Mélenchon e Le Pen come Hollande, Tsipras e Trump, ovvero: l’era in cui i programmi elettorali non contano più nulla
di RICCARDO PACCOSI (FSI Bologna)
La deriva estremista del liberismo-globalismo, deve portare tutte le persone ragionevoli e moderate a considerare quest’ultimo come male assoluto. Per giungere a tale conclusione, forse sarebbe stato sufficiente il progetto neoliberista – disvelatosi con la fase dell’austerity – di distruggere ogni forma di protezione sociale conquistata nel Novecento e di estinguere progressivamente la classe media. Il fatto, però, che a quanto appena detto si aggiunga oggi anche una “guerra mondiale a pezzi”, implica la priorità assoluta che il liberismo-globalismo venga sconfitto elettoralmente in ogni paese dell’ex-occidente.
Questo contesto di estremismo liberista, conduce dunque a una situazione paradossale riguardo alle elezioni presidenziali in Francia: il candidato della sinistra socialista Jean-Luc Mélenchon e la candidata post-fascista Marine Le Pen sono accomunati dal fatto di consentire due ipotesi geopolitiche – in caso di vittoria dell’uno come dell’altra – decisamente positive per gli altri paesi europei:
a) la messa in discussione del Trattato di Stabilità europeo e, conseguentemente, la possibile destrutturazione istituzionale dell’Unione europea; prerequisito, quest’ultimo, ormai irrinunciabile per la nascita d’un nuovo patto di fratellanza fra i paesi europei; un patto che ripudi l’attuale organicità fra dirigenti eurofederali e banche d’affari americane e che inverta, quindi, la devastazione sociale ed economica provocata da Commissione Europea e BCE negli ultimi sei anni;
b) la messa in discussione della Nato; se un paese strategicamente rilevante come la Francia si smarcasse dalla prospettiva atlantista, questo non bloccherebbe ma certo porrebbe un grosso ostacolo alla strategia delirante e criminale degli Stati Uniti di far precipitare il mondo intero in uno scenario di guerra.
Quindi, possiamo dire che le cose stanno andando bene?
La risposta è no, non stanno andando bene per niente.
Il problema delle due ipotesi sopra formulate, infatti, risiede nel fatto ch’esse poggiano esclusivamente su quanto viene enunciato nei programmi elettorali di Mélenchon e della Le Pen. Nell’attuale fase storica, purtroppo, abbiamo invece appurato che i programmi elettorali possono non soltanto essere disattesi, ma finanche risolversi in azioni politico-amministrative dal contenuto squisitamente opposto.
Gli esempi più recenti ed eclatanti di quanto appena affermato, sono tre.
1) Nel 2012, Francois Hollande diviene Presidente della Repubblica Francese sulla base d’un programma orientato a politiche sociali e recante l’annuncio del ripudio del Fiscal Compact. Risultato: cinque anni di politiche ultra-liberiste sul lavoro, tagli alla spesa pubblica, nessuna messa in discussione dei vincoli di stabilità.
2) Nel 2015, Alexis Tsipras diviene Primo Ministro della Grecia sulla base d’un programma che, fin dal principio, enuncia la necessità d’essere in parte disatteso. Il leader di Syriza diviene infatti premier promettendo da una parte l’aumento della spesa sociale pubblica e, dall’altra, garantendo il rispetto del Trattato di Stabilità. Essendo evidentemente le due cose del tutto incompatibili, una delle due promesse doveva necessariamente finire infranta. Abbiamo tutti visto, alla fine, quale scelta d’infrazione il “realismo politico” della sinistra abbia imposto.
3) Nel 2016, Donald Trump diviene Presidente degli Stati Uniti sulla base d’un programma recante l’annuncio di una distensione nei compromessi rapporti russo-americani. Abbiamo tutti visto, con l’attacco alla Siria di alcune settimane fa, come l’indirizzo dell’amministrazione americana abbia perfettamente capovolto gli annunci della campagna elettorale.
Questi casi d’invalidazione dei programmi elettorali, portano spesso le persone a interpretare tali vicende in chiave moralista, parlando di “tradimento” e di responsabilità soggettive del leader politico di turno. Ebbene, questo tipo di approccio non consente però di comprendere perché questo fenomeno possa accadere in maniera tanto ricorrente e, soprattutto, così impunemente.
Io reputo invece che i motivi da investigare risiedano nella mancanza – all’interno del fronte sociale e politico che si oppone al liberismo-globalismo – di un pensiero forte e strutturato nonché di organizzazioni di massa che coordinino e indirizzino l’azione dei governanti eletti.
Per quanto riguarda il primo punto, vediamo critiche al liberismo che faticano – soprattutto nel campo della sinistra – a cogliere i nessi fra quest’ultimo e la progressiva perdita di sovranità degli stati nazionali e delle loro Costituzioni.
Quando invece il nesso viene colto, come nel caso della Le Pen, tutto viene però declinato in una risposta che è speculare a quella dei neoliberisti: questi ultimi, difatti, propongono di risolvere la complessità del presente abolendo il costituzionalismo e tornando a un assolutismo oligarchico che mantenga le forme della partecipazione popolare; parimenti, la Le Pen e la costellazione rossobruna ritengono che una svolta securitaria e post-democratica sia la risposta più corretta a quella che è, al contrario, una crisi della sovranità popolare e quindi del controllo popolare sulle istituzioni statali.
Tutte le formazioni politiche esistenti, in altre parole, sembrano non cogliere il fatto che la crisi della sovranità popolare può essere risolta solo riedificando la democrazia e, quindi, strutture che esprimano effettivo e diretto potere popolare quali le organizzazioni di massa; le formazioni politiche esistenti preferiscono, invece, la seduzione e la semplificazione delle opzioni post-democratiche.
In relazione diretta col problema dell’assenza d’un pensiero forte, viene dunque il tema delle organizzazioni di massa. I partiti, i sindacati e i corpi intermedi governati dalla massa sono in via di estinzione e, in questa fase, le formazioni elettorali risultano essere nulla più che apparati di comunicazione e marketing messi al servizio del progetto politico-personale del leader di turno. Come stupirsi, quindi, se quest’ultimo una volta eletto riesce a disattendere il proprio programma elettorale senza doverne pagare alcun prezzo? Come stupirsi, quindi, se il leader neo-eletto cede sul programma elettorale non appena gli giunge il primo diktat da parte delle élite sovranazionali?
Tutto questo – unitamente ai fattori storici e soggettivi di sfiducia che, per ragioni diverse, gli attuali socialisti nonché i post-fascisti meritano ampiamente – inducono a guardare alle elezioni francesi con interesse sì, ma senza commettere per l’ennesima volta l’errore di riporre speranze su quelle che sono, al momento, nulla più che dichiarazioni d’intenti.
Cosa non fareste per smarcarvi da chi vi accusa di essere fasci neh?
Persino rispolverare il termine “rossobrunismo” che piace tanto ai vari cuochi trotzkisty.
La dignità, questa sconosciuta.
Gli argomenti razionali, questi sconosciuti.
Eh, già, la razionalità di usare il linguaggio di un Evangelisti qualunque.
Tanto non riuscirete a togliervi la qualifica di “fasci” (o, appunto, di rossobruni) da quei 5 sfigati a cui date tanta importanza, mettetevi il cuore in pace.
Io, autore dell’articolo, sono contro la destra e contro la sinistra. Parimenti, il FSI non si definisce né di destra né di sinistra. Chi ha problemi con la prima parte di questa locuzione (cioè quella riguardante la destra), penso non abbia ben chiaro quale sia la prospettiva sovranista.
E che mi frega a me di come vi definite?
Non sono un vostro tesserato ne ho intenzione di tesserarmi in un partito immigrazionista con vaghissime venature legalitarie.
Ed anche se fosse, da fascista, non sono di destra (o di sinistra, o di centro) perché non mi interessano le sfumature del modello liberalcapitalista.
Quello che contestavo è il tentativo di smarcarsi dal FN (boh…) usando un linguaggio da centrosocialari chic fine anni 90.
Che per chi non si identifica con “destra e sinistra” sembra quantomeno…contraddittorio?
Mettilo tu il cuore in pace. Il giudizio degli altri non ci interessa, né quello degli “sfigati” né il tuo. Ci interessa soltanto il nostro. Noi abbiamo un progetto e lavoriamo per quello. Tu lavora per un altro.