle enclosure a partire dal tempo di Enrico VIII, dalle recinzioni con cui i fittavoli capitalisti scacciarono l’agricoltura di sussistenza dei copyholder inglesi, per sostituirla con la pastorizia. Fu il semplice cambiamento di destinazione produttiva dei terreni a rendere superflua la maggioranza dei lavoratori. Thomas More scrisse che le pecore, nel passato metafora della mitezza, erano diventate feroci e scacciavano gli uomini dai campi, in una fuga che continuò nel secolo successivo fino a produrre la colonizzazione inglese dell’America settentrionale.
Ma la stessa industria capitalistica, quella che inizia nella produzione dei tessuti di cotone a metà del 1700, è dapprima la risposta alla carenza di manodopera manifestatasi nel domestic sistem, e ben presto produce eccedenza di lavoratori. Non solo: sostituisce i lavoratori con le macchine dove gli alti salari segnalano una scarsità di offerta di forza lavoro.
Marx compendiò il tema dello squilibrio costitutivo del mercato del lavoro con la metafora dell’esercito industriale di riserva. Un dato di fatto di fronte a cui la stessa apologetica marginalista del capitalismo vacilla; come scrive Cesaratto nelle sue ‘Sei lezioni di economia’ (a p. 88) essa rappresenta la curva di offerta del lavoro come una retta verticale: i lavoratori offrono la stessa quantità di forza-lavoro qualunque sia l’ammontare del salario; così nello stesso marginalismo il capitalista che retribuisce il lavoratore meno del suo apporto alla produzione non deve fronteggiare un’insufficienza di offerta di lavoro, può continuare impunemente a disporre della quantità di lavoro di cui ha bisogno. Ne segue che un salario che andasse oltre il livello di sussistenza sarebbe un atto di giustizia del capitalista, e non risponderebbe alla cosiddetta razionalità economica.
Di fatto i capitalisti non sono guidati dalla giustizia, perché l’imperativo di massimizzare il profitto li rende estranei a preoccupazioni etiche. Etica non è però un vago sogno teologico o metafisico; e l’estraneità all’etica ha un senso economico molto preciso; questo senso: che i capitalisti sono per principio estranei alla considerazione degli effetti generali delle loro scelte; e la rappresentazione di questa loro cecità è la teoria microeconomica. L’insufficienza a livello economico di questa razionalità ha reso necessaria una seconda disciplina che recuperasse la visione degli effetti generali delle scelte economiche, la macroeconomia.
A sua volta generale è qualcosa di più di un semplice ‘denotare tutti’. Aristotele lo ha identificato con la nozione di causa finale, con il movimento che inizia dalla fine e finisce all’inizio, con il movimento circolare tra determinazioni opposte. La retroazione nell’azione, il legame nell’opposizione, che l’offerta sia anche domanda, che la produzione sia anche consumo, che la spesa sia anche reddito, in una parola: che gli opposti siano anche identici è il vero significato della determinazione di generale. Per questa identità, la singola scelta è costretta dal proprio interesse a riconoscersi legata all’interesse opposto in quanto tale. Questo diminuire dalla propria superba assolutezza fino a diventare momento di un più grande, riferito alle scelte e alla libertà degli individui, ha significato etico.
Già Marx si era elevato alla considerazione generale del capitalismo e aveva concluso che la tendenza microeconomica a massimizzare i profitti minimizzando i salari non produce nessun equilibrio ottimale, ma la crisi economica. In termini marginalisti, se la curva di offerta del lavoro è del tutto anelastica, la quantità offerta di lavoro non si riduce con la riduzione del salario, e si troverà sempre abbondanza di lavoratori felici del salario minimo (nei casi in cui l’innovazione tecnica non sia sufficiente a procurare quell’abbondanza, il capitale approfitta della sua mobilità ed espatria nei paradisi dei bassi salari, oppure lascia che il lavoro affluisca dall’estero – a questi temi Barba e Pivetti dedicano pagine estremamente istruttive). Quella felicità non impedisce però che la loro domanda di merci prodotte si riduca. Si crea così uno squilibrio in favore dell’offerta che non è occasionale, anzi è il carattere specifico, naturale, del mercato capitalistico. Per questo il suo funzionamento naturale produce, anziché l’equilibrio ottimo, lo squilibrio generale, la crisi economica.
Di fronte a questo difetto nella sua natura ci sono due rimedi. Si può abolire il mercato in generale, dunque la domanda e l’offerta tra proprietari privati, e ricreare un’economia che, com’è stato dalla notte dei tempi fino al capitalismo, produce direttamente per il consumo, anziché per il profitto. Si tratta della via della rivoluzione socialista che abolisce la proprietà privata. Il secondo rimedio è: abolire il carattere capitalistico del mercato, ossia farvi valere l’interesse generale e l’etica, convincere i capitalisti ad essere giusti, a considerare non il loro interesse come singoli – esso suscita crisi che pur essendo utili a disciplinare i lavoratori, alla lunga diventano incontrollabili – ma il loro interesse come momenti dell’aggregato.
C’è un solo modo per convincere il capitalista in quanto tale: parlargli nel linguaggio del mercato. Il suo strapotere sul mercato deriva dall’esiguità di domanda di lavoro rispetto all’offerta. Una politica che faccia crescere l’economia in modo da colmare l’esiguità della domanda di lavoro fino al punto in cui si raggiunga l’obiettivo della piena occupazione, che si prosciughi l’esercito industriale di riserva, porta il capitalista a retribuire non solo il valore della forza-lavoro, ma il suo effettivo apporto alla produzione. La piena occupazione garantisce l’equilibrio tra l’offerta e la domanda anche sul mercato del lavoro: una razionalità superiore alla razionalità microeconomica salva il mercato capitalista dal suo squilibrio costitutivo, l’economia dalle sue crisi, la società dalla miseria e risparmia al mondo molte occasioni di guerra. Questa razionalità superiore è quella dello Stato.
Il capitalismo lo presuppone in quanto presuppone l’esistenza e l’esercizio del diritto privato, in quanto è un sistema fondato sul diritto di proprietà privata. Ma lo Stato che garantisce la proprietà privata le è nel contempo superiore: le tasse ne sono la negazione esplicita. Le tasse, in cui lo Stato manifesta la sua superiorità sull’homo oeconomicus, sono dunque l’oggetto del suo odio. Vorrebbe abolirle del tutto, ma così verrebbe meno la garanzia ultima della proprietà privata; dunque vuole ridurle al minimo, e quel minimo vuole che sia finalizzato solo al funzionamento del mercato capitalista. In questo consiste l’ordoliberismo.
A tale scopo vuole che lo Stato diventi un’impresa, con un bilancio in equilibrio o addirittura in attivo, che la sua azione, anziché seguire i principi del diritto pubblico e del diritto internazionale, sia subordinata al diritto privato e, per costare il meno possibile, si riduca all’indispensabile: difesa, giustizia. Il neoliberalismo è questo capitalismo risentito contro lo Stato, che vorrebbe eliminarlo e spera di poterlo fare.
Dal dopoguerra agli anni ’70 lo Stato è intervenuto in profondità nell’economia nonostante il liberalismo e a suo sommo dispetto ha ottenuto risultati brillanti – quali forse neanche Marx si sarebbe aspettato dal comunismo: la crescita è stata robusta, la disoccupazione è stata assorbita, la vita dei lavoratori è diventata più comoda e sicura di quanto sia stata la vita dei re in altre epoche, le crisi si sono per lo meno attenuate, – sebbene lo sviluppo in questo suo sfrenarsi infantile abbia leso in misura inaccettabile gli equilibri ecologici. Ora il fatto stesso, non solo la teoria, ha dimostrato che il mercato, in quanto è capitalista, è internamente squilibrato e che l’equilibrio deve esservi portato dallo Stato sulla base di una razionalità che viola la razionalità microeconomica.
La reazione del capitalismo non si è fatta attendere. Come ha negato la teoria con il dogma, così ha negato la realtà con una imponente azione politica. Il fallimento inglorioso dell’economia sovietica senza mercato la ha fatto sentire sicuro; esso ha voluto recuperare tutto il suo potere imponendo il ripristino del suo mercato e mettendo fine all’intervento statale nell’economia.
La forza politica che si è proposta come esecutrice della controriforma neoliberale è stata, questo è il paradosso denunciato da Barba e Pivetti, la sinistra rivoluzionaria, la sinistra intollerante del mercato tout court. Il tradimento (ci sia consentito di forzare la delicatezza degli autori) è iniziato in Francia. Nel 1981 Mitterrand vince le elezioni con un programma di statalismo estremo, il ‘Programme commun’: nazionalizzazione delle imprese industriali strategiche, nazionalizzazione di tutto il settore bancario e finanziario per sostenere la domanda e l’occupazione, per incanalare il credito verso l’industria così da aumentare l’indipendenza tecnologica della Francia; controllo dei cambi e dei flussi finanziari, abbassamento dei tassi di interesse.
Ma un programma così espansionistico trova sempre un limite nel cosiddetto ‘vincolo esterno’: l’aumento della capacità di spesa dei lavoratori può portare a un aumento delle importazioni rispetto alle esportazioni, dunque a un indebitamento estero alla lunga insostenibile.
Il rifiuto di affrontare il problema dell’indebitamento con la Germania tramite misure protezionistiche ha implicato il ricorso a misure di austerità interna, quindi ‘una svolta ad U’ (p. 93), un completo voltafaccia del governo socialista rispetto al primitivo orientamento keynesiano. Tra i dirigenti socialisti prevale l’orientamento dell’antistatalista Rocard e di Delors che sogna un ruolo egemonico della Francia in un’Europa da lei unita: ‘Le fughe di capitali … furono contrastate con un forte aumento dei tassi di interesse e non ci fu alcun serio tentativo di servirsi di un sistema finanziario … in mano pubblica, per realizzare un controllo efficace dei movimenti dei capitali … All’aumento delle importazioni causato dall’iniziale espansione della domanda interna e alla … contrazione delle esportazioni causate dalla recessione internazionale si rispose con l’austerità fiscale e salariale’ (p. 99).
‘Non ci fu alcuna ferma resistenza alla svolta’, nonostante l’egemonia del neoliberalismo fosse ancora lontana dall’affermarsi. ‘Si trattò di una scelta … compiuta in piena coscienza dalla maggioranza della sinistra francese – … maturata nel corso del precedente quindicennio, lasciata covare sotto la cenere in vista delle contese elettorali del 1981 e che a partire dal 1983 non fu mai più abbandonata’ (p. 102).
Come riuscì Delors a imporre a tutta la sinistra la concezione per cui la ricerca del profitto fosse l’unica fonte del progresso sociale? Come riuscì a disegnare per l’Europa un percorso di unione che iniziava dal tetto anziché dalle fondamenta, dalla libera circolazione dei capitali e dalla moneta unica anziché dall’unione politica, che dunque l’avrebbe spinta, anziché alla convergenza, all’odierna esplosiva divergenza? Come riuscì a spingere gli Stati europei a rinunciare alla loro sovranità in favore di organismi ‘tecnici’, cioè al servizio dei grandi gruppi finanziari e delle multinazionali?
La risposta di Barba e Pivetti è che nel corso degli anni ’70 la sinistra francese si differenziò in un orientamento operaio, la cui straordinaria mobilitazione ottenne, con gli accordi di Grenelle, un rafforzamento del potere contrattuale dei salariati e l’aumento dei salari; e in un orientamento studentesco, insofferente dell’autorità e del potere, individualista, anarcoide, antistatalista.
Questa seconda sinistra che si baloccava con il velleitarismo rivoluzionario fece breccia nel mondo intellettuale francese già alieno, dopo Lévi-Strauss, dalla considerazione dialettica della storia. Michel Foucault ne era il suo esponente più rappresentativo. E sua era una delle prime rappresentazioni del neoliberalismo, nella versione ordo-liberista tedesca e nella versione anarco-liberista americana.
Non concordiamo del tutto con gli autori quando imputano a Foucault una simpatia per il liberalismo; ci sembra anzi che l’atteggiamento generale di Foucault sia di lamentare nel liberalismo quella che gli appare un’intima contraddizione: esso pretenderebbe di organizzare la libertà, in particolare nella sua versione neoliberale in cui rifiuta la concezione spontaneistica del mercato concorrenziale e chiama lo Stato a costruire il ‘quadro’ giuridico e sociale indispensabile al suo funzionamento. Barba e Pivetti hanno però ragione nell’essenziale: Foucault ha criticato il liberalismo non in quanto il liberalismo avversa lo statalismo keynesiano, ma perché il liberalismo stesso è troppo statalista, perché è troppo poco liberale, perché non è radicalmente libertario.
Alla base della sua critica la concezione ingenua della libertà, la concezione per cui la libertà è spontaneità naturale dell’individuo così da essere in irrimediabile contrasto con le leggi e con lo Stato. L’esatto opposto della concezione di Rousseau nel ‘Contratto sociale’, per cui solo alienando la loro libertà naturale gli individui creano la loro libertà effettiva, solo accettando i doveri possono creare un ambito di fiducioso godimento dei diritti. Per questa seconda concezione la realtà del diritto e del dovere non è una proiezione giuridica della spontaneità individuale, al contrario: è la realtà del diritto e del dovere che oltre a costituire l’essenza etica dell’individuo, la sua universalità, consente l’esercizio della stessa spontaneità individuale entro limiti storicamente variabili.
La realtà del diritto e del dovere, la più preziosa per l’individuo, è però lo Stato, inteso come moltitudine di individui che riconoscono la maestà delle loro leggi. Finché la legge morale, come vuole Kant, è dentro di me, essa non può che ridursi a un superfluo orpello del mio desiderio. In quanto la legge è lo strumento attraverso cui si costituisce la fiducia tra gli individui, in tanto essa trasforma la loro massa in Stato. Lo Stato dunque è etico, non certo nel senso gentiliano di un governo che non conosce limiti alla sua competenza, ma nel senso costituzionale per cui le sue leggi esprimono l’universalità dei diversi individui, la disciplina che accettano liberamente così da produrre un accordo a priori tra loro.
Viceversa, il disprezzo delle leggi dello Stato restringe invariabilmente l’individuo o all’edonismo elementare del ‘faccio quel che mi piace’, o all’eudemonismo del ‘faccio quel che mi è utile’, o al moralismo del ‘faccio ciò che mi detta la mia insindacabile coscienza’. In tutte queste posizioni pre-etiche l’individuo non esce dall’egocentrismo infantile. Nel suo rigetto dello Stato e delle leggi, nel suo concepirlo in modo indistinto come ‘potere’ senza porsi il problema della legittimità del potere stesso, Foucault regredisce a questo insieme di atteggiamenti infantili.
Il punto storicamente saliente è però che la sua regressione non trova un efficace correttivo nell’ideologia della sinistra rivoluzionaria, che a cominciare da Marx ha disprezzato lo Stato come strumento di classe.
È vero che Marx ha contrastato l’avventurismo di Bakunin per cui basta eliminare lo Stato e i preti per avere il socialismo, e ha teorizzato la necessità di uno Stato socialista che guidasse la società al comunismo. È vero che ha avuto il coraggio dell’incoerenza contro questo sua assunto di fondo. Nondimeno Marx concepisce lo Stato essenzialmente come dittatura, come esercizio violento del potere: dittatura della borghesia lo Stato parlamentare, dittatura del proletariato lo Stato socialista. In questo modo l’essenza dello Stato è concepita nella maniera di Kant e di Fichte, come costrizione, e l’esercizio del potere al suo interno non può essere liberamente accettato, ma solo imposto con la forza o con l’inganno.
Tuttavia il concetto di Stato implica essenzialmente il carattere della generalità, ossia la capacità di unire gli individui senza omologarli, ma come differenti, attraverso il legame della fiducia – in particolare lo Stato moderno, venuto fuori dalle guerre di religione del XVI secolo con il carattere della laicità, della estraneità ai sistemi di credenze privati. E che la fiducia reciproca sia l’interesse essenziale degli individui è provato dalla loro disposizione a difendere lo Stato anche a costo della morte. Così, in quanto trova nei cittadini difensori coraggiosi, lo Stato non è un semplice strumento della particolarità come ritiene Marx, ma ha realtà generale. Nella loro lotta contro la Germania nazista la Polonia, l’Inghilterra, la Russia hanno dimostrato la loro consistenza statale.
Che Marx e con lui il marxismo abbiano ignorato il legame tra unità interna e sovranità esterna è un eccesso di realismo che ha impedito la considerazione realistica della storia. La storia non è un lento avanzare spinto dal vento della lotta di classe. Almeno, non è soltanto questo. Essa è sia rapporto tra classi, sia rapporto tra Stati; entrambi i rapporti oscillano tra pace e guerra, e come ha già rilevato Platone la forza militare delle nazioni non è un’espressione della brutalità dei loro eserciti, ma risulta dalla loro libera pace interna.
Il materialismo storico è antistatalista e l’antistatalismo della sinistra studentesca, quello che ha inquinato la sinistra intellettuale francese così da consegnarla al neoliberalismo, vi ha trovato un sostegno. Così non è un caso che l’infelice marxista Althusser abbia ‘contribuito al dilagare dell’antistatalismo all’interno della cultura di sinistra con il suo scetticismo circa le possibilità di progresso sociale attraverso l’intervento statale, con la sua concezione dello Stato come mero strumento della riproduzione delle condizioni materiali del rapporto di produzione e sfruttamento e la connessa visione del ‘servizio pubblico’ e dell’intervento statale in funzione dell’interesse collettivo come una ‘gigantesca mistificazione’’ (p. 120).
Pochi cenni sul caso italiano. È la parte del libro più toccante, perché vi si avverte la massima tensione tra l’espressione rigorosa e la desolante realtà descritta. Si scopre cioè che il passaggio del gruppo dirigente del PCI al neoliberalismo, almeno dal punto di vista soggettivo dei suoi protagonisti, non può neanche essere tacciato di ‘tradimento’, che la disposizione a sacrificare gli interessi della classe operaia per trovare accesso alla gestione del governo ha caratterizzato tutta la storia del PCI da Togliatti a Berlinguer. Occhetto e D’Alema, Veltroni e Renzi hanno continuato la tradizione in modo analogo a Togliatti e a Berlinguer, proiettando cioè grandiose prospettive di filosofia della storia, sempre in vista di una prospettiva rivoluzionaria, non più internazionalista, certo, – dopo la fine dell’URSS non avrebbe avuto senso – ma globalizzatrice, dunque europeista.
Ci si pone così il compito di abbandonare definitivamente non Marx, tanto meno la sua critica dell’economia, ma la filosofia di Marx, il materialismo storico, in particolare quella sua versione fiacca e banale, quella retorica alla Enrico Berlinguer e ai suoi attuali tristi epigoni, che finisce per usare ‘andare avanti’ e ‘tornare indietro’ e ‘cambiamento’ e ‘conservazione’ come ipotesi politiche, addirittura come categorie storicamente sufficienti. Un compito che solo una filosofia che prenda sul serio lo spessore etico del diritto pubblico e una politica che riscopra l’imprescindibilità del sovranismo possono adempiere.
* È il testo della relazione con la quale Paolo Di Remigio ha presentato il libro di A. Barba e M. Pivetti venerdì 25 a Roma, presso la Facoltà Valdese di Teologia.
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