Il salto
Era un muro alto. L'unico superstite della casa. Gli altri tre lati, grazie ai bombardamenti alleati durante le ultime fasi della Seconda Guerra Mondiale, erano stati rasi al suolo. A poche centinaia di metri da quel muro c'era un importante nodo ferroviario, da cui la volontà degli alleati di bombardare. Se a quell'edificio andò male alle persone che stavano nel rifugio antiaereo durante uno di quei bombardamenti andò peggio: una bomba entrò nel rifugio sotterraneo e fu una strage.
Poi la guerra finì e le macerie vennero portate via. Non so a chi spettasse la decisione di demolire completamente quell'edificio bombardato all'interno del popoloso quartiere dove sono nato e cresciuto. Fatto sta che fu deciso di portare via ciò che restava della casa e di lasciare quell'unico solitario muro al posto in cui si trovava. Forse un memento, chissà…
Certamente era un muro solido, di veri mattoni, e abbastanza spesso per starsene in piedi da solo anche senza l'aiuto degli altri muri. Impensabile al giorno d'oggi. Edilizia fascista. Si può dire tutto il male che si vuole dell'architettura fascista, di linee e sagome tagliate con l'accetta, di una certa pretenziosità postimperiale, ma bisogna riconoscere che il metodo ed i materiali usati non erano certamente scadenti.
Insomma eravamo bambini ed avevamo un bel muro tutto per noi. Due piani belli alti, perchè le altezze dei solai non erano quelle di adesso. Free climbing, si direbbe adesso che abbiamo la bocca sempre impastata di termini anglofoni. All'epoca ci si arrampicava e tanto bastava. Fino alla finestra del primo piano, giusto fare pratica. Quindi si saltava. Hop! E giù a terra. Poi si risaliva.
Dopo che la pratica del primo piano aveva fatto il suo effetto si passava allo stadio successivo del gioco: le finestre del secondo piano. Il salto lì aveva delle regole precise per evitare che succedessero disgrazie. Innanzitutto occorreva atterrare con le punte dei piedi e mai con i calcagni, per attutire l'impatto. Poi le ginocchia andavano leggermente piegate e le gambe dovevano essere flessibili, non rigide, per farle funzionare come delle molle. Alla fine dell'atterraggio ci si ritrova rannicchiati come una rana sul punto di spiccare un balzo. Infine la testa: evitare di sporgere la testa mentre ci si lancia, il suo peso potrebbe sbilanciarti e farti cadere malamente, con conseguenze anche serie. In fin dei conti erano parecchi metri di distanza dal suolo, e qualche precauzione andava presa.
Bene, quindi. Capito tutto. Mi arrampico, ed arrivo a destinazione. Caspita, siamo veramente alti, qui. Troppo alto per i miei gusti. Ce la farò? Intanto gli altri si buttano, e atterrano senza conseguenze sul marciapiede sottostante. Li guardo. Loro ce la fanno, ma io ce la farò? E perchè non dovrei farcela? Vabbè, se ce la fanno loro, ce la posso fare anch'io. Mi ripeto ciò che devo fare: piedi, gambe, testa e mi lancio.
Ricordo ancora chiaramente l'effetto di quegli atterraggi. E' un po' come se arrivasse una bastonata all'osso sacro perpendicolarmente da sotto. La bastonata colpisce anche le palle, e si propaga lungo la spina dorsale. Inutili sono stati i miei tentativi successivi di ammortizzare ulteriormente l'impatto. Sempre quello era il risultato: una bastonata lì.
Ci si potrebbe domandare: ma perchè lo facevate? La risposta che so dare è una sola: riti di iniziazione. Oggi si diventa adulti guardando la tivù. In quegli anni si diventava adulti confrontandosi con la vita vera ed i suoi pericoli. Sono quasi convinto che l'incidente in scooter di ieri mi ha visto uscire illeso grazie anche a quelle prove così pericolose. Si tratta di lezioni che restano dentro per sempre, e che ti fanno reagire in un certo modo quando è necessario. C'è chi spende soldi per imparare in palestra da un maestro di arti marziali il perfetto coordinamento di mente e corpo. Noi quei soldi non ce li avevamo, né conoscevamo maestri di tecniche orientali. Quindi ci arrangiavamo con quello che la guerra ci aveva regalato. Il muro, appunto. Gratis e senza maestro. Bastava arrangiarsi.
Sono così passati circa quarant'anni da quei tempi. Molte cose sono cambiate. Quel muro non c'è più, demolito causa legge 626, presumo. Quel quartiere non ha più le frotte di bambini dei miei tempi, cause varie. Il quartiere stesso è stato cannibalizzato da un branco di architetti che l'hanno sventrato e snaturato. Il campetto dove giocavamo a pallone è sparito, gli alberi che lo delimitavano sono stati tagliati, e la lapide che commemorava i morti del rifugio chissà dov'è. La televisione è arrivata in ogni casa, ed i bambini non si sbucciano più le ginocchia correndo per strada, ma immaginano di diventare adulti guardando i cartoni animati. O giocando col computer, dove i salti sono virtuali. Bici BMX, discese, marciapiedi, salti, cadute, tutto virtuale. Se ti ammazzi perchè hai saltato male si accendono dei pixel rossi sul monitor. Perdi una vita, ma te ne restano sempre altre. Noi ne avevamo solo una, invece. Ed il rosso era sangue nostro, non erano i pixel di un monitor.
Dicevo che quarant'anni dopo le esigenze di diventare adulti sono immutate, credo, mentre le modalità sono cambiate radicalmente. I bambini oggi saltano solo virtualmente. Basta un click del mouse (due termini americani in cinque parole penso renda l'idea dell'origine della storia). Guardano filmati o animazioni in cui l'eroe di turno va le sue magnifiche evoluzioni ed atterra felicemente. Si fanno l'idea che il salto sia cosa semplice, e non sia una questione di vita o di morte.
Sicuramente mio figlio pensava così, quando ha deciso di lanciarsi in bici a tutta velocità per fare il salto, così come aveva visto su internet ed in tivù. A tutta velocità ha affrontato la rampa, e a tutta velocità è caduto a terra, fratturandosi radio e ulna. Un conoscente me l'ha riportato in braccio con l'osso che usciva dall'avambraccio. Non c'era, disgraziatamente, un reload, un replay, un restart o una diavoleria simile come nei giochi del computer. Nessun mouse da cliccare. Il rosso non erano pixel. Né c'era un amico che lo avesse potuto consigliare, nessun coetaneo da osservare, nessun bambino da imitare. Non c'era nessuno. Ha pensato il salto e l'ha fatto da solo, guidato dall'esperienza del gioco al computer, l'unica che avesse a disposizione.
Si è consumata così la tragedia del virtuale contro il reale, con il primo che ha preso il sopravvento sul secondo nella prima parte, ed il secondo che preteso giusta vendetta nella seconda parte. Come in tutte le tragedie che si rispettino è servita una vittima. Forse oggi un po' meno ignara di ieri.
Almeno questo è ciò che mi auguro mio figlio abbia imparato dalla sua personale lezione di salto.
Ho sempre pensato che restitruire la strada ai bambini sarebbe una validissima causa per una guerra civile pluriennale. Quando lo affermo la gente rimane stupita. Allora spiego il perché, tra l'altro utilizzando argomenti che emergono dal tuo articolo. Ma gli ascoltatori rimangono stupiti. Ho deciso da tempo di stuprimi io e di rispondere, con tono scherzoso che non cerca lo scontro, e continuando a bere un bicchiere di vino con il mio commensale: "Ormai ho capito che il problema principale del mondo è che fanno educare i figli ai genitori!".