Quanto è democratica la Costituzione americana?
di ALESSANDRO CASTELLI (FSI Trento)
Siamo arrivati così alla seconda tappa di un ragionamento che, partendo dal volume di John Dunn, Il mito degli Uguali, transita ora per il libro di Robert A. Dahl, Quanto è democratica la Costituzione americana?, sempre allo scopo di dimostrare come i vincoli che i sistemi liberali si danno per imbrigliare la volontà popolare erodono alle sue radici il significato stesso della parola “democrazia”.
Dico subito che questa, però, non è una recensione vera e propria del libro in oggetto: piuttosto prendo l’opera come pretesto per sostenere la mia tesi, visto che l’autore, tutto sommato, non ha particolari parole di critica nei confronti della Costituzione americana in sé. Quanto più, infatti, le leggi di uno Stato – o, nel caso dell’Unione Europea, sovranazionali – tendono a bypassare il principio delle democrazia ideale, ovvero “uno vale uno”, tanto più il potere effettivo finisce per concentrarsi nelle mani delle élite economiche, che useranno tali leggi per sottomettere non solo i cittadini normali ma anche le élite politiche e militari.
Tenderò dunque a usare il termine “democrazia” per indicare la democrazia ideale, e il termine “repubblica” per indicare un regime elitista, pur consapevole che questa terminologia è del tutto arbitraria. Ovviamente, in questo caso democrazia e repubblica non sono visti come alternative secche, ma piuttosto come dei poli opposti di un continuum.
Prima di occuparci però del libro in oggetto, è meglio fare una disamina dei due termini, dal momento che Robert A. Dahl tende a distinguerli come si evince dal seguente passaggio: “le idee e le opinioni sui requisiti della democrazia, e dunque sui requisiti di una repubblica democratica, avrebbero continuato a evolversi fino al presente e probabilmente anche oltre. Sia nel modo in cui intendiamo il significato della parola sia nelle pratiche e nelle istituzioni che consideriamo necessarie ad essa, la democrazia non è un sistema statico. Le idee e le istituzioni democratiche, per come si sono sviluppate nei due secoli successivi alla Convenzione americana, sarebbero andate ben oltre le concezioni dei Costituenti e avrebbero anche trasceso la visione dei pionieri della democrazia come Jefferson e Madison, che contribuirono a dare inizio al movimento che portò alla repubblica democratica” (pag. 9).
Democrazia e Repubblica
Secondo l’Enciclopedia Treccani, la democrazia è una “forma di governo che si basa sulla sovranità popolare e garantisce a ogni cittadino la partecipazione in piena uguaglianza all’esercizio del potere pubblico […]
Se la democrazia nel suo significato letterale ha per referente la polis (la città-comunità), la democrazia dei moderni si organizza in uno Stato territoriale esteso a vastissime collettività. Rispetto alla democrazia antica, che si configura essenzialmente come democrazia diretta, quella moderna si connota quindi in primo luogo come democrazia rappresentativa.
Più in particolare, la democrazia moderna identifica quella specifica forma di Stato in cui i principi del costituzionalismo liberale si sono fusi con il principio della sovranità popolare. Così, se il suffragio universale (➔ voto) ha sancito la piena affermazione del cosiddetto principio maggioritario, in base al quale le decisioni sono prese dalla maggioranza e la minoranza si conforma a esse, dando piena espressione al principio della sovranità popolare, questo è stato contemperato da una serie di limiti e obblighi, volti a garantire i diritti delle minoranze”.
Per quanto riguarda il termine repubblica invece:
“In generale, la repubblica viene contrapposta alla monarchia, in base alla considerazione che la prima sarebbe caratterizzata dall’elettività e dalla temporaneità della carica del Capo dello Stato, laddove la seconda si caratterizzerebbe per l’ereditarietà e la durata vitalizia di questa (salva l’abdicazione) […]
Nell’ambito del pensiero politico moderno, la nozione di repubblica è stata utilizzata in alcuni casi come sinonimo di democrazia – come per Machiavelli, che sostituisce alla classica tripartizione delle forme di governo la bipartizione tra repubbliche e principati – mentre in altri è stata utilizzata in contrapposizione a democrazia (secondo Madison nei Federalist Papers)”.
L’idea è spiegata meglio alla voce Democrazia. Diritto costituzionale:
“Democrazia rappresentativa e democrazia diretta.- Una delle distinzioni più importanti che investono la nozione di democrazia è quella tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta: la prima caratterizza le forme moderne di democrazia, mentre la seconda caratterizzava quelle antiche. Mentre la prima si esplicita attraverso il meccanismo della rappresentanza politica e dell’elezione, la seconda postulava la diretta partecipazione di ogni cittadino all’esercizio diretto del potere sovrano e al meccanismo dell’elezione preferiva quello del sorteggio.
Questa distinzione si trova per la prima volta nel saggio n. 10 dei Federalist Papers, dove Madison contrappone tra loro «democrazia» (la democrazia c.d. degli antichi) e «repubblica» (la democrazia c.d. dei moderni): per Madison, infatti, nella democrazia i cittadini si adunavano e si autogovernavano direttamente, mentre nella repubblica creavano, con il proprio voto, corpi collegiali e si governavano tramite propri rappresentanti”.
Ora, è chiaro che il problema sta tutto in come i cittadini – e quali? – creano i corpi collegiali ed eleggono i propri rappresentanti. È ovvio che se i cittadini che hanno scritto le leggi a tale scopo sono dei cittadini che difendono taluni interessi e non altri, tali leggi iniziano a erodere il significato stesso di democrazia, al di là dell’etichetta che verrà appiccicata al sistema.
Ed è precisamente questo problema che viene discusso in quelli che sono i due capitoli più interessanti del libro, ovvero il secondo, Ciò che i Costituenti non sapevano, e il quarto, L’elezione del Presidente.
Prima di passare senz’altro a una rapida disamina di questi due capitoli, non sarà forse inutile offrire una veloce analisi della struttura base del potere statunitense.
Il governo federale degli Stati Uniti
Semplificando al massimo, il governo federale degli Stati Uniti si basa su una rigidissima ripartizione in tre poteri, di cui tralascerò per semplicità e brevità il terzo, ossia quello giudiziario. Mi limiterò pertanto a segnalare che:
– il potere legislativo è affidato al Congresso, vale a dire un’assemblea divisa in due camere, la Camera dei Rappresentanti (435 membri, che sono eletti in rappresentanza di un distretto elettorale) e il Senato (100 membri, due per ogni Stato). Mentre i membri del Congresso vengono rinnovati ogni due anni, tale lasso di tempo rinnova la camera Alta solo per un terzo; da notare altresì che nella procedura di impeachment, la Camera dei Rappresentanti svolge le funzioni istruttorie e il Senato è organo giudicante.
– il potere esecutivo è affidato invece al Governo federale, composto dal Presidente degli Stati Uniti, dal Vicepresidente e dal Gabinetto dei ministri, di nomina presidenziale.
Tra questi poteri – e tra questi e il potere giudiziario – intercorre una serie di vincoli atti a fare in modo che ogni potere non possa avere delle condizioni di supremazia nei confronti dell’altro. A questo proposito, nell’articolo disponibile in rete Why We Are a Republic, Not a Democracy Walter E. Williams scrive:
“I Costituenti mostrarono il massimo disprezzo per la tirannia del dominio della maggioranza e, in tutta la nostra Costituzione, hanno posto degli impedimenti a tale tirannia. Innanzitutto, la presenza di due camere del Congresso rappresentano un ostacolo alla regola della maggioranza: infatti 51 senatori possono bloccare la volontà di ben 435 rappresentanti della camera bassa e di 49 senatori; in secondo luogo, il Presidente può porre il veto ai desideri di 535 membri del Congresso, dal momento che ci vogliono due terzi di entrambe le case del Congresso per scavalcare un veto presidenziale; in terzo luogo, per cambiare la Costituzione non è necessaria la maggioranza, ma il voto dei due terzi di entrambe le case, e se un emendamento viene approvato, richiede la ratifica da parte dei tre quarti delle legislature statali; infine, il collegio elettorale è un’altra misura che ostacola il dominio della maggioranza. Fa in modo che gli Stati altamente popolati – oggi, principalmente i 12 sulle coste est e ovest, non possano scavalcare il resto della nazione. Ciò costringe un candidato presidenziale a prendere in considerazione i desideri degli altri 38 stati”.
Un’ulteriore analisi del reticolo di poteri e contropoteri del governo federale degli Stati uniti esula dai limiti di questo post, ma penso che il punto sia emerso comunque: dietro la volontà di evitare svolte autoritarie di uno dei poteri, in realtà c’è la volontà di imbrigliare la volontà della maggioranza in un vincolo formale che però, per forza di cose, diventa in realtà sostanziale, finendo per condizionare pesantemente tale volontà.
Ma andiamo, con Robert Dahl, a esaminare meglio tali vincoli.
Ciò che i Costituenti non sapevano
Punto cruciale per la tesi che sto andando a enunciare qui, al di là delle problematiche relative all’esistenza o meno delle fazioni e dell’evoluzione del pensiero di James Madison su cui l’autore si dilunga, è la disamina dei sette difetti principali della Costituzione del 1787: il fatto che mantenesse la schiavitù, che non riuscisse a garantire il diritto al suffragio lasciando le decisioni ai singoli Stati, che il potere esecutivo venisse affidato a un presidente la cui scelta era separata sia dalle maggioranze popolari che dal controllo del Congresso, che i senatori non venissero scelti dal popolo ma dalle assemblee legislative degli Stati, che non ci fosse un’equa rappresentanza al Senato e, infine, la questione del potere giudiziario.
È ovvio che successivi Emendamenti hanno corretto le più palesi violazioni della democrazia, soprattutto per quanto riguarda quelle che più si allontanano dalla sensibilità attuale.
Come ho già osservato, la più profonda violazione dei diritti umani ammessa dalla Costituzione del 1787, la schiavitù, non venne corretta fino all’adozione del XIII, XIV e XV emendamento, tra il 1865 e il 1870. Nel 1909 il XVI emendamento diede al Congresso, a partire dal 1913, il potere di imporre la tassazione sul reddito. Si passò all’elezione diretta dei senatori degli Stati Uniti anziché all’elezione da parte dei Parlamenti dei singoli Stati con l’adozione del XVII emendamento nel 1913. Il diritto di voto alle donne nelle elezioni federali e dei singoli Stati venne finalmente garantito con l’approvazione del XIX emendamento nel 1919. Benché gli sforzi di introdurre un emendamento sull’uguaglianza dei diritti fallissero, il XIV emendamento fu interpretato a un certo punto come base costituzionale per eliminare la discriminazione nei confronti delle donne e dl certe minoranze che subivano pratiche discriminatorie. L’iniqua poll tax, la tassa sul voto, che aveva escluso gli afroamericani dal voto in alcuni Stati del Sud, fu finalmente proibita nel 1964 dal XXIV emendamento. Infine, un Passo verso un elettorato più ampio si ebbe nel 1971 con il XXVI emendamento che ridusse l’età del voto a 18 anni. [Pag. 21]
Tuttavia, riguardo lo scollamento tra democrazia e repubblica, “Noam Chomsky […] dice in proposito parole chiare e prive di ambiguità: «la Costituzione di questo paese non è altro che una creatura concepita per tenere a bada la marmaglia, onde evitare che, neanche per errore, il popolaccio possa avere la cattiva idea di diventare padrone del proprio destino»” (1). Ma quali sono, esattamente, le caratteristiche che la rendono in grado di fare ciò? Abbiamo già visto come una serie di emendamenti abbiano modificato il testo del 1787 in senso più democratico, emendamenti che però non impediscono a far fare a N. Chomsky una valutazione tutt’altro che lusinghiera.
Che cosa, allora, rimane ancora prettamente anti-democratico in quella che molti politici di casa nostra definiscono come la Costituzione di una grande democrazia?
L’elezione del Presidente
L’autore, all’inizio del capitolo omonimo, ricorda la notte del 7 novembre 2000: “il paese prestava di nuovo attenzione a un’istituzione anomala […] il sistema del collegio elettorale, in base al quale la presidenza era andata – e non era la prima volta né, forse, l’ultima – a un candidato che aveva ricevuto meno voti del suo rivale” [pag. 53]. Si trattava chiaramente dell’elezione presidenziale che oppose il candidato repubblicano George W. Bush e il vicepresidente democratico uscente Al Gore. Ad ogni modo, l’autore ha fatto bene a scrivere “né, forse, l’ultima”, dal momento che la stessa cosa è accaduta con le elezioni presidenziali del 2016, quando l’imprenditore Donald Trump, candidato del Partito Repubblicano, ha sconfitto, Hillary Clinton, candidata del Partito Democratico.
In ogni caso, uno dei ruotismi più antidemocratici è, appunto, proprio il collegio elettorale, con almeno quattro criticità al di là del modo in cui vengono eletti gli elettori medesimi. Se è vero che originariamente “ciascuno Stato nomina, in base alle sue istituzioni legislative, un numero di elettori pari al numero totale dei senatori e dei membri della camera dei rappresentanti” [pag. 54], questa caratteristica fu però in effetti ben presto abbandonata.
Tuttavia, in primo luogo e come abbiamo già visto, “il candidato con il maggior numero di voti popolari – una maggioranza relativa o assoluta – potrebbe non ricevere la maggioranza dei voti dei grandi elettori e quindi di non essere presidente. [pag. 57]. In secondo luogo, “poiché ogni Stato ha diritto a ‘un numero di elettori pari al numero complessivo dei senatori e de rappresentanti del Congresso’ di quello Stato, la rappresentanza ineguale al Senato si ripropone ancora una volta. […] I dieci Stati più piccoli scelgono da due a tre volte più elettori ciascuno di quanto non farebbero se gli elettori fossero strettamente proporzionali alla popolazione” [pagg. 58 – 59]. Infine, la scelta degli elettori si basa sul principio del winner–take–all (uninominale secca, in inglese anche first past the post), ovvero: “le due opzioni principali erano le seguenti: assegnare la scelta degli elettori al legislativo o conferirla al popolo; la scelta popolare, a sua volta poteva essere fatta sia per distretto – un elettore per distretto – che su vasta scala, con il vincitore che prende tutti i voti dei votanti dello Stato winner–take–all.” Va detto però che “a differenza dei problemi legati al collegio elettorale che sorgono da aspetti stabiliti espressamente dalla Costituzione, il sistema del winner–take–all […] può essere modificato dalle assemblee dei singoli Stati” [pagg. 59 – 60].
Attacchi e contrattacchi
Ovviamente, dopo la débâcle delle elezioni del 2000 e del 2016 della democrazia in favore della repubblica – e questo sia detto senza alcun riferimento al valore dei contendenti all’Ufficio Ovale – varie voci si sono levate sia per condannare che per difendere l’antidemocraticità del collegio elettorale. Va da sé che i fan di Donald Trump tendono a difenderlo, quelli di Hillary Clinton a condannarlo, ma a parte queste miserie sono interessanti alcuni interventi.
Nel già citato Why We Are a Republic, Not a Democracy, come si può intuire già dal titolo l’autore insiste sulla differenza sostanziale tra le due forme: “molte persone piagnucolano che usare il Collegio elettorale al posto del voto popolare e della maggioranza non è democratico. Direi che hanno assolutamente ragione. In effetti, decidere chi sarà il presidente non in base alla maggioranza non è democrazia. I liberali (socialdemocratici, n.d.a.) affermano che il Collegio elettorale è parziale. Ecco i fatti. Ma i Padri Fondatori fecero di tutto per assicurarsi che fossimo una repubblica e non una democrazia. In effetti, la parola democrazia non compare nella Dichiarazione di Indipendenza, nella Costituzione o in nessun altro dei nostri documenti fondatori.”
Così Walter E. Williams . Più interessante però, per I nostri fini, l’articolo, sempre disponibile in rete, Sorry, Liberals, But America Is Not A Democracy, And It’s Better That Way, di Clifford Humphrey, che difende l’elezione di Trump riproponendo la distinzione tra democrazia e repubblica, declinandola però, in modo interessante, su due variabili, ovvero tempo e spazio. Riporto qui alcuni passaggi dell’articolo:
“Questo disaccordo si basa in parte sulla fondamentale distinzione tra democrazia e repubblica. I nostri Fondatori non credevano che il popolo avesse il diritto di emanare le leggi che la maggioranza si trovasse a volere, ma, piuttosto, che il popolo avesse il diritto di emanare qualsiasi legge che le persone, in complesso, pensino siano giuste. Questa aspirazione è più nobile, richiede deliberazione, ma anche più tempo. Il nome che i Fondatori hanno più spesso dato a tale forma di governo era la ‘repubblica’ […] In una repubblica, il popolo è sovrano e la maggioranza ha il diritto democratico di parlare per tutti. Ma i nostri Fondatori hanno saggiamente limitato l’uso di questo diritto democratico tramite le istituzioni repubblicane, proprio per proteggere il popolo dalla ‘tirannia delle proprie passioni’. Proprio a causa di questi limiti, le persone sono in grado di esprimere la loro sovranità nel più alto grado possibile di effettività e ragionevolezza. Quindi la nostra repubblica è democratica in quanto controllata dall’opinione pubblica, ma la nostra Costituzione richiede pazienza e perseveranza affinché il popolo esprima tale opinione attraverso le elezioni. Filtrando il giudizio delle persone attraverso le elezioni nel tempo, i Fondatori hanno istituito una repubblica che avrebbe permesso alle migliori deliberazioni della gente su ciò che è giusto – non i loro impulsi immediati originati da un desiderio del momento – a guidare il governo. Un tale processo deliberativo è meglio descritto come repubblicano, non ‘antidemocratico'”.
Insomma, secondo il nostro, la repubblica è una versione rallentata della democrazia: anche se un cittadino può esprimere il suo parere, deve poi lavorare duro per poter convincere della bontà di tale parere non soltanto coloro che gli sono più vicini ma anche quelli a lui più distanti, perché attraverso questo processo (Humphrey non lo dice esplicitamente ma probabilmente è quello che pensa davvero) si ha una sorta di selezione naturale delle opinioni, atta a far trionfare quelle più razionali. A prescindere dal fatto che qui si cade nel solito panegirico tutto liberale dell’intelletto, non si capisce perché il voto degli abitanti di una zona rurale dovrebbe essere a priori più razionale e quindi conservatore degli abitanti di una città: perché, parliamoci chiaro, alla fine il problema è proprio questo. Eppure, i risultati paiono confermare questa previsione.
In effetti, in un’ideale risposta a Walter E. Williams e a Clifford Humphreys – anch’egli, in un passaggio non citato, difende il collegio elettorale – Scott Sumner nell’articolo Against the Electoral College (people, not cows) dice espressamente:
“Alcune persone sottolineano l’importanza della terra, non delle persone. Sostengono che 500.000 persone nel Wyoming dovrebbero avere più influenza politica di 500.000 persone nel Bronx, perché occupano più terra. Con il principio dell’una testa – un voto, stati come New York avrebbero più influenza sul Wyoming. Dal mio punto di vista questa è una caratteristica del principio una testa – un voto, non un suo difetto. Ogni elettore dovrebbe avere uguale influenza, non ogni acro di terra. Dopotutto, quasi il 45% degli Stati Uniti continentali viene utilizzato per il pascolo di bestiame, per i terreni agricoli che producono mangime per vacche americane o per la terra che produce cibo per il bestiame straniero. Dovremmo dare più peso alle opinioni politiche delle mucche?”
Si potrebbe andare avanti a citazioni di questo tipo per pagine e pagine, ma in fondo non ne vale neppure la pena. Il nostro problema, infatti, non è difendere o attaccare la Costituzione Americana in sé ma evidenziare come la volontà (propria di qualsiasi élite, non solo di quella che ha prodotto il documento testé esaminato) di portare l’apparato legislativo nella direzione della repubblica piuttosto che della democrazia, ha le sue radici nella necessità di difendere la minoranza dei saggi e dei lungimiranti (the haves) – ovviamente a loro dire, e si sa quanto valgono le autocertificazioni – dalla (vasta) maggioranza dei the have nots e quindi creare cornici legislative atte a rallentare, a imbrigliare o meglio ancora a fermare del tutto la volontà della maggioranza stessa, costretta a giocare a un gioco di cui non ha scelto le regole. Quindi, più queste cornici sono rigide, meglio è, dal loro punto di vista.
C’è da dire però che, se tutto il ragionamento precedente si basa sulle parole di Noam Chomsky, ci sono delle fonti che accusano il sistema americano non tanto partendo della caratteristiche antidemocratiche intrinseche alla Costituzione, ma da altre angolazioni. E, sorprendemente per certi versi, sono molto più interessanti. Interessanti e drammatiche.
Visti da sinistra
Prenderò soltanto un paio di esempi, ma mi sembrano sufficienti per inquadrare il problema. Carlo Formenti, nell’articolo Il business elettorale e la democrazia oligarchica preferisce porre l’accento sulla natura crematistica della politica targata U.S.A.
I costi iperbolici delle campagne elettorali americane, da tempo oggetto di studio dei politologi, hanno contribuito, assieme alle analisi dei processi di mediatizzazione e personalizzazione della politica, al successo del concetto di postdemocrazia. Non a caso, gli attivisti di Occupy Wall Street hanno richiamato l’attenzione su un dato che dimostra come la democrazia Usa si sia di fatto trasformata in una oligarchia fondata sul censo: più della metà degli eletti al Senato e alla Camera dei Rappresentanti appartengono alla casta dei super ricchi. Fin qui nulla di nuovo.
A colpire è, invece, il tono di assoluta normalità con cui i media americani parlano del fenomeno, dando per scontato che la campagna per ottenere la nomination come candidati alle elezioni presidenziali del 2016, tanto nel campo democratico quanto in quello repubblicano, si presenti in primo luogo come una competizione fra “modelli di business”, vale a dire una competizione che mette a confronto la “produttività” di macchine elettorali che adottano differenti strutture organizzative, sistemi di finanziamento e stili di marketing e comunicazione pubblicitaria, esattamente come se fossero imprese concorrenti.
E una deriva in tal senso anche in Europa viene vista come pienamente possibile, grazie, ovviamente, alle istituzioni dell’Europa Unita:
“Nelle odierne nazioni europee esistono ancora vestigia di una democrazia rappresentativa che sembrerebbero scongiurare i rischi di avvento di una oligarchia di censo, in compenso i burocrati/oligarchi di Bruxelles hanno svuotato quelle vestigia di ogni potere e ci governano con la stessa logica dell”oligarchia di censo americana. Ma soprattutto sia là che qui, a preoccupare e inquietare il potere politico, economico e mediatico è la possibilità che i nuovi equilibri postdemocratici possano essere turbati da irruzioni ‘populiste'”.
Mi sentirei di condividere anche le virgole, non fosse che per la frase “gli attivisti di Occupy Wall Street hanno richiamato l’attenzione su un dato che dimostra come la democrazia Usa si sia di fatto trasformata in una oligarchia fondata sul censo”. Non nego che tale involuzione sia in atto, ma mi pare che fosse stata ampiamente prevista, e incoraggiata, dai costituenti medesimi.
Lo scollamento però c’è, se in un altro articolo (2) si può leggere:
“Il patto sociale che regge il ‘modello anglosassone’ è infatti un ‘patto tra proprietari’ (di industrie, terre, servizi e capitali finanziari) da cui sono programmaticamente esclusi tutti i lavoratori dipendenti, senza tante distinzioni. Una visione strettamente ‘di classe’, esclusiva, razzista senza vergogna (il potere è Wasp — white, anglo-saxon, protestant — per definizione), per cui i diritti, la democrazia, la possibilità di decidere sugli indirizzi del paese sono di competenza esclusiva di un ‘giro’ ristretto di possidenti. Una massoneria palese, che vive e si concepisce come un’aristocrazia, pur essendo “nata nelle strade”, tra sangue, sudore e polvere da sparo. In cui si entra per nascita o per superamento della soglia fatidica dei tot milioni di dollari, ma sempre lasciando fuori del portone ogni mentalità o pratica ‘democratica'”. […] Ne consegue che lo Stato — la cultura che innerva ogni singolo membro dell’apparato — ha interiorizzato fino all’automatismo la scissione tra “diritti costituzionali” scritti nelle carte e “portatori pieni” di quei diritti. Quasi una certificazione dell’esistenza di fatto di un doppio regime di cittadinanza: uno pieno, per i proprietari e l’intera struttura esecutiva, l’altro parziale e revocabile per la popolazione ‘normale'”.
La seconda battuta esemplare che abbiamo voluto qui riportare è perciò quella di un oscuro sceriffo di Everett, tale Don MacRae, che nel 1916 così si rivolgeva a un attivista Iww pesto e sanguinante, portato nei suoi uffici dopo uno sciopero e successivi scontri: «Ma quale Costituzione, qui siamo a Everett, figliolo». Non c’è dubbio che le cose stiano esattamente come vengono descritte, mi domando però perché teorizzare una scissione quando la Costituzione stessa, lo ripeto ancora, instaura al suo interno un regime basato sul criterio dei due pesi e delle due misure. Ma del resto, nello stesso testo si legge poi:
“Ma chi decide il senso? Chi decide chi e quando diventa ‘nemico’? Su questo non c’è incertezza. Lo stesso schema strutturale del potere — comandano ‘i proprietari’ — esclude dalla determinazione politica qualunque interesse collettivo non coincidente con quello del nucleo centrale. Lo Stato ha insomma un padrone certo. E non è mai “terzo”, specie nel conflitto sociale. È stato infatti sagomato su un programma originario che può essere così riassunto: ‘combattere i banditi con metodi da banditi’. Per tutto l’800 questo programma ha guidato la costruzione della modernità statunitense — centrata sul conflitto tra grande industria e allevatori da un lato e agricoltori e latifondisti dall’altro, esplosa e risolta infine con la guerra di secessione — al cui interno le rivendicazioni e i conflitti sociali erano considerati poco più che un ‘fastidioso disturbo’, da eliminare con ‘cure efficaci’ a prescindere dalla loro ortodossia costituzionale”.
C’è da dire però che se il conflitto tra grande industria/allevatori e agricoltori/latifondisti era in effetti interno al dettato costituzionale, e infatti c’è voluta una guerra per risolverlo, le rivendicazioni e i conflitti sociali ne erano esterni. E comunque, puntualmente, e qui chiudo con le citazioni, si può leggere:
“Quel che colpisce di più in questa storia del movimento operaio stelle-e-strisce, da qualsiasi angolatura la si guardi, è insomma un’asimmetria sistematica. Le forme di lotta cambiano continuamente, sono spesso ‘creative’ in tutti i sensi (originali, fantasiose, innovative, pacificissime o violentissime); ad esse risponde invariabilmente lo stesso dispositivo centralizzato (criminalizzazione, attacco militare, processi). La resistenza è sempre ‘locale’ o categoriale, non riesce quasi mai a diventare ‘generale’, ovvero diffusa su tutto il territorio nazionale; la controparte, invece, può sempre contare sullo Stato in ogni sua articolazione e sul consenso della nazione”.
Le intenzioni di Madison, compendiate da Clifford Humphreys, trovano qui, a mio parere, la conferma della loro piena realizzazione.
Epilogo
Poche parole per concludere. Come ho già detto, democrazia rappresentativa e democrazia diretta, o (nel mio lessico ma anche in quello di Clifford Humphreys e altri) repubblica e democrazia, non sono due alternative secche ma due poli opposti di un continuum. Non intendo difendere il principio una testa – un voto tout court ma soltanto ricordare che più le élite riescono liberamente a creare cornici surrettiziamente formali dove far agire le volontà politiche dei vari stakeholder di un dato sistema, più tali cornici finiranno per condizionare sostanzialmente le volontà degli stakeholder di interessi confliggenti o contrastanti con l’élite medesima.
Stando così le cose, ovvero, trovandosi di fronte un’architettura complessa costruita appositamente per assorbire e respingere qualsiasi spinta dal basso, è chiaro che qualsiasi attività di conflitto deve essere portata direttamente contro l’architettura stessa, non già contro le contraddizioni più palesi, mantenendosi però all’interno del perimetro segnato da tale architettura. Non è una possibilità remota: dopotutto, abbiamo visto che contro gli aspetti più antidemocratici della Costituzione americana qualcuno si è mosso, portando una folta selva di emendamenti. È perfettamente in linea con le nostre possibilità muovere contro la mancanza di avallo democratico dei diktat europei mediante un ritorno ai dettati costituzionali più avanzati, come ovviamente la Costituzione italiana del 1948.
Note
1. Da Impero e i suoi tranelli. Toni Negri e la sconcertante traiettoria dell’operaismo italiano, di Claudio Albertani, autore che qui cita a sua volta, traducendolo dallo spagnolo, il volume di Atilio A. Boron Imperio e Imperialismo. Una Lectura Critica de Michael Hardt y Antonio Negri, di cui però ho trovato solo la versione in inglese: Noam Chomsky has argued repeatedly that this document, […] was conceived ‘to keep the rabble in line ‘ and to prevent them from, even by accident or by mistake, having the idea (let alone the practical possibility) that they might want to rule the destiny of the United States or even govern themselves.
2. Si tratta, in realtà, dell’introduzione redazionale al libro di Filippo Manganaro Senza patto né legge. Antagonismo operaio negli Stati Uniti, edizioni Odradek.
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