Il mito degli uguali
di ALESSANDRO CASTELLI (FSI Trento)
Leggendo Il Mito degli Uguali, un libro del 1996 scritto dal politologo britannico John Dunn, che dallo studio del pensiero di John Locke è passato alla descrizione dei limiti e delle problematiche dei sistemi democratici e della globalizzazione, non ho potuto fare altro che ripensare, per le ragioni che dirò, alle parole dei New Model Army di 51st State: Here in the land of opportunity, watch us revel in our liberty, You can say what you like but it doesn’t change anything, Because the corridors of power are an ocean away, We’re the 51st state of America.
Prima, però, bisogna rimarcare che la visione del mondo dell’autore rimane quella di un pensatore liberale, e forse proprio per questa ragione si può dire che all’interno del libro ci sono alcune domande rimaste, in parte o persino del tutto, senza riposta. Eppure, l’autore riconosce che si può dire, alla fine della lettura di questi quattro capitoli – ovvero La comparsa della democrazia, dove ci si concentra sulle caratteristiche della democrazia nell’Atene del VII secolo, La seconda venuta della democrazia, incentrato sulle vicende di tale parola durante e dopo la Rivoluzione Americana e Francese, La lunga ombra del Termidoro (forse il capitolo più importante, dove attraverso le voci di François-Noël Babeuf, rivoluzionario e giornalista francese e Filippo Ludovico Buonarroti, rivoluzionario italiano naturalizzato francese, si mettono a fuoco due concetti cardine per il prosieguo del libro: l’ordine degli eguali, la volontà cioè di rendere gli uomini uguali di fronte alla legge sia dal lato attivo che dal lato passivo, e l’ordine dell’egoismo, la volontà di mantenere determinate persone in posizioni di preminenza rispetto ad altre, che risulta tuttavia perfettamente compatibile con il suffragio universale) ed infine Perché la democrazia, dove si cerca di dare ragione degli interrogativi sollevati in corso d’opera, pur mantenendo, come si diceva in apertura, qualche perplessità – che il termine “democrazia”, nelle modalità governative contemporanee, è stato sottoposto a uno stiramento semantico pressoché brutale.
Semplificando al massimo e a rischio di perdere più di un livello della profondità nel discorso di Dunn, esso si potrebbe riassumere cosi: in origine per “democrazia” si intendeva il governo attivo del demos, vale a dire del popolo minuto, chiamato a esercitare un ruolo nel processo di legiferare. Soltanto attraverso i vari passaggi di cui sopra si è arrivati al significato attuale, vale a dire quello di “democrazia rappresentativa”. E in questi passaggi si è andato a perdere proprio quell’insieme di istanze che, come direbbero Babeuf e Buonarroti, avrebbero dovuto consentire a quantomeno mettere un tampone alla diseguaglianza economica delle persone. Infatti:
“in sostanza, l’ordine dell’egoismo era aristocratico perché inevitabilmente generava disuguaglianza, richiedendo e garantendo l’esercizio del potere sovrano di una parte della nazione sull’altra. Per Buonarroti, la libertà di una nazione dipendeva da due fattori: l‘uguaglianza che le sue leggi sancivano in merito alla condizione dei cittadini e il più completo esercizio dei loro diritti politici. Il secondo elemento non poteva sostituire il primo. I fautori dell’uguaglianza individuavano con chiarezza gli effetti, ai loro occhi distruttivi, derivanti da proposte costituzionali che non fossero volte a stabilire una vera uguaglianza delle condizioni. Non stupisce, quindi, che essi considerassero i loro avversari più interessati alla costituzione, i girondini, come parte di una più vasta cospirazione contro i diritti naturali dell’uomo”. [pag. 135]
Quindi, a partire dall’America settecentesca, si è distribuito il potere in modo tale anche che al popolo minuto non rimane che esprimere parere politico, ma senza aver alcuna possibilità di cambiare veramente la sua situazione. Tutt’altro:
“solo tale forma di stato può sperare di rappresentare davvero il popolo nel corso del tempo. Essa sola, e forse nel lunghissimo periodo, può unire una concreta realizzabilità nell’immediato a una convincente pretesa di agire per conto e grazie al corpo dei suoi cittadini. Delegare il governo a un numero relativamente ridotto di cittadini, ma anche pretendere che essi siano scelti dalla maggioranza dei loro concittadini, se non da tutti, costituiva un modo astuto di mescolare uguaglianza e disuguaglianza. In questo modo non si poteva garantire concretamente la perenne vittoria ai fautori dell’opulenza e della distinzione, ma si poteva stabilire, e in effetti lo si fece, un’arena in cui quella vittoria poteva essere ripetutamente ricercata e raggiunta attraverso i giudizi e le scelte dei cittadini. Facendo ciò, e lasciando in apparenza che la loro vittoria potesse essere sempre essa in discussione, nel lungo periodo, si vinse anche la guerra”. [pag. 138]
Solo tale forma di Stato, certo: a patto che si espungano da essa le ragioni dell’ordine degli eguali. Ed è qui che l’intero discorso risulta particolarmente interessante: perché se è vero che, in realtà, tutto questo ha funzionato a meraviglia per l’ordine dell’egoismo, bisogna tuttavia rilevare che il gioco di prestigio ha funzionato meno in Europa che negli U.S.A. Nell’Europa del Novecento, infatti, le ragioni dell’Ordine degli uguali – espressione che potrebbe essere benissimo tradotta con “lotta di classe” – sono riuscite in qualche modo effettivamente a mettere dei paletti all’interno di una struttura che era pensata a priori per fare in modo che questi paletti non potessero essere messi.
Ma allora non si potrebbe forse dire che l’intera costruzione dell’Europa Comunitaria non ha fatto altro che allungare la filiera dei passaggi tra l’espressione del voto e la prassi posta in essere da quel voto stesso, allo scopo di limitare lo spazio di manovra dei fautori dell’uguaglianza grazie al mero aumento dello spazio geografico?
“La repubblica, nel senso in cui egli la intendeva, differiva in vari modi dalla democrazia pura: «I due grandi elementi di differenziazione tra una democrazia e una repubblica sono i seguenti: in primo luogo, nel caso di quest’ultima vi è una delega dell’azione governativa a un piccolo numero di cittadini eletti da altri; in secondo luogo, essa può estendere la sua influenza su di un maggiore numero di cittadini e su una maggiore estensione territoriale». L’Unione degli Stati Americani comprendeva un territorio vasto e una popolazione decisamente numerosa e, pertanto, richiedeva una forma di governo in grado di gestire entrambi i fattori, cosa che chiaramente un «governo democratico» non poteva fare. L’Unione fu quindi costretta a scegliere un numero relativamente ridotto di rappresentanti che agissero per conto di una grande quantità di cittadini e la selezione stessa, presumeva ottimisticamente Madison, sarebbe stata la garanzia della qualità delle persone scelte. L’ampiezza del territorio e la numerosità della popolazione avrebbero dato origine a un’ampia varietà di partiti e interessi, riducendo il rischio che si creassero coalizioni maggioritarie con l’intenzione di violare i diritti degli altri cittadini. Anche nel caso in cui fossero sorte alleanze di questo genere, comunque, sarebbe stato impossibile coordinare su un teatro tanto vasto attività politiche palesemente illecite, mantenendole segrete”. [pag. 78]
Si potrebbe quindi dire che trasferire vincoli, leggi, e strutture governative dalla sovranità dello Stato a una struttura sovranazionale non ha fatto altro che allungare la filiera, come si diceva, e a rendere quindi più rigidi quei paletti che garantiscono una vasta percentuale delle vittorie all’ordine dell’egoismo, e questo tutto sommato questo trasferimento costringe l’ordine degli uguali a lottare in una guerra che li vede a priori sulla lunga distanza perdenti. Dove invece l’ordine degli uguali è più forte è una sorta di close quarter combat, dove il nemico non è un burocrate senza volto a Bruxelles ma può essere il proprio vicino di casa.
Ecco perché bisogna in questo senso essere chiari: sovranismo significa riportare il terreno di scontro in una dimensione più adatta all’ordine degli uguali, un terreno dove i passaggi sono minori e dove quindi è meno probabile che entrino in gioco desiderata di lobby, corruzione o semplicemente vincoli legislativi preesistenti.
Non solo: il sovranismo è anche un modello, almeno potenzialmente, universalizzabile nel riportare il terreno di scontro fra l’uguaglianza e l’egoismo a portata del popolo, inteso come demos, popolo minuto, of course, e d’altra parte nel tenere presente il rischio della deriva opposta, vale a dire, come ben illustrato in L’Ethnie à l’assaut des nations di Samir Amir, un economista marxiano purtroppo recentemente scomparso, la creazione di comunità statuali basate sull’etnia, con il risultato di espungere dal campo delle forze e controforze presenti nel tessuto della comunità stessa ogni idea di lotta di classe. Insomma, tutti gli appartenenti a una comunità X sono uguali appartenendo alla stessa etnia, indipendentemente dal loro status sociale.
Ma anche questa deriva è, tutto sommato, uno dei risultati della globalizzazione. Per questo bisogna riportare le ragioni dell’ordine dell’uguaglianza nella dimensione quotidiana delle persone, dimensione quotidiana dove, manco a dirlo, i differenziali di reddito sono tra le caratteristiche più immediatamente evidenti. Per questo, in conclusione, bisogna riportare quei famosi corridors of power ben più vicino che non an ocean away…
Una risposta
[…] articoli precedenti [qui e qui, ndr] si era cercato tra le altre cose di dare conto della difficoltà di governare un […]