Federico Caffè: “Pressioni indecenti dalla CEE”
di FEDERICO CAFFÈ
(tratto da “Scritti quotidiani”, pubblicato sul Il Manifesto l’8 luglio 1981)
Se sono esatte le notizie riferite dalla stampa circa le ‘sollecitazioni’ con le quali la Comunità economica europea avrebbe accompagnato l’accettazione del provvedimento italiano di un deposito provvisorio infruttifero, nella misura del 30 per cento, su determinate importazioni o acquisti di valuta estera per specificati scopi, ci si trova di fronte a un comportamento che attesta con chiarezza come la cooperazione comunitaria si sia trasformata in esplicito rapporto di vassallaggio.
Una espressione di indignazione morale di fronte a questo stato di cose lascerà del tutto indifferenti le autorità politiche del nostro paese, alle quali è verosimilmente da riferire l’origine prima di quelle ‘sollecitazioni’. Ma è bene che i giovani, i quali seguono queste note e le considerano quasi una continuazione del colloquio nell’aula universitaria, siano consapevoli che condizionamenti del genere venivano, in un passato alquanto remoto, imposti ad alcuni paesi (come l’Egitto, la Turchia, la Cina), in momenti in cui non erano in grado di far fronte agli impegni del loro indebitamento verso l’estero.
Questi condizionamenti venivano designati come regime delle ‘capitolazioni’ e la parola rende abbastanza bene idea. Ma, prescindendo dagli aspetti etico-politici, sono quelli di carattere strettamente tecnico che vanno contestati.
In primo luogo (sono cose che giova ripetere) i trattati comunitari prevedono, in caso di comprovate difficoltà della bilancia dei pagamenti, ‘clausole di salvaguardia’ che possono condurre anche alla temporanea reintroduzione di quote o contingenti alle importazioni. I paesi membri, vale a dire, nel caso che ne ricorresse la necessità, potrebbero imporre misure restrittive più severe di quelle che si concretano con l’adozione di sovraddazi, o l’imposizione di un deposito in fruttifero.
Può essere discutibile se sia opportuno, a suo tempo, accettare provvedimenti restrittivi più blandi, ma non previsti dalle disposizioni comunitarie. In tesi generale, sembra preferibile attenersi alle carte statutarie, anziché tollerare prassi difformi (alle quali, in altre circostanze, hanno fatto ricorso anche paesi diversi dal nostro). Ma l’importante è di tener presente che i paesi membri hanno ‘diritto’ di far appello alle clausole di salvaguardia e che le autorità comunitarie avrebbero soltanto titolo a verificare se ricorrano o meno gli estremi che ne giustifichino l’applicazione.
Detto questo, non si intende contestare alle autorità comunitarie di valutare i fattori delle difficoltà della bilancia dei pagamenti italiana e di esprimere le loro raccomandazioni. Stupisce, tuttavia, che queste raccomandazioni siano la replica puntuale di interventi molto controversi nel dibattito economico che si svolge nel nostro paese (dalla ‘soluzione’ del problema della scala mobile, al contenimento del disavanzo pubblico, dal ‘divorzio’ tra il Tesoro e l’istituto di emissione, alla predisposizione della copertura a fronte di nuove spese pubbliche, alla realizzazione di un accordo tra le parti sociali).
Ancora una volta lasciando da parte i risvolti politici di simili raccomandazioni, vi è una tale sensazione di stantio, di ripetitivo, di carenza di originalità da lasciare perplessi sulle capacità di ispirazione di organi che hanno l’arduo compito di tracciare il disegno dell’armonizzazione delle politiche comunitarie. Tra l’altro, il dibattito all’interno del nostro paese, su questi ed analoghi problemi, è molto più vivace ed intellettualmente stimolante: è chiaro che, alla fatica di seguirne gli sviluppi, gli organi comunitari preferiscono utilizzare le indicazioni di autorevoli ‘veline’.
A voler essere seri, non si dovrebbe ignorare che il dissidio sulle relazioni industriali nasconde quello di una desiderata frammentazione dell’unità sindacale; che non meno grave del contenimento del disavanzo è l’incapacità di spesa dell’apparato amministrativo italiano al quale sono da ricondurre gravi carenze sul piano dell’infrastrutture sociali e di possibili incrementi della produttività del sistema; che il tanto chiacchierato divorzio tra Tesoro e istituto di emissione (ma come è insuperabile la tendenza italiana al conformismo!) è sicuramente destinato, il che è abituale in tutti i divorzi, ad accrescere l’onere già pesante degli interessi sul debito pubblico; che la copertura ad hoc di spese addizionali è destinata ad essere fatalmente aggirata, in quanto costituisce un assurdo logico, amministrativo e finanziario: la negazione stessa di ogni impostazione moderna della politica economica.
In fondo, sarebbe molto più originale se, in luogo delle loro sollecitazioni melense, le autorità comunitarie proponessero all’Italia una articolata ‘soluzione finale’: che i terremotati, che i giovani disoccupati, che le imprese in crisi, oggetto di trasferimenti (che andrebbero definiti di sopravvivenza, anziché assistenziali) siano lasciati al loro destino, indipendentemente da ogni considerazione politica e sociale. Dire in sostanza la stessa cosa, in termini apparentemente paludati, realizza una non commendevole fusione di banalità ed ipocrisia.
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