La legge elettorale della Regione Abruzzo è incostituzionale
di STEFANO D’ANDREA
Le elezioni regionali abruzzesi si avvicinano ma, nonostante il poco tempo a disposizione, è necessario che il Consiglio Regionale proceda ad una profonda revisione della legge elettorale, al fine di adeguarla ai principi espressi dalla Corte Costituzionale nelle sentenze nn. 1 del 2014 e 35 del 2017 con riguardo a leggi elettorali per il rinnovo del Parlamento nazionale. Nel riformare la legge elettorale regionale, che sarà certamente modificata, come sta accadendo in ogni Regione, per introdurre la parità di genere, è in primo luogo auspicabile che il Consiglio Regionale tenga conto dei vincoli che derivano dalla Costituzione, così come interpretata dalla Corte Costituzionale.
Con la prima delle sentenze citate, la Corte Costituzionale ha asserito che l’obiettivo di “agevolare la formazione di una adeguata maggioranza parlamentare, allo scopo di garantire la stabilità del governo del Paese e di rendere più rapido il processo decisionale” non può essere perseguito tramite norme che “producono una eccessiva divaricazione tra la composizione dell’organo della rappresentanza politica… e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto”. Alla stregua di questo principio, la Corte ha stabilito che “l’assenza di una ragionevole soglia di voti minima per competere all’assegnazione del premio” di maggioranza “è pertanto tale da determinare un’alterazione del circuito democratico definito dalla Costituzione, basato sul principio fondamentale di eguaglianza del voto”, e ha dichiarato l’incostituzionalità di disposizioni contenute nella legge n. 270 del 21 dicembre 2005 (cosiddetto porcellum).
Orbene, la legge regionale che disciplina l’elezione del Consiglio Regionale e del Presidente della Giunta Regionale dell’Abruzzo, prevede che alle liste collegate al candidato proclamato eletto alla carica di Presidente della Giunta regionale spettino almeno 17 seggi (su 29) senza richiedere, per l’attribuzione del premio di maggioranza, che il Presidente eletto abbia raggiunto una percentuale minima, che alla stregua della sentenza della Corte Costituzionale n. 35 del 2017, sembrerebbe poter validamente essere il 40%.
Potrebbe sorgere il dubbio che i principi affermati dalla Corte Costituzionale, con riferimento alle leggi che disciplinano le elezioni del Parlamento nazionale, non valgano per le leggi che disciplinano le elezioni dei Consigli regionali, perché ai sensi dell’art. 122, 5° co., della Costituzione, “Il Presidente della Giunta regionale, salvo che lo statuto regionale disponga diversamente, è eletto a suffragio universale e diretto”. Tuttavia – a parte il fatto che l’elezione diretta è soltanto un “suggerimento”, perché la Regione, con norma di rango ordinario, può prevedere diversamente (“salvo che lo statuto regionale disponga diversamente”) – il parametro costituzionale del “voto eguale”, dalla Corte Costituzionale reputato parzialmente comprimibile soltanto entro i ristretti limiti sopra segnalati, è previsto nella prima parte della Costituzione e segnatamente nell’art. 48, non con riferimento specifico alla elezione del Parlamento nazionale. Non è possibile dunque escludere con legge ordinaria che il Presidente della Giunta, se non abbia ottenuto una soglia minima di voti, sia tenuto a formare un governo di coalizione o un governo di minoranza, tanto più che, dopo la riforma del titolo V della Costituzione, le Regioni esercitano una più ampia funzione legislativa.
Va detto, tuttavia, che la questione potrebbe apparire dubbia alla stregua di un obiter dictum della Corte Costituzionale, contenuto nella sentenza n. 1 del 2014, nel quale si afferma che le disposizioni che non prevedono il raggiungimento di una soglia minima per ottenere il premio di maggioranza “consentono una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare, incompatibile con i principi costituzionali in base ai quali le assemblee parlamentari sono sedi esclusive della «rappresentanza politica nazionale» (art. 67 Cost.), si fondano sull’espressione del voto e quindi della sovranità popolare, ed in virtù di ciò ad esse sono affidate funzioni fondamentali, dotate di «una caratterizzazione tipica ed infungibile» (sentenza n. 106 del 2002), fra le quali vi sono, accanto a quelle di indirizzo e controllo del governo, anche le delicate funzioni connesse alla stessa garanzia della Costituzione (art. 138 Cost.): ciò che peraltro distingue il Parlamento da altre assemblee rappresentative di enti territoriali”. Orbene è tuttavia molto dubbio che il principio del “voto eguale” valga per una delle assemblee che esercitano la potestà legislativa (art. 117 Cost.) e non per le altre, ossia per i Consigli Regionali. Che il fondamento del principio del “voto eguale” stia nel fatto che il Parlamento nazionale possa modificare la Costituzione e che eserciti le funzioni di indirizzo e controllo del Governo è una petizione di principio che non risulta da dati normativi. Accettarla significherebbe che i Consigli Regionali sarebbero invece abilitati a “una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea” regionale, e avrebbero la possibilità di prevedere che se il più votato dei candidati alla Presidenza di una Regione ottenga soltanto il 20 o il 15 o il 10%, e finanche il 5%, le liste che lo sostengono conseguano il 60% dei Consiglieri Regionali. Il fondamento del voto eguale è l’uguaglianza dei cittadini che votano e di tutte le opinioni politiche che hanno ugual diritto di essere rappresentate e questi valori non possono essere illimitatamente compressi, tenuto conto che i Consigli Regionali esercitano la potestà legislativa, anche esclusiva, in importanti materie. E’ dato perciò sperare che, dinanzi alla palese incostituzionalità o almeno al forte dubbio di costituzionalità del premio di maggioranza assegnato, senza prevedere una rilevante soglia minima di voti, alle liste che hanno sostenuto il candidato alla Presidenza della Regione che abbia conseguito più voti, il Consiglio Regionale della Regione Abruzzo, nel rivedere la legge elettorale, si adegui ai principi affermati dalla Corte Costituzionale con riguardo alle leggi elettorali relative alle elezioni politiche nazionali.
Non dovremmo aver paura di un ritorno al proporzionale, sia pure, eventualmente, soltanto per i casi in cui nessun candidato alla Presidenza della Regione raggiunga il 40% dei voti validi. Con il proporzionale abbiamo raggiunto la piena occupazione, sviluppato un sistema di partecipazioni statali che è stato studiato e ammirato in tutto il mondo, approvato la riforma agraria, abolito la mezzadria, mantenuto le banche pubbliche ed evitato per oltre 40 anni crisi finanziarie, costruito centinaia di migliaia di abitazioni popolari, primeggiato nel mondo per le nostre università e scuole pubbliche e promosso una mobilità sociale mai raggiunta in altri Stati, divenendo la quarta potenza economica mondiale. Con il maggioritario e con il premio di maggioranza abbiamo invece distrutto tutto.
Va detto anzi, che l’orientamento della Corte Costituzionale, la quale, pur nei ristretti limiti cennati, ammette il premio di maggioranza, è infondato e chiaramente dettato da pavidità politica. Infatti, se la “governabilità”, ossia la volontà di avere un governo stabile, possibilmente di legislatura, è un obiettivo costituzionalmente legittimo, che il legislatore può perseguire, non si tratta tuttavia di un valore o principio di rilievo costituzionale. Il bilanciamento operato dalla Corte Costituzionale dunque è tra un valore costituzionale, il “voto eguale” (art. 48 Cost.) e un fine costituzionalmente legittimo, ossia non imposto dalla Costituzione e perseguibile dal legislatore soltanto senza alcun sacrificio di valori costituzionali. Al “bilanciamento” si può ricorrere soltanto quando il sacrificio parziale di un valore o principio costituzionale sia giustificato dalla tutela di un altro valore o principio costituzionale.
A rigore, la legge elettorale abruzzese contiene altre norme incostituzionali, sebbene sulle relative questioni la Corte Costituzionale, salvo in un caso, non sia stata ancora chiamata a pronunciarsi. Le accenno sperando che le questioni siano almeno oggetto di un dibattito, anticipando che un gruppo di cittadini sta per promuovere ricorsi contro svariate leggi elettorali regionali, fondati oltre che sulle due sentenze citate della Corte Costituzionale, anche sugli argomenti appresso riassunti.
In primo luogo il premio di maggioranza, che è tanto “ragionevole” da essere previsto soltanto a San Marino e a Cipro, oltre che nelle leggi elettorali regionali italiane – gli Italiani che lo desiderano anche nella legge elettorale relativa alle elezioni politiche nazionali dovrebbero dunque interrogarsi a fondo su di esso – pur ammissibile, secondo la infondata tesi della Corte Costituzionale, entro i limiti cennati (se il partito o la coalizione che hanno ottenuto più consensi hanno raggiunto una considerevole e prefissata soglia minima), non è comunque compatibile con la presenza di una soglia di sbarramento. Infatti, la soglia di sbarramento ha la funzione di garantire la governabilità, evitando il frazionamento delle minoranze; per questa ragione sacrifica la rappresentatività. Tuttavia, una volta che si sia scelta la originalissima strada di garantire la maggioranza nel Consiglio, almeno quando si sia raggiunta la considerevole e prefissata percentuale minima di voti, non vi è alcuna ragione per sbarrare l’entrata in Consiglio a una lista che abbia ottenuto il 3%, o il 2,5%, anziché il 4% (come previsto dalla legge elettorale regionale abruzzese), regalando un consigliere in più a liste che già ne hanno altri ed eventualmente parecchi. In questo caso, infatti, si sacrifica la rappresentatività senza alcun “bilanciamento”, ossia senza che lo sbarramento serva a garantire la maggioranza in Consiglio, già assicurata dal premio di maggioranza.
L’assunto sembrerebbe invero essere stato negato dalla Corte Costituzionale nella laconica sentenza n. 193 del 2015, sul presupposto che “La previsione di soglie di sbarramento e quella delle modalità per la loro applicazione, infatti, sono tipiche manifestazioni della discrezionalità del legislatore che intenda evitare la frammentazione della rappresentanza politica, e contribuire alla governabilità”. Tuttavia si tratta di affermazione confusa e contraddittoria. Confusa perché “evitare la frammentazione della rappresentanza politica” e “contribuire alla governabilità” non sono due fini e dunque non si collocano sullo stesso piano. Una minore frammentazione della rappresentanza politica è soltanto una conseguenza che si ottiene con la previsione dello sbarramento, il quale ha il fine di agevolare la governabilità, non è un fine. Il fine è soltanto di agevolare la governabilità. Ma allora se e nella misura in cui la governabilità è garantita dal premio di maggioranza, non vi è ragione per limitare il principio del “voto eguale”. Il sacrificio del valore costituzionale del “voto eguale” non può essere di limitare possibili effetti di fatto del voto eguale, perché ciò significherebbe limitare il principio costituzionale senza alcun’altra ragione che quella di limitarlo. Se poi, erroneamente, si volesse considerare l’“evitare la frammentazione della rappresentanza politica, come un fine, allora sarebbe da chiedersi se esso sia costituzionalmente legittimo, considerato che, assegnata, in base al premio, la maggioranza dei Consiglieri alle liste che sostengono il più votato dei candidati alla Presidenza della Regione, l’unico effetto dello sbarramento è di escludere dalla rappresentanza una lista che non abbia raggiunto la soglia di sbarramento (per esempio una lista che abbia ottenuto il 3,9% dei voti in Abruzzo) a favore di liste che o hanno ottenuto già un certo numero di Consiglieri (per esempio una lista che abbia conseguito l’11% potrebbe ottenere un quarto Consigliere, pur avendo ricevuto voti che non sono nemmeno tre volte quelli conseguiti dalla prima lista), oppure a favore di una lista, collegata ad altre, e che magari ha ottenuto il 2,1%, ossia poco più della metà dei voti della lista che ha ricevuto il 3,9% dei consensi.
Pertanto, sarebbe bene che il Consiglio Regionale abruzzese, nel modificare la legge elettorale regionale, sancisse l’inoperatività della soglia di sbarramento (almeno) con riguardo alle ipotesi in cui un partito o una coalizione raggiungano la percentuale del 40% dei consensi o comunque la diversa percentuale alla quale è collegato il premio di maggioranza.
Un ulteriore, ancor più palese, profilo di incostituzionalità risiede nella doppia soglia di sbarramento. La legge elettorale per la Regione Abruzzo prevede infatti due diverse soglie di sbarramento: uno sbarramento del 4% per la lista non collegata (ossia non in coalizione) con altre liste; uno sbarramento del 2% per la lista collegata con altre liste (ma la coalizione delle due o più liste, finanche dieci nelle precedenti elezioni regionali in Abruzzo, deve raggiungere complessivamente il 4%). Questa norma stabilisce che una lista che ha un programma davvero alternativo e incompatibile con quello degli altri partiti – per esempio una lista con programma socialdemocratico che volesse far riemergere, nella politica italiana, il criterio sociale, sfidando le varie correnti del partito unico liberaldemocratico: PD, FI, LeU, M5S e Lega – deve raggiungere il 4% dei consensi per accedere in Consiglio, mentre una lista che ha un programma simile a uno dei grandi partiti esistenti o addirittura ne accetta il programma, siccome si è alleata con uno dei partiti dominanti, deve raggiungere semplicemente il 2%. La norma non viola semplicemente il profilo di uguaglianza sotto il profilo della irragionevolezza della diversità di trattamento, ma anche il principio di uguaglianza, sotto il profilo della giustizia e della non discriminazione per le idee politiche, nella misura in cui discrimina le idee e i programmi originali e innovativi, buoni o cattivi che siano, rispetto alle idee a diffusione consolidata.
Infine, – ma in realtà sto sorvolando su questioni di costituzionalità di natura più palesemente tecnica, che saranno comunque sottoposte all’attenzione dei Tribunali e quindi della Corte Costituzionale – sebbene probabilmente non sia questione di costituzionalità ma di mera opportunità, sarebbe il caso che il Consiglio Regionale affrontasse il profilo della quantità delle sottoscrizioni necessarie per presentare le liste circoscrizionali provinciali. Oggi, in base ad arbitrarie disposizioni delle diverse Regioni, che derogano al criterio proposto al livello di legislazione nazionale, ora diminuendo ora aumentando le sottoscrizioni richieste, sono sufficienti 1000 sottoscrizioni nella città metropolitana di Milano, su 3.235.000 abitanti, 500 nella circoscrizione unica in Umbria, su 895.000 abitanti, e 700 sottoscrizioni per tutte le province toscane che abbiano dai 200.000 a 500000 abitanti – tutte e tre le Regioni hanno derogato alla disciplina nazionale, riducendo il numero delle sottoscrizioni -; sono poi sufficienti 1000 sottoscrizioni nella provincia di Viterbo, su 318.000 abitanti – la Regione Lazio non ha derogato al criterio previsto dalla legge nazionale di minimo 1000 sottoscrizioni per le province con popolazione superiore a 100.000 abitanti ma inferiore a 500.000; sono invece necessarie 1500 sottoscrizioni per ogni circoscrizione provinciale abruzzese, ciascuna delle quali ha un numero di abitanti simile a quello della provincia di Viterbo: la legge elettorale abruzzese, infatti, nell’art. 12, 2° comma, ha derogato alla legge nazionale aumentando il numero delle sottoscrizioni necessarie.
Orbene, non fa onore all’Abruzzo aver aumentato le sottoscrizioni necessarie per presentare le liste provinciali, aver innalzato lo sbarramento dal 3% (previsto dalla disciplina nazionale) al 4% per le liste che, a causa evidentemente di rilevanti diversità programmatiche, non si colleghino (coalizzino) con i partiti esistenti e averlo abbassato al 2% per le liste civetta, che si colleghino e rafforzino i partiti esistenti, creando una palese discriminazione. Bisogna augurarsi, dunque, che il Consiglio Regionale, nel modificare la legge elettorale, diminuisca il numero delle sottoscrizioni richieste almeno recependo il criterio previsto nella legislazione nazionale di 1000 sottoscrizioni per le circoscrizioni che hanno dai 100.000 ai 500.000 abitanti.
Le osservazioni che precedono valgono anche per le leggi elettorali di altre Regioni, alcune delle quali addirittura prevedono un premio di seggi, fisso nel numero, per le liste che hanno appoggiato il candidato alla Presidenza che ha ottenuto più voti, anche se il premio non è sufficiente a far ottenere la maggioranza in Consiglio Regionale. Insomma si tratta di una compressione della rappresentatività che non trova nessuna giustificazione, visto che in questo modo non si assicura la governabilità.
Sarebbe bene che un po’ in tutte le Regioni i cittadini di buona volontà cercassero, diffondendo questo articolo, con nuovi articoli pubblicati sulla stampa online delle contrade italiane, con petizioni o con ricorsi ai Tribunali, di sollevare dibattiti sulla costituzionalità delle leggi elettorali.
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