Ragioni di sovranismo
di ALESSANDRO CASTELLI (FSI Trento)
Negli articoli precedenti [qui e qui, ndr] si era cercato tra le altre cose di dare conto della difficoltà di governare un territorio in vista del bene comune nel momento in cui si allunga la linea di comando ben al di fuori da quelli che sono i confini di Stato. In questa occasione, in una sorta di detour rispetto al filo conduttore dei primi interventi, vorrei invece concentrarmi su una seconda tipo di problematica, ovvero sulle motivazioni che fanno sì il capitalismo globalizzato si basi ormai sulla negazione dei confini, in modo tale che si possa procedere liberamente alla distruzione di un territorio proprio perché si è già negato questo territorio nella sua stessa essenza.
Secondo il ben noto paradigma contemporaneo, il confine di Stato viene considerato come un relitto del passato, un qualcosa che è stato ormai superato dal procedere della storia. L’orizzonte della contemporaneità diventa dunque l’intero globo terracqueo. Purtroppo, tutto ciò implica che le persone che si trovano all’interno di uno Stato X si troveranno non soltanto a competere per delle risorse fra di loro, ma anche, quanto meno potenzialmente, con tutto il resto dell’umanità. Dall’oggi al domani infatti un numero non prevedibile di persone potrebbe spostarsi dal proprio territorio di appartenenza per venire a consumare il territorio appartenente allo Stato X di cui sopra.
Ciò si contrappone all’idea che uno Stato, nonostante abbia delle fortissime contraddizioni anche al suo interno, in un certo senso possa essere considerato un sistema chiuso, dove le persone che vivono al suo interno, indipendentemente dalla loro condizione economica, a un certo punto volenti o nolenti si troveranno a cooperare perché, non potendo né uscire né far entrare merci, capitale o persone dall’esterno, cooperare tra di loro è l’unico modo per mantenere l’esistenza stessa di quello Stato. Ovviamente nessuno Stato è un sistema veramente chiuso, ma ho fatto un esempio al limite allo scopo di essere chiaro.
Viceversa una volta che si è deciso di negare l’esistenza stessa del confine, allora il modello di consumo di un territorio diventa quello tipicamente posto in essere da uno sciame di cavallette: si entra in un territorio (anche mentalmente, nel caso in cui ci si è nati ma lo si neghi dal punto di vista concettuale), lo si depreda di tutte le sue risorse e dopodiché ci si allontana in un secondo territorio per riprendere daccapo. Questo lo si può fare perché avendo negato il confine si è negata l’esistenza di un’identità mantenutasi nel tempo di quel territorio, identità che invece dovrebbe avere un valore di per sé. Negando tale valore, è chiaro che l’unico parametro per indicare un dato territorio è quello delle sue risorse, viste per giunta come immediatamente utilizzabili e depredabili.
È per questo motivo che è necessario ripristinare l’idea che lo Stato esista, in primo luogo, che abbia un’identità ben precisa, che questa identità sia un qualcosa che abbia un valore di per sé e che quindi debba essere mantenuta nel tempo indipendentemente dai bisogni, spesso viziati da una incapacità o da una non volontà di avere una visione di lungo periodo, del mercato.
Diacronie e sincronie
Ci sono però un certo numero di armi retoriche per negare l’esistenza dello Stato.
Innanzitutto si pensi alla convinzione che in realtà non esista in nessuna modo una sorta di purezza originaria e che quindi lo Stato sia il risultato di una serie di incroci tra culture e società diverse che a loro volta nel loro passato sono frutto di incroci e così via all’infinito. Ora, c’è del vero in questa affermazione: è ovvio che ciascuno Stato, ma del resto anche ciascuno di noi, ha alle sue spalle una storia che non necessariamente si mantiene pura, qualsivoglia significato si dia a questo termine, in tutto il suo percorso. Tuttavia è anche vero che se di purezza dobbiamo parlare, contrapposta al meticciato – parola magica che entra in gioco in tantissime occasioni nel mondo contemporaneo – noi dobbiamo pensare però che il meticciato ha senso solamente se noi osserviamo uno stato o territorio o cultura o società in senso diacronico: una cultura diventa meticcia nel momento in cui in un tempo X è stata contaminata da una seconda cultura e in un tempo X più incognita è diversa rispetto al passato per via di questa contaminazione.
Se viceversa noi osserviamo uno Stato da un punto di vista sincronico, nessuno può dirci che noi non possiamo fare la scelta arbitraria prendere un tempo X piuttosto che un tempo Y e considerare lo stato dell’arte del tempo X come un qualcosa da valorizzare e da mantenere nel tempo. Per fare una cosa del genere, chiaramente, ci vogliono delle motivazioni forti: la scelta totalmente arbitraria ricadrebbe nel campo del volontarismo e quindi, tradotto in senso politico, nel populismo. Al contrario difendere uno stato dell’arte al tempo X non ha un valore di per sé, ma ha un valore nel momento in cui questa difesa va in una certa direzione etica. Credo però che se noi facciamo scendere questo concetto nella nostra realtà la difesa dello Stato ricade esattamente nel secondo caso: è proprio difendere lo Stato, nel nostro momento storico, che ha il fine etico di combattere contro la globalizzazione liberale.
Cittadini del mondo? No, italiani
C’è però un seconda arma retorica che viene utilizzata nei confronti di un tentativo della difesa dello Stato. Si potrebbe infatti ribattere: se si dice che uno Stato va difeso per evitare che qualcuno non sentendosi parte dello Stato medesimo e quindi non preoccupandosi del suo mantenimento lo depredi fino alle sue estreme conseguenze, allora in fondo allargando il discorso al massimo si potrebbe dire che anche l’intero pianeta sia suscettibile a questo tipo di ragionamento e che quindi in realtà non si stia facendo altro che spostare una problematica da un livello globale, dove dovrebbe essere affrontata, a un livello statale, ma senza aggiungere nessun tipo di livello di problematicità.
Ora, è vero che il pianeta sia in una situazione di sofferenza e quindi sia nostro dovere difenderlo dalle logiche mercatistiche. È anche vero però che affermare l’esistenza dell’Italia in qualche modo, pur presupponendo chiaramente tutte le differenze culturali che esistono nelle regioni d’Italia, ha un significato che è qualcosa di più rispetto a dirsi cittadino del Lazio o cittadino della Lombardia. Cioè, dietro c’è una storia che è spiegabile razionalmente e che rende identità italiana qualcosa di più della mera somma delle sue parti.
Al contrario attestare che l’intera comunità statale mondiale abbia un significato nel senso appena spiegato non pare un’affermazione corretta, se non altro perché se una persona si dice cittadino del mondo lo fa in fondo, se dovessimo spiegare razionalmente questa asserzione, soltanto allo scopo di negare l’esistenza delle cittadinanze nazionali, mentre asserire di essere cittadino italiano già implica un’affermazione positiva.
Il problema del limite
Certo, il problema qui è il dialogare con filosofie che hanno fatto della negazione del concetto stesso di identità e di verità il loro statuto teoretico. Si veda per esempio il post-strutturalismo, mediante una rapida disamina del concetto di limite spiegato in un volume dagli intenti divulgativi, vale a dire Understanding Poststructuralism di J. Williams:
“Il post-strutturalismo rintraccia il percorso degli effetti del limite sul nucleo della conoscenza e sulla nostra costante comprensione del vero e del bene. Lo fa in modo molto radicale. […] l’affermazione è che il limite è il nucleo. Cosa significa questa strana affermazione? Significa che qualsiasi forma di conoscenza o bene morale stabilita è costituita dai suoi limiti e non può essere definita indipendentemente da essi. Significa anche che qualsiasi esclusione di questi limiti è impossibile. I limiti sono la verità del nucleo e ogni verità che nega questo è illusoria o falsa. La verità di una popolazione è dove sta cambiando. La verità di una nazione è ai suoi confini. La verità della mente è nei suoi casi limite. Ma la definizione di un limite non dipende dalla nozione di un nucleo precedente? Sai solo che il sonno-sonno-sonno-bevanda è deviante a causa del predominio del sonno-lavoro-mangia-sonno. No; la definizione autonoma del limite è il filo conduttore più importante nel post-strutturalismo. Il limite non è definito in opposizione al nucleo; è una cosa positiva di per sé. Questa definizione è radicale poiché mette in discussione il ruolo delle forme tradizionali di conoscenza nella definizione delle definizioni. Nessun post-strutturalista definisce il limite come qualcosa di conoscibile (diventerebbe semplicemente un altro nucleo). Piuttosto, ogni pensatore post-strutturalista definisce il limite come una versione di una differenza pura, nel senso di qualcosa che sfida l’identificazione. La terminologia esatta scelta per questa differenza varia notevolmente ed è molto controversa. Vedremo che solleva anche molti problemi seri. Quindi, in modo meno controverso, il limite è una cosa inafferrabile che può essere affrontata solo attraverso la sua funzione di rottura e cambiamento nel nucleo. Non puoi identificare il limite, ma puoi rintracciare i suoi effetti. I post-strutturalisti tracciano gli effetti di un limite definito come differenza. Qui, la “differenza” non è compresa nel senso strutturalista della differenza tra cose identificabili, ma nel senso di variazioni aperte (a volte sono chiamate processi di differenziazione, altre volte, differenze pure). Questi effetti sono trasformazioni, cambiamenti, rivalutazioni. Il lavoro del limite è aprire il nucleo e cambiare il senso del suo ruolo come verità e valore stabili. E se la vita assumesse modelli diversi? E se le nostre verissime verità fossero altrimenti? Come possiamo rendere le cose differenti?” (1)
Se capisco bene il ragionamento, tutto ciò significa che mentre per gli strutturalisti il mondo, o la società umana, si presenta come una struttura e quindi, in quanto tale, è organizzata organicamente con parti che coesistono e si relazionano le une con le altre sulla base di processi razionali e riconoscibili, nella prospettiva post-strutturalista viene messo in dubbio la possibilità di studiare razionalmente l’essere – e il dover essere – del limite stesso, con il risultato di interpretare il limite sempre e soltanto come il prodotto di una determinata cultura. In un certo senso, si potrebbe persino affermare che mentre il nucleo è il fenomeno, il limite del nucleo è un noumeno, di cui non si conosce l’esatta natura ma, parafrasando J. Williams, di cui se ne può rintracciare gli effetti. Tuttavia, mentre per Kant il rapporto tra il fenomeno e il noumeno, quanto meno da un punto di vista delle qualità primarie, era un rapporto sempre certo e scientificamente prevedibile, per i post-strutturalisti non c’è la possibilità di prevedere razionalmente come evolverà il limite – si può al massimo tentare con la ragione di chiarire i rapporti di forza che lo hanno piegato in una direzione piuttosto che in un’altra, dal momento che la sua interpretazione, come si diceva prima, è sempre e soltanto culturale, per mettere a nudo il potenziale autoritaristico di determinate scelte. A questo punto, però, da Kant si passa a una sorta di idealismo oggettivo alla Spinoza, dove i fenomeni, e i limiti che li definiscono, sono vincolati alla variazione infinita e non prevedibile dell’oggetto che li comprende tutti, con il rischio però che nel nostro tempo l’oggetto in questione sia proprio il mercato e i suoi bisogni.
Dal momento infatti che il nucleo – lo Stato e la tradizione che lo caratterizza, nel nostro caso – non può essere indagato positivamente, in modo tale che da noi non si possa mai sapere ontologicamente cosa sia quel limite – e quindi nemmeno il giusto limite – ecco che il limite stesso diventa un qualcosa di immediatamente manipolabile, manipolabile però non dall’intera umanità o dalla sua parte migliore, ma dalla volontà del più forte.
Ma c’è di più: proprio perché si vede l’intero come il prodotto di un mutamento di un oggetto e non come un processo, allora qualsiasi tentativo di chiusura e di stabilità vengono viste immediatamente come un qualcosa di negativo dal momento che, paradossalmente, si finisce per ipostatizzare il cambiamento come l’unica realtà dell’oggetto, ricadendo in quell’assolutismo che si voleva combattere. Al contrario, soltanto vedendo l’intero come processo si può rivalutare anche il ruolo della chiusura e della stabilità, quando la situazione contingente lo richiede. Ma per fare ciò, daccapo, bisogna poter conoscere non solo il nucleo ma anche il limite, grazie al recupero di tradizioni filosofiche che al contrario del post-strutturalismo, hanno nel loro arsenale concettuale la capacità di indagare razionalmente la differenza, un esempio su tutti l’idealismo. Viceversa, se questa manovra è impossibile perché qualsiasi definizione è in ultima analisi sempre il risultato di un gioco di potere, si ricade in un assoluto, visto che non c’è altro modo per definire la definizione stessa del potere medesimo (2). Ma più che su tale aspetto, più che altro sottolineerei un’altra sfaccettatura: legando il nucleo a dei confini di cui però non si possono fare delle analisi teoretiche relativamente alla loro essenza, si finisce per definire il nucleo semplicemente il risultato un atto volontaristico comunque sempre criticabile e superabile, in qualche modo un non ente, insomma. Se le cose stessero così, il mercato potrebbe continuare con le sue pratiche predatorie in quanto alla fine dei conti agirebbe su un non ente. Siccome il nucleo invece esiste e la sua esistenza è autonoma – autonoma, dico, in quanto risultato di un processo razionalmente indagabile – e non è soltanto il risultato di una scelta arbitraria, allora la modifica che il mercato può andare è una modifica che va a intaccare un esistente, con tutte le conseguenze del caso.
E con questo il cerchio si chiude: è proprio invece considerando lo Stato e la storia che lo accompagna come non un qualcosa di esistente solo perché qualcuno intende mantenerli in essere, ma come qualcosa che esiste in sé e quindi come qualcosa che deve essere mantenuto, che si inizia ad avere delle armi per imbrigliare la forza distruttiva del capitalismo globale. In altre parole, l’uso della ragione ci dice che il limite non è un qualcosa di inafferrabile, ma è anch’esso, come il nucleo, un fenomeno di cui si può indagarne l’essere, quanto meno storicamente. E l’essere di un ente, ma si passi l’espressione, non è più, una volta arrivati al termine di un percorso logico-razionale, qualcosa su cui qualcuno possa esibire un atto di proprietà, magari proprio per certificarne la non esistenza. E una volta che si mostra che uno Stato ha una sua tradizione ben precisa, unica e irripetibile, non è più così semplice per il mercato intervenire con le sue logiche predatorie asserendo che in c’era nulla da distruggere fin dall’inizio.
Conclusioni
Questo non significa operare una difesa a oltranza della tradizione o di uno Stato interpretandoli ancora una volta come un assoluto, significa però, ripeto, rendersi conto che non si può mettere la tradizione, un’esistenza dello Stato o l’esistenza di una certa cultura in una situazione di estrema debolezza, dove il più forte del momento possa imporre delle modifiche in qualsiasi momento. Bisogna considerarli come qualcosa di immediatamente valido di per sé, su cui bisogna agire in accordo con la ragione.
Note
- Understanding poststructuralism, James Williams, Chesham, Acumen, c2005. Corsivo mio.
- Si veda a questo proposito C. Preve, http://www.kelebekler.com/occ/disobbed10.htm: “Nel suo libro dedicato alle scuole filosofiche contemporanee (cfr. Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Bari 1987) Jürgen Habermas critica esplicitamente la teoria politica che deriverebbe inevitabilmente da Foucault (op. cit. pp. 241-270). Questa critica è a mio avviso molto intelligente. Habermas capisce bene che Foucault fa diventare il Potere un concetto trascendentale a priori, ed in questo modo qualunque agire politico, compreso il più democratico, diventa una specificazione del Potere, che è a sua volta considerato come assiologicamente negativo. Foucault (e di riflesso il suo allievo padovano Negri) non fonda così una nuova politica, ma ribadisce semplicemente l’impossibilità di ogni politica”.
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