Fenomenologia della crescita/1
di Claudio Martini Uno dei più insigni, e tuttavia più misconosciuti esponenti della tradizione liberale è Bernard Mandeville (1670-1733). Questo medico, pensatore politico di vaste vedute, interessato di teologia e di filosofia, cultore delle scienza naturale, olandese di nascita e inglese d'adozione, ha goduto del privilegio di vivere nell'epoca della nascita di quei due paese in quanto potenze marittime e commerciali. Olanda e Inghilterra sono infatti intimamente legate da un percorso comune, che le ha condotte, attraverso i loro imperi coloniali, ad una secolare prosperità. Queste due formazioni politiche, modernamente intese (non ci interessa qui la storia dell'Inghilterra medioevale) si forgiano entrambe nel medesimo braciere: la terribile guerra contro la Spagna di Filippo II e del suo successore, Filippo III, desiderosi di imporre l'egemonia cattolica su tutta l'Europa, nonché su tutto l'Atlantico. I cosiddetti “papisti” rimarranno gli avversari mortali di queste potenze emergenti, accomunate dalla fede protestante (tendenzialmente calvinista), fino al rovesciamento del sovrano inglese Giacomo II Stuart, cattolico e assolutista come il di lui cugino Luigi XIV, ad opera del parlamento; questo colpo di stato portò sul trono Guglielmo III d'Orange, non a caso olandese, fu salutato con entusiasmo dal padre del liberalismo politico, il mercante di schiavi John Locke, e viene ricordato come Gloriosa Rivoluzione.
Questo brevissimo excursus storico serve semplicemente a chiarire il quadro storico in cui visse e operò il nostro medico liberale. Mandeville è noto soprattutto per l'opera satirica la favola delle api, ovvero dei vizi privati e delle pubbliche virtù. In essa si descrivono le vicissitudini di un particolare alveare, nel quale la prosperità diffusa, che si riflette nella potenza dell'esercito, si accompagna alla più turpe immoralità. Il quadro dipinto da Mandeville è sconfortante, e dimostra come all'autore fossero chiare le conseguenze sociali del modello liberale: la ricchezza è mal distribuita, con drammatiche diseguaglianze, lo sfruttamento della metà più povera fa il paio con il lusso sfrontato della metà più ricca, nessuna etica è riconosciuta, fuorché quella del profitto ad ogni costo, il potere centrale non riesce a risolvere le piaghe dell'illegalità, dello spreco e dell'ingiustizia, e ogni corporazione sociale-professionale, quella dei medici come quella dei sacerdoti come quella degli avvocati, contribuisce da par suo al degrado morale, frodando il resto della popolazione e sperperando il maltolto.
E tuttavia: « Essendo cosí ogni ceto pieno di vizi, tuttavia la nazione di per sé godeva di una felice prosperità. era adulata in pace, temuta in guerra. Stimata presso gli stranieri, essa aveva in mano l'equilibrio di tutti gli altri alveari. Tutti i suoi membri a gara prodigavano le loro vite e i loro beni per la sua conservazione. Tale era lo stato fiorente di questo popolo. I vizi dei privati contribuivano alla felicità pubblica…Le furberie dello stato conservavano la totalità, per quanto ogni cittadino se ne lamentasse. L'armonia in un concerto risulta da una combinazione di suoni che sono direttamente opposti. Cosí i membri di quella società, seguendo delle strade assolutamente contrarie, si aiutavano quasi loro malgrado. »
Vi ricorda qualcosa?
La storia prosegue con un evento rivoluzionario: Giove, dall'alto dell'Olimpo, ascoltando le continue, inconcludenti lamentele (in genovese: mugugni) delle api, scontente di vivere, anzi prosperare, un sistema così scandaloso e perverso, concesse all'alveare la virtù; e da allora l'onestà si impadronì della società delle api.
Fu un vero cataclisma. Nessuno più mentiva, nessuno più raggirava, tutti saldavano spontaneamente i propri debiti, e questo portò alla chiusura dei tribunali, e alla disoccupazione di giudici e avvocati. Dato che il crimine e la malversazione erano spariti, anche l'apparato repressivo risultò superfluo: non ci rimisero solo guardie e carcerieri, ma persino i fabbri smisero di produrre lucchetti e casseforti. La ventata di moralità e parsimonia non riguardava soltanto delitti e mariuoli, ma anche i consumi: l'industria del lusso era in crisi, perché più nessuno indulgeva in acquisti volgari che, oltrettutto, costituivano uno schiaffo alla miseria. Decaddero tutte le arti, dalla musica all'architettura, in quanto nessuno più ricercava, e finanziava, il bello, il particolare, il raffinato.
« A misura che diminuivano la vanità e il lusso, si videro gli antichi abitanti abbandonare la loro dimora. Non erano più né i mercanti né le compagnie che facevano decadere le manifatture, erano la semplicità e la moderazione di tutte le api. Tutti i mestieri e tutte le arti erano abbandonati. La facile contentatura, questa peste dell'industria, fa loro ammirare la loro grossolana abbondanza. »
L'indole pacifista, che ora caratterizzava le api redente, cagionò la debolezza dell'esercito: e l'alveare veniva ora attaccato da tutti coloro che fino a ieri erano suoi tributari. Le api combatterono valorosamente e vinsero, ma a caro prezzo, con la morte di parecchie migliaia di loro. Quelle rimaste, sfiancate dal duro ma onesto lavoro e dalla guerra non volendo più vivere in un alveare dove rinascesse il lusso e l'ingiustizia se ne andarono ad abitare nel cavo di un albero «dove a loro non resta altro, della loro antica felicità, che la contentatura dell'onestà.»
La conclusione che l'autorevole liberale trae è la seguente: la sola virtù non solo non conduce le nazioni alla grandezza, ma può trascinarle nella rovina: la maggior parte dlele attività umane è determinata dal vizio, e chi pensa di estirparlo per sempre complotta per paralizzare la la creatività, l'inventiva e l'operosità.
A questo punto è importante sottolineare un fatto: l'autore di questo panphlet sotto forma di favoletta potrebbe apparire come un vizioso, un uomo di facili costumi e dalle frivole abitudini. Errore: Mandevelle era un liberale, non un libertino. Era un calvinista ossessionato dalla teologia, un puritano perseguitato dell'idea di peccato. L'uomo che elogiava il vizio fino a fargli assumere il rango di categoria necessaria la benessere della società era lo stesso che proponeva pubblicamente di vietare il consumo di alcolici ai membri delel classi inferiori e di rendere loro obbligatoria l'assidua frequentazione della chiesa. Per Mandeville la virtù è «ogni atto con cui l'uomo, andando contro l'impulso della natura, ricerca il vantaggio degli altri, o la vittoria sulle sue passioni, per un'ambizione razionale di essere buono»: da cui si evince che la natura umana, assunta come esistente, è vista come ontologicamente malvagia ed egoista. Questa visione deriva dll'interpretazione calvinista dell'Antico Testamento.
La descrizione dell'alveare ci rimanda inevitabilmente alla condizione degli U.S.A, il grande paese le cui istituzioni sono permeate di liberalismo e calvinismo, l'erede ideale (e biologico) dell'Olanda e dell'ighilterra secentesche. Un paese in effetti temuto per la sua potenza militare, un paese ricchissimo, un paese dove l'illegalità impazza ad ogni livello: le mafie trovano la propria culla nelle grandi città U.S.A. (non era Lucky Luciano che diceva “lo stato si occupa della pubblica virtù, noi dei vizi privati”?), mafie nate e cresciute per il commercio di merci proibite dalla moralità puritana dell'opinione pubblicana WASP (ieri l'alcol, oggi la droga). La grande repubblica nordamericana ha il più severo sitema repressivo dell'occidente, ma anche i più alti tassi di criminalità, la più ingente popolazione carceraria e la più alta percentuale di morti per armi da fuoco. Gli stati uniti sono un coacervo di contraddizioni: sono contraddistinti dai costumi sessuali più castigati dell'occidente, eppure è negli U.S.A. Che viene prodotto l'80% della pornografia di tutto il mondo. Non c'è che dire, Mandeville ha fatto proseliti!
Al sistema liberale, che trae le sue radici dal protestantesimo calvinista, un sistema che trasforma le passioni in insulti alla morale, e che prevede una necessaria quota di disperazione, di crimini e di sprechi per poter funzionare (il produttore puritano ha bisogno del consumatore frivolo), una concezione che considera gli uomini incapaci di autoregolarsi, cosa che rende inevitabile l'impianto di un feroce sistema repressivo, noi dobbiamo contrapporrre un altro pensiero, un'altra cultura. Propongo di partire da quanto scritto da un acuto intelletuale di poco successivo a Mandeville, Samuel Johnson, noto per il suo talento e per il suo stile di vita godereccio, il quale notò a proposito della favola: “la fallacia di quel libretto sta in ciò, che Mandeville non definisce né il vizio né la virtù. Egli annovera tra i vizi qualunque cosa regali piacere. Egli assume il più duro dei sistemi morali, quello monastico, che considera il piacere in quanto tale un vizio (..) il piacere non è di per sé vizio”.
Johnson demolisce il sistema dell'immoralità al servizio del bene comune (ossimoro dialettico) introducendo il concetto di misura. Se è vero che non tutti i piaceri sono peccaminosi, è necessario tracciare una linea di demarcazione tra ciò che dà godimento senza effetti nocivi, e ciò che va combattuto proprio a causa dei suoi effetti nocivi. La misura, categoria elaborata dai greci, implica il controllo: quel controllo che lo stato centrale di Mandeville non può fare, pur essendo così burocratico, violento e invadente, per via della lotta che deve condurre contro il vizio, pietra angolare dell'economia. La misura tutela il piacere e abbatte lo spreco, ma questo è al di là della portata dei puritani capitalisti, incapaci di trovare una via di mezzo, una mesotes tra la morale del gangster e quella del francescano. La misura, non la virtù monastica o il vizio capitalista, è la bandiera di chi combatte i liberali di ieri e di oggi, è la bandiera di chi sceglie Atene a Gerusalemme, di chi non è disposto a barattare il benessere con l'accettazione dell'ingiustizia e dell'immoralità.
La misura. E' un conc tto su cui ragionavo da parecchio tempo. Un concetto veramente intrigante. C'è una misura del vantaggio e dello svaltaggio; del privilegio e della sfortuna. Solo la richezza però si valorizza nella misura. La bontà, l'intelligenza, la passione, la forza, l'ambizione, la dedizione, la vocazione, il desiderio, il perdono, la punizione non hanno misura. Si valorizzano nel massimo, nello smisurato. L'amore smisurato; la passione smisurata, l'ambizione smisurata, la forza smisurata. Solo la giustizia deve essere misurata. Le altre virtù devono essere smisurate. Senza essere ingiuste, naturalmente.
Articolo notevole
Ben prima di Mandeville e Johnson ci fu tale Aristotele che mise in chiaro la questione con il suo celebre aforisma: In medio stat virtus.
Medio, quello della Santanchè. La virtù sta tutta lì, parrebbe.
E' un bell'articolo che avrebbe bisogno di parecchi approfondimenti. Ad esempio il rapporto tra etica protestante e metodi tutt'altro che etici di sistemare le questioni sociali così come esposte nell'articolo.
La favola delle api di Bernard de Mandeville è una metafora protocapitalistica, nata nei contesti culturali di quella che io chiamo la “prima società della crescita”, che non riguarda soltanto il celeberrimo modo di dire riassunto in “vizi privati e pubbliche virtù” e adottato fino ai giorni nostri, ipotizzando una funzione positiva dell’immoralità al servizio di un ipotetico bene comune, ma nasconde soprattutto lo scardinamento del metron, traducibile con il “giusto mezzo”, a favore di quella che sarebbe diventata l’illimitatezza capitalistica nei contesti della seconda società della crescita [quella capitalistica propriamente detta].
Nella discussione, che si preannuncia stimolante data l’intelligente critica e l’articolata disamina di Claudio Martini, dovrebbe intervenire Costanzo Preve che a questa cruciale questione ha dedicato moltissime pagine, in veste di filosofo sociale, di libero allievo di Marx, di comunitarista e di irriducibile anticapitalista.
Invece intervengo io [bisogna accontentarsi …] per stabilire un parallelo, non so quanto proprio o improprio, fra la favoletta raccontata da de Mandeville e la più celebre e posteriore The Wealth of nations del protoeconomista Adam Smith, bibbia capitalistica riconosciuta, in cui vi è il seguente passaggio, universalmente noto e utilizzato dalle generazioni per la legittimazione del rapporto sociale capitalistico:
Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo, e parliamo dei loro vantaggi e mai delle nostre necessità. [Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, Libro I, Capitolo II]
La vera “benevolenza” alla quale fa riferimento il pensatore scozzese, non è certo una semplice attitudine erroneamente attribuita all’uomo, ma lo schermo dietro il quale si nascondono, con tutta evidenza, la socialità, i vincoli comunitari, il solidarismo, una concezione dell’esistenza non imbrigliata nei rapporti economici, e l’Etica stessa, ed è proprio questa “benevolenza”, nella realtà, che Smith ha cercato con tutte le sue forze e la sua abilità letteraria di negare, come se fosse una qualità inesistente, il prodotto di pura fantasia, non potendo in alcun modo informare le azioni umane nei confronti del prossimo.
Chi può riuscire ad avere maggior successo se i rapporti sociali si basano unicamente sull’interesse personale e sull’egoismo individuale nello scambio, regolati dalla fantasmatica ed onninvasiva Mano Invisibile del Mercato?
E’ ovvio che il successo arriderà soltanto a chi riuscirà a far prevalere la considerazione del suo interesse personale su quello di tutti gli altri individui con i quali si trova in relazione, e perciò inevitabilmente in competizione.
La misura del successo individuale, la stessa posizione del singolo nella scala sociale, in quest’ottica, non potrà che essere data dall’acquisizione di maggiore ricchezza e potere, a scapito degli altri.
La “considerazione dell’interesse personale” in una società da ridurre completamente ad una semplice rete di scambi commerciali, nella formalizzazione e nella sacralizzazione della primitiva “legge del più forte”, mascherata nel riconoscimento dei diritti individuali alla proprietà ed all’iniziativa economica privata, acquista un contenuto ideologico e addirittura messianico, operando così una frattura insanabile con il mondo culturale precedente e preconizzandone il superamento.
In un certo senso, la Favola delle api d’inizio Settecento funge da complemento alla “considerazione dell’interesse personale” quale vero motore che muove i singoli nelle reti dei rapporti sociali soggetti ad una progressiva economicizzazione, poiché può essere letta come una metafora dell’autonomizzazione dell’economia dalla morale, e quindi un contributo all’autofondazione dell’economia su stessa, dopo aver spazzato via l’Etica, la Filosofia, la Politica, e Dio.
Per Claudio Martini: continua così, che sei sulla strada giusta!
Eugenio Orso
Sono molto contento dell'accoglienza ricevuta dal mio articoletto. In effetti il tema avrebbe meritato ben altro approfondimento, ma il tempo a mia disposizione non è molto. Tenterò di compensare con i prossimi articoli della serie "fenomenologia della crescita attraverso le opere di ingegno", che voleranno forse più basso, ma saranno anche un pò più "leggeri"
E per Orso una citazionedi Elie Halevy:"The economic doctrine of Adam Smith is the doctrine of Mandeville set out in a form which is no longer paradoxical and literary, but rational and scientific."
L’individuo si costituisce all’interno di specifiche formazioni economico sociali: questo il grande contributo di conoscenza degli studi sociali, da Marx alla sociologia che si è sviluppata successivamente.
Ciò significa uscire dalle visioni astratte (Kant, Rousseau, Hobbes, ecc.) secondo le quali per pensare all’individuo occorre teorizzare uno “stato di natura” originario, paradisiaco per Rousseau, di homo homini lupus per Hobbes, ecc.
In fondo la parabola di Mandeville e la teoria della mano invisibile di Smith, hanno ancora in comune quell’orizzonte. E sono state funzionali a fondare ideologicamente il sistema di sfruttamento capitalistico del lavoro.
Esiste una sterminata letteratura che dimostra come storicamente le cose non stanno affatto così ma anzi lo sviluppo produttivo e sociale sono favoriti da condizioni relazionali assai diverse da quelle dei vizi privati che creano pubbliche virtù. Rispettare i patti, contrarre matrimoni tra etnie diverse, soccorrere i parenti in difficoltà, rimettere i debiti, prestare il proprio lavoro a favore del campo altrui, in poche parole, la reciprocità, nella storia dell’essere umano, è il modo più normale per “tenere insieme” le società ed i popoli e farli progredire. I libri di storia spesso queste cose non le raccontano. Per dimostrare quanto detto, se interessa, posso produrre opportuna bibliografia.
Ciò detto, il concetto di misura non significa un bel nulla, anzi fa erroneamente pensare che si tratti di trovare una via di mezzo tra il buonismo rinunciatario e l’arroganza dei predatori.
Il problema è un altro, e ben più complesso: analizzare e se possibile attualizzare le specifiche condizioni politiche, economiche e sociali che favoriscono modi di convivenza a somma positiva.
E’ precisamente questo il motivo che mi rende molto sospettoso verso le ipotesi di centralizzazione statale che vedo apparire su questo blog.
Di fronte alla disgregazione prodotta dal liberismo e dalla globalizzazione sarebbe un grave errore, assai poco dialettico, pretendere di affidare tutti i poteri ad un organismo statale centralizzato, con la speranza che esso possa ricostituire quella sovranità (monetaria, economica, fiscale, educativa, ecc.) oggi detenuta dai mercati finanziari.
Non è un problema di “misura” ma di configurazione economico sociale.
Se, come credo, il cambiamento in atto richiede di porre potentissimi freni alla finanziarizzazione, alla globalizzazione ed alla privatizzazione,
se, come credo, è necessario riconquistare in primo luogo la sovranità monetaria, uscendo dall’Euro, cancellando il debito e nazionalizzando le banche,
se, come credo, è necessario introdurre dispositivi di semplificazione della complessità del gioco democratico e scardinare il potere dei mass media;
se, come credo, è necessario disporre di apparati pubblici efficientissimi per il controllo dei movimenti di capitale, per la lotta all’evasione fiscale, per contrastare le mafie e più in generale per garantire il rispetto della legge…se tutto ciò è necessario per la transizione,
allora a maggior ragione occorre porsi da subito il problema dei checks and balances, ovvero quali antidoti, quali correttivi interni al sistema è necessario “coltivare”, affinché la transizione non trasformi le nostre società in una gabbia d’acciaio e non sbocchi nella dittatura dello Stato sulla Società.
La risposta sta nella frase con cui ho aperto il discorso: dare spazio a quelle formazioni economico sociali “positive” in cui operano ed agiscono gli italiani.
Questo è il punto di forza, la risorsa che consentirebbe di tollerare l’inevitabile centralizzazione, compensandola con un di più di partecipazione (che non significa solo andare alle manifestazioni, ma anche poter creare una impresa).
C’è lavoro per i sociologi, magari indagando sul capitalismo molecolare del Nord-Est, sulla Terza Italia, i Distretti industriali, le reti di piccole imprese, il made in Italy, il design, le forme di cooperazione tra produttori, commercianti e banche locali, ecc.
Ma anche le scuole di formazione professionale di origine cattolica, il mutualismo operaio di inizio 900, il modello Coldiretti degli anni 60 e 70, l’idea di impresa industriale di Camillo ed Adriano Olivetti ed ancora il localismo dei 100 comuni.
Sono convinto che la storia economica e sociale recente del nostro paese contenga veri e propri giacimenti, ahimè oggi tutti in rapida consunzione.
Recuperare le energie di cooperazione sociale, ciò che in modo un po confuso alcuni studiosi defiscono il “capitale sociale”, è la seconda gamba su cui deve reggersi il cambiamento in atto.
Questa è ciò definisco una visione dialettica della rivoluzione. http://romanocalvo.wordpress.com/