“Nulla è più anarchico del Potere” (processo al ’68)
di LUCA RUSSI (FSI Arezzo)
1. Senza partiti non si fa nessuna “rivoluzione”, e le rivoluzioni non si fanno contro “lo Stato”.
2. I partiti non servono a niente, facciamo piuttosto la Rivoluzione contro lo Stato.
Secondo voi, a naso, quale delle due affermazioni sposerebbe la stragrande maggior parte dei cittadini di questo Paese, oggi?
(Esatto)
E come siamo arrivati a introiettare questo tipo di affermazioni, vale a dire attraverso quali passaggi della Politica e della Storia?
Proverei a fornire una spiegazione a partire da una suggestione. Qualche tempo fa, leggendo su Facebook il post di un amico che parlava di libertà e giustizia sociale, sono stato colpito da un commento polemico fatto da un’altra persona, che suonava più o meno così: “Ma che vuol dire ‘società’?! La società non è altro che la somma di più individui”.
Trovando l’affermazione davvero desolante, la cosa mi indusse a fare qualche riflessione sui concetti di cui sopra, soffermandomi a ragionare su un giro di anni evidentemente cruciali che successivamente vennero definiti, con un bel po’ di retorica, “formidabili”: sto parlando, naturalmente, degli anni della contestazione.
Perché proprio il ‘68, direte voi? Perché sono convinto, non da ora (e non da solo, naturalmente), che sia stato proprio quello il momento in cui diversi nodi sono venuti al pettine, e anche che da allora qualcosa si sia rotto, in un certo senso, determinando (o concorrendo a determinare) una pesante sconfitta per tutti.
Ovviamente non ho la pretesa di fare analisi approfondite, un po’ perché bisognerebbe inquadrare una serie di eventi che produssero una forte impressione su quelle giovani generazioni (dal Vietnam alla Cina, passando per la Rivoluzione cubana), e poi anche perché gli aspetti che confluirono nello “spirito del tempo” furono talmente complessi da non poter certo essere affrontati in due righe.
Premetto inoltre che non intendo fare disamine approfondite ma solo qualche considerazione personale (anche se, per fare il verso ad uno slogan dell’epoca, “il personale è politico”: per cambiare il mondo occorre prima di tutto cambiare sè stessi, la propria cultura e la propria mentalità, mettendo in discussione un po’ tutto il modo di pensare dell’ epoca in cui siamo immersi). Ma arrivo al punto.
Le posizioni politiche che animarono la stagione del ’68, viste alla luce degli sviluppi successivi, sono, come già detto, non solamente complesse ma anche in buona parte in stridente contraddizione fra di loro, ed i germi di questa contraddizione, i cui frutti avvelenati si manifestarono nei decenni successivi, vanno ricercati in nuce nello stesso Movimento.
Infatti, i giovani ribelli dell’epoca, oltre che battersi per la totale collettivizzazione della società e per il rifiuto più intransigente dei valori dominanti dell’epoca, identificati con ottime ragioni nel consumismo e nell’individualismo competitivo, volevano anche, per usare ancora un’espressione di quei tempi, «sparare sul quartier generale»: vale a dire che la “cifra” più caratterizzante di quegli anni consistette nella intransigente contestazione di ogni principio di autorità.
Il risultato del mix fu un collettivismo libertario estremamente irriverente ed agguerrito. Ora, se un filone del pensiero politico (socialista) ha sempre cercato, sin dai tempi di Salvemini, Rosselli e Turati, di coniugare, molto problematicamente ma in qualche caso altrettanto validamente, per la verità, la libertà con la giustizia sociale (https://www.youtube.com/watch?v=VzcV-jTP3go ), è anche vero che la modalità di ribellione di quegli anni si trasferì ben presto dal contestare l’autoritarismo al contestare ogni forma di autorità tout court.
E infatti gli studenti, che non si ispiravano certo alla Costituzione – essendo casomai il loro modello più vicino a quello della Comune di Parigi del 1871 -, pretendevano che tutto potesse essere deciso con il metodo della democrazia diretta (tanto che, con gli eccessi che si verificarono durante le loro assemblee, si attirarono da parte di qualcuno le accuse di “fascismo rosso”). Nel sostenere questa inderogabile necessità, presero quindi a contestare ferocemente non solo i partiti al governo ma anche il Pci, i sindacati e tutte le forze politiche in generale, fossero esse “di sinistra” o “di destra”, che venivano percepite tutte indistintamente come “borghesi” o comunque “anti-rivoluzionarie”.
Quindi, in definitiva, dal momento che oggetto della loro critica divennero tutti i cosiddetti corpi intermedi attraverso i quali poter influire nei processi politici della società, non gli rimase che rifugiarsi nei miti “esotici” della Rivoluzione Culturale cinese e del Che Guevara, innegabilmente molto più “romantici”. Ma nella loro foga di opporsi con forza a qualsiasi modello politico o culturale dell’Occidente, non si accorsero di aver determinato una falla, a ben vedere anch’essa di natura politica: alla fine, a forza di contestare tutto, su cosa si darebbe dovuta (ri)fondare la società?
In poche parole: se i partiti non andavano bene, lo Stato “borghese” neppure (e la famiglia con le sue convenzioni nemmeno), cosa rimaneva? La “Rivoluzione”, forse? Portata avanti da chi? O, in senso più lato, le cosiddette “comuni” attraverso le quali poter intraprendere percorsi di “crescita personale”, forse?
Il problema è che raramente ci si preoccupò di elaborare dal punto di vista teorico, evidentemente: più che altro si provava a coniugare con la massima “coerenza” possibile pratiche concrete di vita e idee di lotta rivoluzionaria (“il personale è politico”, appunto). Inevitabilmente, però, la spinta – pur straordinaria e non priva di positivi elementi di “rottura”- , dopo aver fatto tabula rasa di una serie di punti di riferimento, si esaurì, lasciando insoluti due ordini di problemi.
Il primo riguarda le modalità di partecipazione alla vita politica, con delle ricadute molto pesanti, anche di natura ideale o ideologica, sul versante del concetto di rappresentanza politica, che qualche decennio più tardi presentarono il conto sotto forma di una pressochè totale perdita di identità “valoriale” collettiva.
Togliendo forza proprio a quell’idea di partecipazione tramite la militanza in quelle particolari associazioni politiche definite dalla Costituzione come le sole legittimate ad esercitare la rappresentanza popolare nelle istituzioni democratiche (ex art. 49) e non riconoscendone alla base la stessa funzione democratica, si finiva per promuovere un attivismo “rivoluzionario” un po’ di maniera, tutto fondato sul mito della rivoluzione operaia, che portò alla nascita di infiniti piccoli gruppi d'”area” (che oggi si definirebbe “antagonista”), qualcuno nato attorno a giornali, riviste o perfino radio, ed ognuno convinto di possedere – lui solo – la giusta visione (i più importanti e famosi erano Autonomia Operaia, Lotta Comunista, Avanguardia Operaia, Lotta Continua, il gruppo del giornale “Il manifesto”, ma ce n’ erano molti altri).
E’ chiaro che sto enfatizzando l’aspetto politico-culturale: storicamente non si può certo attribuire al Movimento studentesco l’intera responsabilità della odierna crisi della rappresentanza politica (non fosse altro perchè in più di una occasione, per un certo tempo ed anche successivamente, esso riuscì perfino a saldarsi con le lotte operaie, a fronte di linee politiche e sindacali a volte troppo timide e remissive). Anzi, il discorso si potrebbe perfino ribaltare, andando ad analizzare cosa funzionò – e cosa meno – nell’ultima parte della stagione del centro-sinistra (quello a guida Moro) che, dopo la battuta d’arresto impressa dai fantasmi di un colpo di stato orchestrato di concerto con un generale infedele dei Carabinieri, si caratterizzò per una eccessiva prudenza sconfinata per certi versi in un sostanziale immobilismo.
Nel complesso, però, i governi di quegli anni, anni in cui una parte della Dc aprì “a sinistra”, seppero prendere diversi provvedimenti nella giusta direzione di una maggior giustizia sociale e di una sana modernizzazione del paese: basterebbe ricordare la costituzione del Ministero delle Partecipazioni Statali, la nazionalizzazione dell’energia elettrica e la stessa idea di programmare i processi economici a livello di piani di governo per dare un’ idea dell’importanza dei temi all’ ordine del giorno nel dibattito politico dell’epoca…
Questi indirizzi, tuttavia, vennero parzialmente sabotati dai settori più retrivi della grande industria oltre che da correnti interne agli stessi schieramenti, e non sempre seppero incidere a sufficienza per risolvere i nodi che si erano posti fin dal decennio precedente. Nodi che probabilmente avrebbero richiesto di imprimere uno slancio maggiore ai propositi di chi – sulla base del dettato costituzionale – avrebbe voluto caratterizzare in senso maggiormente dirigista le politiche economiche ed industriali del governo (si pensi ai precedenti tentativi in questo senso, già ai tempi di De Gasperi, del Piano Vanoni per la Dc, e ancora prima, di quello Di Vittorio per la sinistra – anche se a ben vedere alcuni aspetti di quest’ultimo, quelli relativi per l’appunto alla nazionalizzazione dell’energia elettrica o alla realizzazione di piani di edilizia popolare vennero portati a compimento più tardi, proprio sotto il diciassettesimo governo della Repubblica, a guida Fanfani).
Tutti questi sforzi, insomma, vennero aspramente contrastati o variamente ostacolati dai settori di cui sopra, con l’intento, da una parte, di puntare tutto su una certa visione di matrice atlantista (gradita per lo più a Confindustria che, nonostante diverse aperture, rimaneva sempre comunque molto critica riguardo ai compiti dello Stato in economia).
Tale visione consisteva in una sempre maggiore integrazione commerciale a livello di Mercato Comune europeo che forniva la possibilità di orientare la produzione essenzialmente sull’esportazione di beni di consumo di massa, da sostenere mediante l’impiego di abbondante manodopera fornita dalle campagne che si spopolavano, soprattutto al sud (elemento quest’ ultimo che mal si conciliava con i propositi di perseguire obiettivi di tendenziale piena occupazione e riduzione degli squilibri tra le diverse aree del Paese).
Dall’altra parte (Pci), questi sforzi vennero molto poco convintamente supportati, per la paura di venire scavalcati nella lotta per conquistare l’egemonia “a sinistra” e per il timore di poter essere accusati oltre-cortina di scendere a patti col “nemico”, appoggiando (anche se dall’ esterno) “derive” di stampo “socialdemocratico”.
Il risultato fu che in una situazione generale del Paese caratterizzata da momenti di forte conflittualità, mancando la necessaria coesione in seno alle coalizioni di governo ed anche il necessario maggior sostegno popolare alle buone intenzioni di quegli anni (testimoniate anche dal dibattito a livello congressuale all’ interno delle diverse anime della Dc e del Psi), la stagione del cosiddetto “boom economico” perpetuò anche squilibri, e non produsse solo benessere e maggior progresso sociale.
I problemi derivanti dall’esclusione di ampi strati di popolazione da questo rinnovato benessere (“l’attesa della povera gente“, con le parole di La Pira) erano ben presenti ai protagonisti della politica di quegli anni, durante i quali (è bene ricordarlo) comunque si superarono abbondantemente i tassi di crescita del 5% all’anno che per Vanoni sarebbero stati necessari per produrre piena occupazione, ridurre lo squilibrio tra il Nord e il Sud dell’Italia ed eliminare con effetti duraturi il deficit della bilancia dei pagamenti.
Anche questi aspetti, dunque, per così dire di delusione per la (parziale) mancata occasione storica, furono perciò determinanti per scatenare il malcontento di coloro che avvertivano il pericolo di essere lasciati ai margini, nonostante gli sforzi per dotarsi di maggiori competenze (anche con la laurea non era certo automatica la possibilità di trovare un posto di lavoro); le pessime condizioni dell’ Università, infine, fecero da detonatore.
Faccio tutte queste precisazioni per evitare di essere accusato di semplificazioni eccessive, naturalmente; non voglio certo sostenere che le responsabilità della stagione successiva possano essere attribuite tutte ad una parte sola. Tanto più che la crisi vera e propria della rappresentanza politica per i partiti tradizionali si manifestò con effetti dirompenti solo alcuni anni dopo, con la decadenza della classe dirigente della Prima Repubblica, la quale abbandonò la strada maestra dell’applicazione dei principi scritti nella carta del ’48 non certo per colpa dei sessantottini, e si preparò la fossa con le sue stesse mani determinando il naufragio della propria credibilità nei confronti del popolo italiano e aprendo la strada alla stagione di Tangentopoli che ne decretò la drammatica fine
(http://www.ilsussidiario.net/News/Politica/2017/9/9/L-INTERVISTA-Di-Pietro-con-Mani-pulite-ho-distrutto-la-politica-senza-costruire-nulla/781647/).
E’ parimenti certo però, che i germi della delegittimazione di un intero sistema politico, visto come un gigantesco monolite sulla strada della liberazione e dell’ approdo ad una “vera” democrazia, vennero posti lì a far danno prima di tutti dal Movimento, pronti a fare la loro parte nel preparare la sconfitta epocale che seguì nella stagione successiva.
Sto esagerando?
Per dare un’idea delle nefaste conseguenze per le masse popolari di cui allora non si avvertivano neppure lontanamente i segni premonitori: quando molti anni dopo la contestazione si ripresenterà sotto le mutate (e nate già esauste) spoglie del cosiddetto Movimento no-global, ciò che sarà rimasto della cosiddetta “sinistra” si farà fatica a riconoscerlo sotto le macerie del Muro, ed i segni di quella che oramai incominciava ad assumere i tratti di una vera e propria perdita di coscienza collettiva saranno drammatici ed assumeranno le sembianze della velleità e dell’ impotenza più assolute.
Ancora ridicole pretese di esercitare la “democrazia diretta” (per di più a livello globale!), ancora maggiore incapacità di capire quale sia il vero terreno di scontro (sovranità popolare e costituzionalismo su base nazionale vs liberalismo globalista che impone assenza di vincoli ai movimenti di capitali, merci e servizi e forza-lavoro), persistente mancanza di lucidità nel rifiuto assoluto di esprimere le proprie rivendicazioni attraverso i canali della forma-partito tradizionale (la sola capace di assicurare la possibilità di “entrare nella stanza dei bottoni”, secondo una celebre espressione di Nenni); queste sono le caratteristiche più salienti delle idee espresse alla fine degli Anni Novanta dai cosiddetti No-global… Oggi, le stesse istanze, ancora più impotenti e atomizzate, esprimono altri “No” (No-TAV, No-TTIP, NO-VAX, eccetera eccetera).
Con un altro salto temporale: quando Alexis Tsipras (lo stesso che venne immortalato proprio nel luglio del 2001 con il fazzoletto rosso al collo e la maglietta del Che mentre cercava di partecipare alle grandi manifestazioni che contestavano il G8 di Genova – senza peraltro riuscirvi, perché venne respinto assieme ad altri compagni al porto di Ancona) vincerà le elezioni nel suo paese, con un programma che pretendeva di porre fine all’austerità liberista senza contravvenire agli stessi trattati europei che quell’austerità l’avevano imposta, la sua strana creatura politica (Syriza) sarà oramai percepita fuori e dentro il paese come appartenente alle formazioni politiche di “sinistra radicale”, pur assolutamente non possedendo neppure i connotati propri di una forza “socialista democratica”.
Il secondo problema posto dalla stagione della contestazione afferisce invece all’aspetto più propriamente culturale-ideologico, e a ben vedere costituisce l’elemento più pericoloso (sul quale probabilmente la mia generazione, quella dei figli degli ex-sessantottini, non ha ancora riflettuto abbastanza), perché costituisce la Madre di tutte le contraddizioni di cui parlavo all’ inizio.
«Guai a chi vi tocca l’Individuo. Il libero sviluppo della Persona Umana è il vostro credo supremo. Della società e dei suoi bisogni non ve ne importa nulla», si legge nella Lettera ad una professoressa, il libro-manifesto di quegli anni pubblicato da Don Milani che diede voce agli studenti della scuola di Barbiana di Vicchio nel Mugello, in cui venivano criticati i dogmi del sistema educativo e i valori su cui si riteneva fosse fondata la stagione del boom economico.
Ebbene, se si era partiti con il sacrosanto dissenso per gli aspetti più distruttivi del capitalismo più deteriore, tutto basato sui bisogni indotti dal consumismo in una società sempre più individualistica, si finì, dopo averlo messo fuori dalla porta, per far rientrare questo stesso individualismo dalla finestra, seppure declinato diversamente come soggettività che ci si proponeva di liberare da ogni condizionamento indotto dalla volontà massificante del Potere.
I “cuccioli del maggio francese”, come affettuosamente qualche anno dopo li definì Fabrizio De Andrè, arrivarono a criticare violentemente anche la famiglia tradizionale, che venne vista come la cellula fondamentale della società “borghese” e come l’ elemento per l’appunto condizionante per eccellenza, quello che meglio e più di tutti “irradiava” i valori che si volevano contestare, e lo faceva condizionando sin dalla nascita ogni individuo, in tal modo irrimediabilmente impossibilitato a “partire da sé” per poter liberamente scegliere qualsiasi modello sociale “altro”.
Non a caso, un’altro degli slogan più famosi di quel periodo fu: “Voglio essere orfano”.
(Per far cosa, per poter vivere in branco, forse..?)
Così, dopo aver fatto tabula rasa una seconda volta, e dopo che la pars destruens si avviò inevitabilmente verso la sua conclusione, fu proprio l’enfasi di natura libertaria con cui si pretendeva di porre al centro i bisogni dell’ “Individuo” contrapposto al Potere accentratore dello Stato borghese autoritario ed anti-democratico ad essere abilmente sfruttata proprio sul piano culturale per confluire, assieme ad altri elementi di natura ideologica e politico-economica, nella stagione del riflusso che vide protagonisti proprio quegli stessi “animal spirits” del capitalismo più retrivo e massificante che il Movimento voleva ricacciare il più lontano possibile.
Cosicchè, la società divenne davvero una “somma di individui”.
Se è pur vero che, per dirla con uno dei padri fondatori della sociologia, il “fatto sociale” – cioè la maniera più diffusa e socialmente accettata di pensare, agire eccetera – possiede una sua intrinseca forza coercitiva, è parimenti chiaro che chi fa affermazioni di quel tipo finge di ignorare un elemento fondamentale per ogni gruppo umano, piccolo o grande che sia, e cioè che una società che sa andare oltre “il sé”, cioè oltre la soggettività di ciascuno, normalmente lo fa sempre a vantaggio del “bene sociale” (altrimenti le stesse leggi non avrebbero giustificazione).
Arrivarono quindi coloro che molto spregiudicatamente seppero volgere a proprio vantaggio anche quell’aspetto politico-culturale dalla valenza molto ambigua (“di sinistra progressista”), facendone il perno di una controffensiva liberale lungamente preparata, la cui avanzata è tuttora in corso e che ancora oggi continua ad agitare gli specchietti per le allodole dei (finti) diritti individuali a totale discàpito di quelli sociali e collettivi.
Capite la portata della sconfitta? Questo equivale a dire che nonostante da allora gli Achei si siano presentati “dona ferentes” al di là delle mura più e più volte infliggendo perdite sempre più gravi, oggi non vengono nemmeno più non dico temuti, ma neanche riconosciuti come nemici, perché “a sinistra” ormai la disfatta culturale – prima ancora che politica – è completa, e il disorientamento che ne scaturisce è paralizzante e profondo.
Niente male come risultato finale; non proprio del tutto “formidabili”, forse, “quegli anni”, vero? Alla fine, e col senno di poi: chi aveva torto e chi ragione? Quelli che lo rimproveravano di mettere alla gogna il Movimento agli occhi dei benpensanti, o colui che scrisse quella (da lui stesso definita) “brutta poesia” provocatoriamente rompeva gli schemi precostituiti e si metteva dalla parte dei “figli dei poveri”, vale a dire dei poliziotti che si scontrarono a Valle Giulia con i “figli della borghesia”?
Questi ultimi, loro malgrado, prepararono la sconfitta ideologica e culturale (prima ancora che politica), oltre che della loro stessa generazione, anche di quelle seguenti, attraverso la messa in discussione di ogni principio di autorità, e quindi anche di quella dello Stato nazionale, l’unico argine possibile al capitalismo cosmopolita distruttore di interi popoli, in quanto unico soggetto democraticamente legittimato a fare le leggi per il bene comune e a farle rispettare tramite l’ uso della forza.
E’ proprio quello stato nazionale che, nato in Francia circa duecento anni prima dalla Rivoluzione della borghesia, che nel corso dell’Ottocento e del Novecento a prezzo di indicibili sacrifici era riuscito a dotarsi di Costituzioni come la nostra, fondate sul lavoro, sulla sovranità popolare e sulla rappresentanza politica, e perciò capaci di estendere i diritti sociali e politici anche a coloro che prima non contavano assolutamente nulla). Insomma, l’avete capito o no che “Nulla è più anarchico del Potere”?
Prevedo la spoliticizzazione completa dell’Italia: diventeremo un gran corpo senza nervi, senza più riflessi. Lo so: i comitati di quartiere, la partecipazione dei genitori nelle scuole, la politica dal basso… Ma sono tutte iniziative pratiche, utilitaristiche, in definitiva non politiche. La strada maestra, fatta di qualunquismo e di alienante egoismo, è già tracciata. Resterà forse, come sempre è accaduto in passato, qualche sentiero: non so però chi lo percorrerà, e come.
(Pier Paolo Pasolini)
bellissimo articolo di cui condivido anche le virgole!
Bisogna però rompere il tabu del femminismo, e indicarlo chiaramente come il principale strumento liberista sul fronte culturale della guerra ai popoli. Non è infatti possibile parlare di lotta ad ogni forma di autorità e della distruzione della famiglia, senza nemmeno citare il processo di distruzione culturale del maschile prima e del paterno poi. prima o poi una forza sovranista che aspira ad essere seria dovrà affrontare il tema e ridare al paterno il ruolo gli compete e che ha sempre svolto nella storia dell’ umanità, che non è quello di essere il padre padrone (espressione che poi ha aperto la strada al famoso “stato padrone che imperversava ovunque”) ma è un ruolo fondamentale nella costruzione ed educazione di cittadini, invece che di individui. Finche il valore del maschile e del paterno non verra culturalmente ripristinato, la società non esisterà, prima lo capisce e meglio è. la denigrazione prima, la dichiarazione di inutilità del ruolo paterno e l’espulsione giudiziara del padre dalla famiglia, sono temi per nulla secondari.
Caro Max sono d’accordo ma solo parzialmente. Avendo figli piccoli, osservo moltissime madri che sanno fare bene le madri e che talvolta son costrette a fare anche i padri. I padri che sanno fare i padri invece sono parecchi per fortuna ma in numero minore alle madri che sanno fare le madri.
Ora di questa carenza statistica di bravi padri gli unici responsabili sono loro o se vuoi è il genere maschile. Fare il padre è duro e sovente implica che si debba affrontare la madre, per imporre il proprio punto di vista su taluni profili dell’educazione dei figli: bisogna volerlo, bisogna saperlo fare e bisogna superare, talvolta, un potenziale conflitto con la madre e quindi bisogna voler e saper affrontare questo conflitto.
Parlo di famiglie che funzionano, nelle quali la coppia sta ancora assieme. Qui non c’è alcun legislatore o giudice che possa intervenire.
Poi c’è il problema delle separazioni e dei divorzi. Qui si tratta di individuare le circostanze particolari che non consentirebbero o che renderebbero più difficile al padre che voglia e sappia fare il padre di continuare a farlo. Deve trattarsi però di condizioni diverse dalla separazione o dal divorzio in sé considerati, che sono ormai dei dati. Tuttavia, si tratta di un problema secondario, sia perché il problema del maschile come lo chiami tu si pone anche per le coppie non separate o divorziate, sia perché non si capisce per quale ragione coloro che non volevano o sapevano o non riuscivano (perché incapaci di imporsi sotto certi profili sulla moglie) a fare il padre, una volta separati dovrebbero volerlo e saperlo fare.
Esistono dunque tre problemi: a) il problema dei maschi che non vogliono fare il padre non sanno più cosa significhi non sono capaci e comunque non sanno imporsi sotto certi profili alle moglie; b) il problema dei padri separati che, pur astrattamente capaci e che ben svolgevano il ruolo di padri prima della separazione, non riescono a svolgere il ruolo di padre a causa delle condizioni della separazione; c) il problema dei maschi in sé considerati e non in quanto padri, che non riescono a soddisfare sufficientemente il proprio desiderio e bisogno affettivo, a causa delle condizioni della separazione (ma riescono ugualmente a svolgere il ruolo di padri). Questo terzo profilo è completamente fuori dal nostro discorso.
Con tutto ciò, il femminismo e le femmine non c’entrano assolutamente niente. C’entra al più una certa femminilizzazione culturale e antropologica, indubbiamente abbastanza diffusa (per esempio, l’importanza che oggi danno all’estetica i bambini maschi desta sgomento), alla quale, però, devono reagire i maschi. Quando la società ri-avvertirà l’esigenza del padre che fissa le regole e separa il bambino dalle ansie dai desideri (spesso piccoli) e dalle paure della mamma, allora ne terrà conto anche nelle condizioni di separazione, sebbene sia evidente che quando un padre è separato, nel tempo in cui non c’è, nel tempo in cui è fuori dalla casa familiare, ci sia poco da fare. Anche in caso di affido condiviso, non c’è nessuna possibilità di imporre certe regole (che poi sono pochissime perché in famiglia il 95% delle regole le fissa la moglie ed è bene che sia così) che valgano quando il figlio vive con la madre. Qui il problema è la separazione in sé. E ciò che può fare il maschile è sviluppare una idea di donna ideale che non lo porti troppo spesso a scegliere la persona sbagliata. Ma il discorso sarebbe lungo. Quando si sceglie una donna come sposa, quest’ultima è stata oggi già forgiata da altri rapporti (uno, due tre sei dieci). E l’uomo ha forgiato o viziato altre donne, che andranno in spose ad altri i quali saranno costretti a subire i vizi lasciati formare dai ragazzi o compagni precedenti.
Sono discorsi complessi, che in gran parte non possono essere risolti con norme giuridiche. Converrebbe evitare, perciò, discorsi ideologici, slogan e categorie filosofiche e limitarsi a proporre profili di disciplina giuridica delle separazioni e degli affidi. Tutto il resto è rimesso a movimenti di opinione, che tuttavia devono lottare contro il mostro televisivo che femminilizza i maschi. Si deve prendere atto che ci vorranno secoli o almeno ci vorrà un secolo, mettersi l’anima in pace che si vive in questo momento storico (nel quale c’è molto di bello per fortuna ma anche cose che non ci piacciono) e accontentarsi di dare il proprio piccolo contributo e di fare il padre nella misura in cui è possibile (ma chi ha scelto un’arpia, una donna venale, una donna leggera ed è separato ha commesso un errore irreparabile e deve farsene una ragione; l’unico vero responsabile del suo male è lui, perché convivente o separata la madre dei tuoi figli è quella che hai liberamente scelto).
Stefano, io spero tanto che tu abbia ragione (sarebbe indubbiamente una gatta da pelare in meno per i sovranisti), io personalmente temo non sia cosi, (come ho scritto temo, credimi, non senza importanti indizi a mio favore, che la mancanza di cittadini, e l abbondanza di individui sia imputabile a questi processi) e lo scrivo qui come allarme alle uniche persone che mi sembrano abbastanza intelligenti per capirlo e abbastanza libere per sfidare il politicamente corretto. prima o poi la verità verrà a galla, spero di avere torto, ma anche di poter in qualche modo contribuire al suo emergere. preciso infine che per me il femminismo non sono le donne (il femminismo è un ideologia e le donne sono le donne). Buona giornata, con grande stima.