Cittadinanza: i mille volti dell’appartenenza
di DANILO ZOLO [giurista e filosofo del diritto]
Fonte: juragentium.org (2006)
Sin dagli albori della civiltà, i gruppi umani organizzati hanno mostrato la tendenza a garantire la propria sicurezza separandosi dagli altri gruppi e tracciando dei confini fra “cittadini” e “stranieri”. E al proprio interno ciascun gruppo ha teso a darsi una struttura gerarchica, differenziando i poteri e le responsabilità collettive.
La polis della Grecia classica è un esempio di questa duplice differenziazione. Il cittadino si oppone allo straniero, anche se non tutti gli stranieri sono eguali. I barbari – coloro che non sanno parlare – vengono distinti dagli elleni, che appartengono alla nazione greca avendo in comune lingua, religione e costumi. Il barbaro, non differenziandosi abbastanza per doti intellettuali e morali dall’animale, non può partecipare alla vita della città.
L’elleno, invece, può farne parte, ma solo nella posizione discriminata del “meteco”. Egli non è un cittadino, come non lo sono le donne, i servi, gli schiavi, i poveri. La cittadinanza, sostiene Aristotele nel terzo libro della Politica, deve essere concessa soltanto ai maschi adulti e liberi: liberi anche nel senso che la libertà dal lavoro servile gli consente di partecipare all’ekklesia – l’assemblea nella quale si prendono le decisioni politiche fondamentali -, e di ricoprire le più alte cariche pubbliche, come quelle di giudice, magistrato, sacerdote.
Non molto diversa è la concezione della cittadinanza romana in epoca repubblicana. Anche a Roma il cittadino si identifica con il maschio adulto che sia libero, e sia inoltre un pater familias che esercita la sua potestà sull’intero gruppo familiare, composto dalla moglie, i figli, i liberti, i clientes. Il civis romanus si oppone non soltanto allo straniero non residente, ma anche agli stranieri residenti, alle donne, ai figli, agli schiavi.
La concezione moderna della cittadinanza emerge grazie ai teorici dell’assolutismo monarchico che operano fra il Cinquecento e il Seicento, come Jean Bodin e Thomas Hobbes. Il concetto di cittadinanza perde il suo significato di partecipazione alle funzioni pubbliche ed agli onori ad esse connessi. Essere cittadini equivale ad essere sudditi fedeli e obbedienti del sovrano, soggetti alle medesime leggi e consuetudini, indipendentemente dalle differenze di religione, di lingua e di origine etnica.
Ma è con le grandi rivoluzioni borghesi fra Seicento e Settecento – e con le opere di autori come John Locke e Jean-Jacques Rousseau – che la concezione moderna della cittadinanza si afferma come eguaglianza giuridica di tutti i cittadini in quanto soggetti di diritto, detentori della sovranità e membri della nazione. La sola “ovvia” esclusione riguarda il genere femminile (e, ancora per lungo tempo, i non proprietari).
A parte queste incongruenze, la cittadinanza moderna si afferma come il contenitore di una serie tendenzialmente aperta di diritti soggettivi che possono essere fatti valere anche contro le autorità dello Stato. Sta qui il suo profondo significato filosofico e antropologico, che si ispira alla concezione illuministica e giusnaturalistica dell’individuo. Gli uomini sono esseri razionali, liberi, moralmente responsabili, eguali di fronte alla legge e indipendenti dal punto di vista economico. E i cittadini sono impegnati nella vita politica, ma nello stesso tempo, come sottolinea Benjamin Constant, sono gelosi guardiani della loro sfera privata contro l’intrusione del potere pubblico.
A partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento il modello dello Stato liberale tende a tradursi in forme che sono state definite “liberal-democratiche”. E su questo processo, a partire dai primi decenni del secolo scorso, si è innestata un’ulteriore evoluzione istituzionale che dopo la parentesi fascista e nazionalsocialista ha condotto allo “Stato sociale”. In parallelo si è affermata una nuova concezione della cittadinanza, quella democratico-sociale, che attribuisce a tutti i cittadini, oltre ai diritti civili e politici, anche i “diritti sociali”: a tutti spetta un grado di educazione, di benessere e di sicurezza sociale commisurato agli standards prevalenti entro la comunità politica.
La cittadinanza sociale, come ha sostenuto Thomas Marshall, non può proporsi l’eguaglianza dei redditi, ma può comunque garantire una tendenziale equiparazione fra i cittadini dal punto di vista della salute, dell’occupazione, dell’età e delle condizioni familiari.
Oggi, agli inizi del terzo millennio, dopo la vittoria planetaria dell’economia di mercato, l’ottimismo socialdemocratico sembra aver perso vigore: i diritti sociali sembrano gradualmente smarrire i requisiti dell’universalità e dell’azionabilità giuridica. E non mancano autori, come Loic Wacquant, che sostengono che i processi di globalizzazione, esautorando gli Stati di una parte rilevante delle loro prerogative, tendono a riservare ad essi la sola garanzia dell’ordine pubblico. In questo quadro anche lo Stato sociale tenderebbe ad assumere una prevalente funzione repressiva, divenendo uno “Stato penale”.
Altri autori sottolineano la crescente tensione fra i diritti dei cittadini e le aspettative di masse crescenti di migranti che si accalcano ai confini dei paesi industrializzati alla ricerca di una vita migliore. Grazie alla loro infiltrazione capillare negli interstizi delle cittadinanze occidentali, i migranti esercitano una irresistibile pressione per l’eguaglianza. Ed è la stessa nozione di cittadinanza che sembra sfidata dalla loro fondata richiesta di diventare cittadini pleno jure dei paesi dove vivono e lavorano.
Si tratta di una sfida molto rischiosa perché la stessa dialettica di “cittadino” e “straniero” viene alterata da una pressione che indebolisce il senso di appartenenza e di identità collettiva e mette in crisi le strutture tradizionali dello Stato di diritto. A queste strutture viene rivolta la richiesta di un riconoscimento “multietnico” non solo dei diritti individuali, ma delle stesse identità etniche delle minoranze ospitate.
La replica a queste rivendicazioni da parte degli Stati e delle popolazioni autoctone rischia di scrivere alcune delle pagine più crudeli e luttuose nella storia dell’Occidente. Ma la retorica cosmopolitica che plaude all’idea dell’estinzione degli Stati e al superamento dei valori della cittadinanza nella prospettiva di una governance mondiale non sembra offrire alcuna alternativa credibile e auspicabile.
“Ed è la stessa nozione di cittadinanza che sembra sfidata dalla loro fondata richiesta di diventare cittadini pleno jure dei paesi dove vivono e lavorano”. Fondata? Su quale norma? Cos’è giusnaturalismo? Dipende dai contesto storici, dal numero degli stranieri, da varie condizioni. che la legge può richiedere. Il FSI nel suo documento ha proposto alune condizioni, che non sono “crudeli e luttuose” ma serie e dignitose e in genere meno severe o molto meno severe di quelle che sono legislativamente previste nei paesi di provenienza degli immigrati. Il terzomondismo e l’umanitarismo sono brutte bestie, che possono insinuarsi negli animi più nobili e nelle menti dei pensatori più raffinati, come è Zolo. Ecco le condizioni richieste dal FSI:
“9. Lo straniero regolare può diventare cittadino, per residenza, in presenza dei seguenti requisiti:
– che abbia proposto domanda dopo che siano trascorsi 10 anni di regolare soggiorno;
– che abbia superato un serio esame di lingua italiana;
– che abbia superato un serio esame di storia moderna e contemporanea italiana;
– che abbia superato un serio esame di diritto costituzionale;
– che non abbia riportato sentenze di condanna definitiva o non abbia procedimenti penali in corso nel paese di provenienza o in Italia.
Non è certo il documento del FSI a rientrare nella categoria dei “crudeli e luttuosi”, ma proposte molto radicali come il rimpatrio di massa coatto e simili che oggi sembrano deliranti ma domani, con il crescere di una pressione migratoria irresponsabilmente fomentata, potrebbero riscuotere più ampio consenso in una popolazione esasperata.
Non so. L’articolo è bello ma nel 2006 credo che Zolo avesse ancora una visione troppo aperta della questione. Il passo più che dubbio è quello in cui dice “fondata richiesta di diventare cittadini pleno jure dei paesi dove vivono e lavorano”. Qui sta trattando semplicemente della concessione della cittadinanza, che in molti stati africani dai quali provengono gli stranieri è addirittura legata a criteri puramente etnici (insomma lo straniero non può prenderla). Addirittura sembra che in Nigeria si ostacolino matrimoni tra appartenenti a regioni diverse. Secondo me, invece, dovevamo prevedere anche un ulteriore criterio: per chi è sposato il termine inizia a decorrere dal giorno in cui anche la moglie risiede in Italia. Gli zii di mia moglie hanno lavorato quaranta anni all’estero e venti almeno in Francia ma hanno lasciato la famiglia sempre qua. Non hanno mai nemmeno lontanamente desiderato di acquistare la cittadinanza francese o sostenuto che sarebbe stato giusto che la francia la concedesse a quegli italiani che la desideravano. Erano semplicemente italiani che lavoravano all’estero con famiglia che viveva in Italia.
Ma anche questa restrizione alla concessione della cittadinanza che proponi non mi sembra né crudele né luttuosa.