Grande depressione: mito o realtà?
di LUCA MANCINI (FSI Roma)
Recentemente è in voga presso alcuni salotti di chiara connotazione liberale un tentativo di revisione storiografica riguardo la Grande Depressione che attanagliò l’Europa e il Nord America negli ultimi trent’anni del XIX secolo. Alcuni personaggi, che non hanno studiato la storia, si atteggiano a storici dell’economia, finendo per scrivere su importanti giornali e riviste una serie di stupidaggini colossali. È il caso di un articolo apparso nel 2006 sul New York Times, in cui l’avvocato e banchiere Charles R. Morris affermava che la cosiddetta “Grande Depressione” era stata in realtà un periodo di grande crescita economica [1]. Secondo Morris, la confusione al riguardo nascerebbe dal fatto che accanto alla diminuzione dei prezzi causata dalla deflazione e alla galoppante disoccupazione, vi è stato anche un aumento degli standard di vita degli americani maggiormente benestanti, oltre che un aumento della produttività del lavoro negli USA, dove la produzione manifatturiera pro capite aumentò dal 14,7% al 16,2%.
Dello stesso avviso è l’economista di scuola austriaca Murray Rothbard:
“Come Friedman e Schwartz ammettono, il decennio 1869-1879 conobbe un 3% di crescita annuo del prodotto nazionale monetario, una eccezionale crescita reale del prodotto nazionale del 6,8% l’anno in questo periodo, e un fenomenale aumento del 4,5% l’anno di prodotto reale pro capite. Anche la presunta “contrazione monetaria” non ebbe mai luogo, l’offerta di moneta aumentò del 2,7% all’anno. Dal 1873 al 1878, prima che avvenisse un’altra espansione monetaria, l’offerta complessiva di moneta bancaria passò da 1.964 miliardi di dollari a 2.221 miliardi di dollari, un aumento del 13,1% e del 2,6% su base annua. In breve, un aumento modesto ma deciso, una contrazione appena percepita. Dovrebbe essere chiaro, quindi, che la “grande depressione” del 1870 appare solo un mito, un mito causato da una errata interpretazione del fatto che i prezzi in generale registrarono un netto calo durante tutto l’intero intervallo. Infatti essi subirono un calo dalla fine della guerra civile fino al 1879. Friedman e Schwartz stimano che i prezzi in generale scesero nell’intervallo 1869-1879 del 3,8% l’anno. Purtroppo, la maggior parte degli storici ed economisti sono condizionati dalla credenza che una costante e profonda caduta dei prezzi debba tradursi in depressione: da qui la loro meraviglia nel constatare la prosperità e la crescita economica evidente in quest’epoca” [2].
Il punto è che, come sosteneva Federico Caffè: “Al posto degli uomini abbiamo sostituito i numeri e alla compassione nei confronti delle sofferenze umane abbiamo sostituito l’assillo dei riequilibri contabili” [3]. La crescita del PIL o di una produttività specifica, come quella segnalata da Morris, non sono garanzie di benessere economico. Una crisi economica non può essere valutata solo attraverso freddi calcoli numerici, poiché per valutarla a pieno è necessario guardare il lato umano. Perciò bisogna tenere in considerazione anche altri vari fattori quali: il tasso di disoccupazione, il valore di un salario medio e capire se questo permette o no una vita dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia, bisogna valutare anche la continuità del lavoro dipendente e, infine, i consumi che derivano da tutto ciò. Solo con questi dati si può verificare se una società sia in salute, altrimenti se si finisce per vedere solo l’aumento degli standard di vita degli americani maggiormente benestanti, come fa Morris, si ha una visione completamente distorta di quell’epoca. Un Paese può anche produrre di più in un periodo di crisi, ma bisogna valutare il prezzo sociale con cui viene costruita questa produttività, la quale comunque non è misura di tutto:
“Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori famigliari o l’intelligenza del nostro dibattere. Il Pil non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in poche parole, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta” [4].
Nietzsche in “Sull’utilità e il danno della storia per la vita” metteva in guardia da determinati tipi di storiografia. Tra questi vi era quella che lui definiva “storia critica”, ossia la storia scritta da persone che tentano di giustificare il presente, attraverso la revisione di un regime passato. Dietro questo attacco alla realtà storica della Grande Depressione, non c’è altro che la volontà di giustificare l’attuale crisi economica e farla apparire come un qualcosa di normale, nella quale non si vive poi così male, perchè c’è la produttività, l’unica cosa che importa ai liberali, i quali ignorano completamente i drammi sociali della disoccupazione, del lavoro precario e dei salari miseri. Una prospettiva inaccettabile per qualsiasi essere umano di buon senso e qualunque storico non politicizzato.
Viva la Repubblica Sovrana!
1 C. R. Morris, Freakoutonomics, nytimes.com, 2 giugno 2006.
2 Murray Rothbard, A history of money and banking in the United States, Ludwig Von Mises Institute, Auburn 2002, pp.154- 155.
3 F. Caffè, Un salto nel voto, Micromega, febbraio 2013, p.1
4 Dal discorso di Robert Kennedy del 18 marzo 1968
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