La situazione
di STEFANO D’ANDREA
Prima si crea la concorrenza internazionale. Poi investitori e industriali se ne lamentano accettandola o nemmeno se ne lamentano e la considerano un dato di fatto. In entrambi i casi pretendono che i sindacati e i lavoratori vadano ad essi incontro accettando che si lavori di più per meno denaro.
La classe media a lungo tace, perché crede di non esserne colpita. Ma poi vede diminuire la domanda interna di beni e servizi. Ciò accade, peraltro, con anni di ritardo perché la deflazione salariale, per quasi un paio di decenni fino alla crisi finanziaria, è affiancata dal credito al consumo.
Quando tutto dovrebbe essere chiaro e le regole da cambiare individuate – sono quelle che introducono la concorrenza – la classe media dei commercianti, dei professionisti e dei piccoli industriali, è in difficoltà psicologica perché per due decenni ha distinto “gli uomini che si fanno da sé, che creano beni e ricchezza e lavoro“, categoria che idiotamente ricomprenderebbe Berlusconi, De Benedetti, Soros e i barbieri, i baristi e gli avvocati di periferia di una città di provincia, da coloro che non avrebbero ambizioni e volontà di lavorare, i lavoratori subordinati.
La classe media degli autonomi, per cominciare a combattere il grande capitale, dovrebbe perciò ammettere di essere stata presuntuosa e ignorante. Meglio allora far finta di credere che la causa dell’impoverimento che l’ha colpita sia stata la corruzione.
I lavoratori subordinati, invece, da un lato vivono spesso dentro imprese immerse nella concorrenza internazionale che esportano o importano semilavorati, sicché combattere contro il mercato aperto significa combattere contro la propria impresa fotografata e quindi vista staticamente. Dall’altro sono privi delle guide intellettuali che hanno avuto per un secolo e mezzo. Le guide infatti dedicano il loro tempo e i loro studi ai migranti o ad Assad, alla musica etnica o al socialismo bolivariano, alla musica underground o a occupy Wall street, alla legalizzazione della mariuana o a lodare Erasmus, a ricostruire la sinistra o al femminicidio.
Infine tutti godono di costosissimi regali (apparenti) da parte del grande capitale (facebook, sky, MTV, youtube) che consentono a costo zero, o quasi, un consumo culturale, sportivo, di ricerca, di informazioni, o di distrazione che avrebbe un costo almeno di 300 euro al mese (se non fosse regalato dal capitale che paga le pubblicità), consumo che occupa il tempo libero da dedicare alla guerra culturale e di classe astrattamente necessaria.
Siamo appena entrati in una nuova epoca e noi siamo determinate, e credo valide, avanguardie che hanno davanti ostacoli epocali.
Si prenda atto della situazione e si sia contenti di quanto abbiamo fatto. Si sia pazienti e si lavori con entusiasmo.
Trasmettere entusiasmo è ciò che garantisce che siamo in pieno Risorgimento. All’inizio del Risorgimento, ma in pieno Risorgimento.
Rifletto solo sulla seguente complessa asserzione dell’autore:
“Siamo appena entrati in una nuova epoca e noi siamo determinate, e credo valide, avanguardie che hanno davanti ostacoli epocali”.
Mi pare che essa contenga almeno due (2) giudizi infondati (presupposti non spiegati):
Il primo: siamo in una nuova epoca.
Se l’epoca è quella inaugurata dal capitale (con la sua società), non siamo affatto in una nuova epoca.
Se l’epoca è un’altra, bisogna chiamarla altrimenti e spiegarla in base ad una differenza specifica rispetto alle altre epoche.
Il secondo: siamo avanguardie.
Le avanguardie (o élites) hanno fatto e stanno facendo cattiva mostra di sé da diversi secoli (in particolare dalla Rivoluzione francese), principalmente perché, nonostante il loro antagonismo “politico”, in profondità si sono ritrovate a condividere le medesime categorie di pensiero degli avversari dominanti…
Essere avanguardie in questa accezione sarebbe oggi già di per sé disdicevole (per le sorti della specie in quanto tale, non solo per quelle della nostra terra patria…).
Tuttavia, se questo fosse il caso del FSI non si dovrebbero mai e poi mai produrre quel moto autoconsolatorio e quell’invito alla pazienza che l’autore esterna invece ai sodali: perché un’avanguardia di quel tipo non si consola e non pazienta mai per principio, poiché è tutta e sempre animata dal fervore inestinguibile che le dona il principio-volontà, lo stesso subalterno (al capitale) principio che induce nei suoi esponenti il famoso “coraggio del fare” o, più prosaicamente, il politicistico e subdolo “fare per il fare” (per “avere successo” o per “stare a galla”)…
Allora: o di avanguardia non si tratta (e allora occorre spiegare cosa di differente può essere) o vi è un profondo fraintendimento teorico e storico circa la natura e il ruolo delle avanguardie alle quali si pretende di appartenere…
Occorrerebbe appunto fermarsi a riflettere (è anche agosto).
Saluti.
Mourad Imanebasta