1997: Alberto Alesina e i 4 grandi bluff dell’euro
Riproponiamo, senza troppi commenti, un celebre articolo del Corriere della Sera a firma dell’economista Alberto Alesina il quale, alla vigilia del varo dell’euro, ne spiegava le criticità anticipandone le conseguenze negative e denunciava le falle del dibattito che aveva accompagnato il processo di unificazione.
I QUATTRO GRANDI BLUFF DELL’UNIONE MONETARIA
Tutti gli opinion polls rivelano che gli italiani sono i più entusiasti sostenitori dell’Unione monetaria europea. Dopo la crisi del settembre 1992 quando la lira e la sterlina uscirono dal Sistema Monetario Europeo, le prospettive della moneta unica erano così incerte che nessuno, al di fuori dei ben retribuiti eurocrati di Bruxelles, se ne interessò più molto.
Da qualche mese a questa parte, invece, la discussione ha preso una svolta ben diversa: dato che la moneta unica si farà senz’altro, si dice, il problema è di non restar fuori, e quindi si deve raggiungere il 3 per cento del rapporto deficit/Pil, e non il 3,5%. (Come se questa differenza avesse alcun significato economico o persino contabile).
In questa orgia di numeri su migliaia di miliardi volanti da un capitolo all’altro del bilancio e da una Finanziaria all’altra e discussioni sulla terza cifra decimale del rapporto deficit/Pil, si è persa l’occasione di una pacata discussione sui costi dell’Unione monetaria, al di là di una vaga retorica europeista.
Secondo i sostenitori dell’Unione monetaria, questi sono i suoi principali vantaggi:
1) L’Unione monetaria è necessaria per mantenere un mercato comune europeo.
Non è vero. Ciò che crea un mercato comune è l’assenza di barriere doganali esplicite o nascoste, la libera circolazione di beni, servizi e capitali, l’assenza di regolamentazioni pubbliche intrusive (comprese quelle originanti a Bruxelles) e la flessibilità del mercato del lavoro. In un sistema di libero commercio internazionale il “mercato” di ogni Paese è il resto del mondo. Nel 1946 c’erano 74 Paesi nel mondo, oggi ce ne sono 192: più della metà di questi ha una popolazione inferiore ai 6 milioni di abitanti. Nello stesso mezzo secolo il volume del commercio internazionale è esploso, ed oggi, con 192 Paesi indipendenti si parla di economia globale come mai prima d’ora. Molti dei Paesi che sono cresciuti più in fretta negli ultimi tre decenni sono molto piccoli, come ad esempio Singapore.
2) I cambi flessibili creano rischi per gli operatori ed ostacolano il commercio internazionale.
Non esiste alcuna evidenza che la flessibilità dei tassi di cambio riduca la crescita del commercio internazionale. Dal 1953 al 1973 nel periodo dei cambi fissi di Bretton Woods il volume del commercio internazionale è cresciuto a tassi pari a circa la metà degli stessi tassi di crescita del ventennio seguente, cioè in un periodo di cambi molto più flessibili. Il rischio di cambio si può facilmente ridurre o eliminare con operazioni di hedging. Le cifre su quanto un turista perde cambiando monete europee ai botteghini degli aeroporti, costi spesso menzionati dagli europeisti più entusiasti, non hanno alcun significato macroeconomico. In ogni caso, la mancanza di flessibilità dei tassi di cambio ha anche dei costi: elimina un canale di stabilizzazione a shock razionali. Il Financial Times continua a ripetere che il Regno Unito fa bene a rimanere fuori dall’Unione monetaria (per qualche anno almeno) perché quel Paese ha un ciclo sfasato rispetto al resto dell’Europa. Ma cicli sfasati rimarranno anche dopo l’Unione monetaria e non solo per il Regno Unito. Se un Paese nell’Unione monetaria subisce uno choc di domanda negativo, qualcosa deve essere mobile e flessibile: o i salari monetari, o la forza lavoro o i tassi di cambio. Dato che i salari monetari sono rigidi al ribasso, la mobilità del lavoro in Europa è bassissima, l’Unione monetaria che fissa i tassi di cambio rende l’aggiustamento agli choc molto difficile e renderà la disoccupazione ancora più permanente. Certo una soluzione sarebbe rendere il mercato del lavoro meno rigido, ma la sinistra europea (compresa quella italiana oggi così favorevole all’Unione monetaria) si è sempre opposta a qualunque politica di flessibilità del mercato del lavoro. Negli Stati Uniti, una Unione monetaria di dimensioni simili all’Europa, choc regionali asimmetrici sono corretti da una forte mobilità geografica della forza lavoro e dalla flessibilità dei salari reali e nominali. In più, il sistema fiscale provvede notevoli sistemi compensativi: per ogni dollaro di riduzione del reddito disponibile in uno Stato americano, tra i 30 e 40 centesimi sono recuperati da compensazioni fiscali. Sarebbero disposti, diciamo, i cittadini danesi a compensare in questa misura, uno choc che colpisce, per esempio, l’Italia del Sud? Molto probabilmente no, quindi neanche il sistema fiscale europeo correggerebbe questi choc asimmetrici.
3) L’Unione monetaria ha facilitato la riduzione dell’inflazione e dei deficit pubblici.
Negli anni Novanta l’inflazione è scesa in tutto il mondo, con o senza Unione monetaria. Non è affatto chiaro che l’inflazione sia scesa più rapidamente nei Paesi aderenti al Sistema monetario europeo che negli altri Paesi Ocse. Dopo i grandi deficit della fine anni Settanta e primi Ottanta, numerosi aggiustamenti fiscali sono avvenuti dentro e fuori l’Unione monetaria. È vero che il deficit italiano sarebbe più alto senza la spada di Damocle della regola del 3% . E allora? Sostenere che uno dei principali benefici della più importante riforma del sistema monetario internazionale dopo Bretton Woods è che l’Italia avrà un deficit del 3% del Pil invece che del 5% del Pil nel 1998 fa sorridere, soprattutto al di là delle Alpi. Un nuovo sistema di cambio che dovrebbe durare per decenni va giudicato per i suoi meriti intrinseci e globali.
4) L’Unione monetaria è solo un passo verso la vera meta che è una forma di unione politica.
Questo è forse l’argomento più convincente, se si pensa che l’Unione politica riduca il pericolo di conflitti intraeuropei, che, storicamente, sono stati catastrofici. La realtà però è l’opposto. Con ogni probabilità i contrasti tra Paesi europei aumenteranno al crescere della tendenza a coordinare politiche monetarie, fiscali, di welfare eccetera. Costringere Paesi con culture e tradizioni diverse ad uniformare politiche di vario genere, soprattutto quando la necessità economica del coordinamento è alquanto dubbia, è un’operazione inutile e potenzialmente molto pericolosa. Infatti l’animosità tra Paesi europei non è stata mai così alta in tempi recenti come negli ultimi mesi, all’avvicinarsi dell’Unione monetaria. Lo stesso conflitto franco – tedesco sulla nomina del primo governatore della Banca Centrale Europea è un sintomo chiaro. Delle due l’una: o questo conflitto rivela forti differenze di filosofia sulla politica monetaria, oppure rivela forti tendenze nazionalistiche, soprattutto da parte della Francia che non ha ancora capito di non essere più una grande potenza. In entrambi i casi, questo conflitto non rivela niente di buono sulla futura politica monetaria comune. Infine, per ciò che concerne l’Italia, l’entusiasmo per partecipare all’Unione è descritto, anche in ambienti governativi, come un modo per difenderci da noi stessi, cioè un modo per trasferire potere politico a Bruxelles e Francoforte e toglierlo a Roma. Probabilmente questo è un ottimo motivo per aderire all’Unione, ma, diciamocelo: che tristezza. (Eccetto per gli eurocrati).
Alberto Alesina
(Corriere della Sera – 15 dicembre 1997)
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