Ardire di essere illiberali. Questo è l’imperativo.
di Stefano D’Andrea
“Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino ad allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate – virtù, amore, opinione, scienza, conoscenza, ecc. – tutto divenne commercio. E’ il tempo della corruzione generale, della venalità universale o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale o fisica, divenuta valore venale, viene messa sul mercato per essere apprezzata al suo giusto valore” [Marx, Miseria della filosofia, Risposta alla filosofia della miseria di Proudhon, (1847), Roma, 1998, p. 78]
L’era della mercificazione totale, magnificamente ritratta nella pagina di Marx, è giunta. Si è compiuta.
Si è compiuta, perché la nostra generazione ha vissuto anni nei quali tutto era alienabile e tutto è stato alienato.
Il prestigio di uomo di cultura e di uomo di sport è stato venduto mediante contratti di sponsorizzazione. Può apparire curioso ma fino a pochi decenni fa ripugnava, non soltanto alla coscienza sociale, bensì anche all’ordine giuridico, che qualcuno potesse vendere il proprio prestigio. La giurisprudenza, in tempi che culturalmente ci appaiono lontanissimi ma che storicamente sono vicini, negava validità ai primi contratti di sponsorizzazione.
Gli occhi, le anime, le menti dei telespettatori sono continuamente venduti al capitale marchio. Questa vendita è il fondamento strutturale della moderna società capitalistica. Anche in questo caso, fino al recente avvento della televisione commerciale, il fenomeno aveva un rilievo relativo e non poteva essere definito strutturale.
L’utero è stato affittato; lo sperma e l’ovulo venduti. I divieti di alcuni stati nazionali poco hanno potuto contro il mercato globale, che gli stati, becchini di sé medesimi, hanno concorso a creare.
Saper vendere la propria persona è diventata la prima e più importante qualità per ogni uomo che intenda percorrere una carriera. E sapersi vendere significa comportarsi come l’altro si attende da te. “Sono come tu mi vuoi” è la regola imperante. Ed è regola diabolica, perché auto-impone la vendita dell’anima.
L’esercizio dei poteri pubblici è stato venduto: da chi è stato al vertice del potere politico di uno stato europeo (si pensi al caso dello spregevole Schroeder), cosa mai accaduta prima, e da milioni di più modesti funzionari, in quantità un tempo impensabili anche nei periodi di grande corruzione.
Medici vendono il loro ruolo e la loro missione alle case farmaceutiche.
Le Università, in cambio delle tasse pagate da alcune categorie di iscritti (consulenti del lavoro, finanzieri, guardie forestali, ecc.) e dei finanziamenti che lo Stato italiano, ormai miserabile, ha elargito (anche) in funzione di quelle categorie di iscritti, hanno venduto il titolo di dottore.
La simpatia, la sveltezza e la purezza dei bambini sono vendute in programmi televisivi, dove piccole anime innocenti cantano canzoni con testi da adulti, sebbene, a rigore, sovente si tratti di testi da adulti-minorati. I tempi in cui le apparizioni televisive dei bambini erano limitate allo zecchino d’oro appaiono lontanissimi; e invece sono appena dietro di noi.
Mai la prostituzione è stata diffusa come nel nostro tempo.
E nell’epoca di internet il primato sulla rete spetta ai siti pornografici. Tramite il telefono voci di donna vendono compagnia a giovani e vecchi arrapati. Finanche l’erezione e l’eccitazione sono state vendute e acquistate nella forma di viagra e simili.
Sono stati acquistati nasi, seni, zigomi, occhi, fianchi e glutei.
Gli psicofarmaci impazzano. Anche la felicità o meglio la serenità ormai è in gran parte venduta. E nella madrepatria della mercificazione, persino la calma e l’attenzione dei bambini sono vendute e acquistate: si paga denaro per ottenere “sostanze” (psicofarmaci) che servirebbero a calmare e rendere attento un bambino.
Come se ne esce? Dico astrattamente, magari con un percorso lungo un secolo.
E’ pensabile una proposta politica alternativa a quella dominante che tralasci il tema della mercificazione? Assunto l’orizzonte della mercificazione totale, come orizzonte comune al pensiero dominante e a quello che stiamo ipotizzando “critico”, può quest’ultimo essere davvero considerato come “critico” se affonda sulla medesima indifferenza dei valori sulla quale poggia il sistema dominante? Il partito alternativo al partito unico delle due coalizioni, se e quando verrà, deve essere anche, per certi versi, un “partito della verità e della giustizia”?
Ripeto la domanda, perché nella nostra cultura suona come un’assoluta novità: il partito alternativo al partito unico delle due coalizioni, che si spera venga prima o poi ad esistenza, deve essere anche un “partito della verità e della giustizia”?
La mercificazione totale non è periferica rispetto al sistema che si vorrebbe contestare; ne è il cuore pulsante. Se è sovrastruttura, è elemento di quella parte della sovrastruttura che condiziona la struttura. So che un tempo avrei sorriso e sarei persino inorridito per la domanda che pongo; mentre oggi essa mi appare domanda dotata di senso: domanda radicale. Una delle più profonde e importanti domande imposte dal pensiero critico.
Offrire una risposta negativa – non abbiamo bisogno di un partito della verità e della giustizia – appaga il nostro sentirci occidentali, eredi dell’illuminismo, atei o agnostici e comunque laici; ma al tempo stesso pone in dubbio e anzi direi in crisi il nostro anticapitalismo o comunque il nostro essere critici nei confronti dell’esistente, posto che l’era ritratta da Marx, ormai giunta a compimento, è l’era del capitalismo trionfante che stiamo vivendo: l’era della mercificazione totale. La risposta negativa si nasconde dietro un dito, quando muove dalla considerazione che sia sufficiente attribuire al cittadino il diritto di non acquistare. Questo è proprio il pensiero dominante, che ha orrore di norme che pongano il divieto di produrre e di vendere: lo schiavo, come è noto, è schiavo in primo luogo perché pensa come uno schiavo.
La risposta positiva è coerente con la critica del capitalismo e con il pensiero critico in generale, ma impone una riflessione sull’eredità dell’illuminismo e segnatamente sul principio della separazione del giudizio politico-giuridico dal giudizio morale. L’esito della inesorabile applicazione secolare del principio di separazione è stato la scomparsa della morale – non della vecchia morale, che si voleva abbandonare per un’altra, bensì della morale tout court – e quindi la mercificazione totale: là dove tutto è merce non vige morale. Nulla è inalienabile.
Io comincio da un po’ di tempo a rispondere in senso positivo (1).
Sarebbe opportuno che tutti coloro che si considerano antagonisti del sistema si interrogassero: fino a che punto il liberalismo (di Einaudi, tra l’altro, non quello di Croce) ha conquistato i nostri cuori e ottenebrato le nostre menti? Antagonismi, socialismi, comunismi, ambientalismi, gli altri mondi possibili, le utopie eque e solidali, le ricollocazioni geopolitiche, le sovranità politiche o monetarie, le teorie dei “beni comuni”, le decrescite sono intrinsecamente e essenzialmente soltanto “forme buone” (ossia semplici miglioramenti) del liberalismo? Stanno dentro l’epoca della mercificazione totale e si accontentano, in pieno spirito liberale, di indicare ad alcuni la strada per una vita migliore? Se è così, perché ipocritamente continuare a sentirsi parte di una critica radicale?
Suvvia, cominciate a pensare che cosa vietereste; quale vendita sanzionereste! E dopo averlo pensato ditelo: “vieterei questo e quest’altro”. Fatevi paura, interrogandovi; poi superate la paura e impaurite i vostri commensali con frasi che li sconvolgeranno. Ardite essere illiberali! Sarà l’inizio della emancipazione da un pensiero totalitario che tutti ci ha conquistati.
Note
1) Note per un programma di politica economica e morale, https://www.appelloalpopolo.it/?p=3391
Come se ne esce? Riappropriandosi del Sacro. Esistono cose che non hanno prezzo, ma valore. Mantenere la propria parola data, ad esempio. Se ha valore la parola va mantenuta ad ogni costo. Se ha prezzo è in vendita al miglior offerente.
La transumanza politica attuale è la prova che i vertici sono interessati al prezzo, non al valore. E ci stanno insegnando come si fa, stanno orientando la società affinchè tutto abbia prezzo a niente valore.
Quante volte abbiamo sentito dire al premier "lo giuro sui miei figli" e scoprire poi che sarebbero morti tutti, se solo esistesse una qualche forma di giustizia divina o anche solo umana?
Ho quindi seri dubbi sul "partito della verità e della giustizia". Sono termini troppo lontani da questioni come accesso paritario alle risorse, informazione pluralistica, Stato come intermediatore tra classi sociali per favorire una migliore coesistenza etc…
La verità è troppo circostanziale, e la giustizia troppo parziale per farvi affidamento. Semmai sono il naturale sottoprodotto degli elementi cui facevo riferimento qui sopra
"La risposta positiva è coerente con la critica del capitalismo e con il pensiero critico in generale, ma impone una riflessione sull’eredità dell’illuminismo e segnatamente sul principio della separazione del giudizio politico-giuridico dal giudizio morale."
Bingo! è QUESTO il punto. Il vero punto. Ritrarre la disperazione e l'orrore del capitalismo serve a poco fino a che non si delinea cosa dovrebbe sostituirlo. Mi sembra chiaro che stiamo parlando della Rivoluzione. La Rivoluzione serve non tanto a liberarsi da un vecchio regime, quanto ad IMPORNE uno nuovo.
E qui cominciano i problemi, dacché se tutti (o quasi) sarà disposto a seguirti nella denuncia delle miserie e degli schifi dell'odierna società, nessuno (o quasi) ti seguirà nell'imposizione COATTIVA della società nuova. Se noi separiamo il giudizio assiologico (realtivo ai valori) al giudizio pragmato (relativo ai fatti), ovvero non possiamo dedurre proposizioni normative dell'analisi della realtà, il gioco è fatto: abbiamo escluso la Verità dai nostri discorsi, cadendo nel relativismo epistemologico più assoluto, e nessuno avrà mai la forza di fare la Rivoluzione, poiché per avere la forza di farla bisogna essere assolutamente sicuri di attingere alla Verità , non alla mutevole Opinione.
Come reagire? Secondo me si dovrebbe partire da due considerazioni.
1) Innanzitutto, quando adoperiamo il vocabolario deontico (vietato, concesso, imposto, punibile, ecc) dobbiamo sapere che ogni vocabolo che adoperiamo ha natura dialettica, cioè si rovescia immancabilmente nel suo opposto. Accordare un diritto, per esempio quello della cassa maternità, a qualcuno, significa imporre un obbligo a qualcun altro, in questo caso al datore di lavoro che dovrà versare i contributi. Il divieto di ascoltare musica a tutto volume coincide con la libertà delle mie orecchie, e così via. A mio avviso è perciò assurdo caratterizzarsi per fautori della libertà piuttosto che dell'illibertà. Questo argomento deve essere utilizzato contro i sostenitori del "lasseiz faire". Il "poter fare" concesso a qualcuno equivale sempre a un "dover fare" di qualcun'altro, e a un "non poter fare" di un terzo. Smacheriamoli!
2) La "separazione del giudizio politico-giuridico dal giudizio morale"
è anche nota come "Legge di Hume". Ed è proprio al filosofo scozzese che la dobbiamo. Essa costituisce davvero l'architrave del liberalismo, come riconosciuto da stimati studiosi come Dino Cofrancesco. Tuttavia, se tale "Legge" ha evidentemente condizionato sia Smith che Kant, non si può dire che definisca il lascito dell'Illuminismo tout-court. I Lumi non sono solo Voltaire e i fisiocratici, ma anche Montesquieu e soprattutto Rousseau. Non dimentichiamoci che il risultato dello scetticismo empirista britannico, spazzando via ogni fondamento ontologico dell'Etica, è stao anche quello di minare la morale dell'Antico Regime. Non è un caso che i reazionari di tutte le risme se la siano presa così tanto con Adam Smith (ce ne sono tracce persino in Weber). L'Illumismo non può esserci nemico, perchè esso è il padre dell'89. Facciamo nostra piuttosto la lezione della grande filosofia tedesca, da Fichte a Hegel, che non lesinano critiche ai Lumi ma ne sottolineano i caratteri necessari e benefici.
Articolo che sottoscrivo integralmente poiché centra i punti fondamentali della vera contraddizione che segna il nostro tempo: la contraddizione tra apologia del nulla che si traduce in apologia della libertà come valore in sé, da una parte; e ripresa di un punto di vista veritativo sulle cose umane e in quanto tale esplicitamente impositivo ed eticamente normativo.
Lo scontro è uno scontro che non può fare sconti, deve essere netto e chiarito nei suoi termini. La tradizione politica novecentesca di destra e di sinistra, conservatrice e progressista era ancora dialettica in quanto in essa coesistevano elementi filosofici di liberalismo (come sfondo) con elementi di correttivo forte al principio liberale. Era questa fusione che permetteva l'esistenza di pluralismo, di dibattito, di fiorire di idee, dubbi e quindi di forza e vigore politico. Negli ultimi 20 anni tutta la tradizione politica europea si è definitivamente suicidata nel paradigma liberale, accogliendo (seppur coperto da varianti estetiche e formali apparente opposte) la dittatura della libertà assoluta e del relativismo che è evidentemente lo sfondo ideologico preferenziale per il libero scorrere illimitato del capitalismo e delle sue pretese sociali.
Non dobbiamo aver paura di pensare una rivoluzione in termini sociali veritativi. Non c'è rivoluzione anticapitalistica che tenga che si possa basare sugli stessi principi naturali del capitalismo medesimo (libertà assoluta, autodeterminazione svincolata dell'individuo, relativismo). In questo senso una critica al rapporto capitalistico da sola non basta (e Marx questo lo aveva capito benissimo, dal momento che la sua era anche una critica al rapporto sociale mercantile, non solo capitalistico in quanto rapporto di sfruttamento materiale diretto).
Il vero spartiacque da cui ripartire per una nuova aggregazione politica è proprio questo: accettare o non accettare la dittatura relativistica della libertà e della seperazione tra orizzonte politico-giuridico ed orizzonte morale e veritativo. Il resto è ovviamente importante, ma comunque successivo e conseguente.
Complimenti a Stefano per la riflessione che avrei potuto scrivere in egual maniera.