Governo Monti: l’ultimo atto della lenta agonia della politica sovrana. La tecnocrazia come esito inevitabile dell’Unione Europea.
di Lorenzo Dorato Comunismo e Comunità
Che lo Stato capitalistico, fintanto che è capitalistico, sia nelle mani delle classi dominanti capitalistiche, è cosa ovvia e scontata. Che tale dominio sia assoluto, privo di mediazioni, spogliato di una dialettica politica ed etica conflittuale interna ad uno spazio più o meno sovrano, è cosa meno scontata. Da circa vent’anni anche questo secondo passaggio sembra invece qualcosa di ovvio. I residui di dialettica politica e di decisione sovrana entro una cornice giuridica e sociale riconoscibile sono infatti saltati completamente suicidandosi nel vuoto (o meglio nel pieno apparentemente vuoto e invisibile) della sola ed esclusiva sovranità riconosciuta dei mercati. Il governo Monti che succede alla rovinosa caduta di Berlusconi è l’ennesima prova lampante di tutto questo.
Era il 1992, quando la classe politica italiana fu spazzata via da una serie di inchieste giudiziarie che sancirono la fine della prima repubblica e l’inizio della seconda. Era il 1992 quando l’Italia, con la scusa dell’instabilità politica e della speculazione internazionale contro la lira, fu presa in mano dal governo tecnico Amato per dare il via a quel mostruoso e lungo ciclo di controriforme antisociali e antinazionali che avrebbero sconvolto l’assetto produttivo, lavorativo, sociale e politico del paese. Era il 1992 quando l’Italia aderì al trattato di Maastricht. Pochi anni prima erano stati sanciti i cardini fondamentali dell’Europa neo-liberale. La liberalizzazione integrale dei movimenti di merci e di capitale portata a termine nel 1988 fu il primo vero passo che sancì la fine della sovranità della politica sui processi economici. Quando un paese decide di lasciare integralmente liberi i capitali e le merci di muoversi entro spazi che non sono spazi territoriali dotati di potere politico effettivo e rappresentativo (lo spazio “mondo” o lo spazio Europa), smette semplicemente di essere un’entità politica effettiva, poiché abdica totalmente alla propria libertà collettiva di incidere su processi su cui non ha alcun controllo (ancorché una libertà interna al modo di produzione capitalistico).
Il trattato di Maastricht sancito nel 1992, che diede origine all’Unione europea fu il secondo tassello della fine di fatto degli Stati nazionali periferici d’Europa (si badi bene: soltanto degli Stati nazionali periferici, in termini di rapporti di forza) in direzione di una governance, ovvero di una gestione tecnica e neutrale, in luogo di un governo politico e discrezionale dei processi economici. I limiti imposti al debito pubblico e al deficit di bilancio furono infatti un gravissimo restringimento della libertà politica degli Stati e dei loro spazi di manovra (limite invece sforato ampiamente da Francia e Germania negli anni 2000, senza conseguenze di sorta, riprova della struttura programmaticamente gerarchica dell’Unione europea)
Sempre al principio degli anni ‘90 assunse una crescente importanza la normativa comunitaria sulla concorrenza con l’imposizione di politiche di liberalizzazione di svariati settori del sistema economico (che indirettamente hanno significato anche politiche di privatizzazione di pezzi interi di economia pubblica). Anche in questo caso si è trattato di un’esplicita rinuncia alla libertà politica di guida dell’economia. Ed anche in questo caso un principio economico teoricamente discrezionale e soggetto fino ad allora alla sovranità politica (quale quello della concorrenza) è stato eletto a principio primo inviolabile e indipendente (alla stregua di una magistratura dei mercati).
Infine l’euro, una moneta senza Stato ad uso e consumo dei paesi in avanzo con l’estero (grazie a tassi di inflazione minori), stante l’impossibilità per i paesi in disavanzo di fare uso della svalutazione o della semplice flessibilità del tasso di cambio per riequilibrare la propria bilancia dei pagamenti.
Fine della politica fiscale ed economica, fine della politica industriale e in ultimo fine della politica monetaria. Questa la triade micidiale che ha decretato la morte dello Stato come organo di mediazione politica, di guida dello sviluppo economico e di elemento materiale e simbolico di dominio dei processo anonimi (in realtà ben forniti di nome e cognome) dei cosiddetti mercati finanziari. Ma lo Stato non è certo morto in quanto Stato in sé, lasciando spazio a presunti mercati liberi e sovrani autoregolantisi globali. Nulla di tutto ciò. Lo Stato si è semplicemente riconvertito in esecutore di direttive sulla base di una gerarchia di interessi capitalistici internazionali e intraeuropei che ha sancito chi e come doveva e poteva dettare legge. E così mentre Francia e Germania attuavano felicemente politiche industriali e fiscali sovrane in barba ai deliri europei sulla concorrenza, l’Italia, la Spagna, la Grecia, l’Irlanda e il Portogallo dovevano eseguire gli ordini dell’antitrust smantellando pezzi di industria nazionale di altissimo valore per favorire l’ingresso del capitale straniero o venivano bacchettati multati per aver sforato i fatidici parametri di Maastricht. Una guerra tra sub-dominanti forti (Germania in primis e in parte Francia) e sub-dominanti deboli (i cosiddetti PIIGS); e dietro le quinte la potenza pre-dominante statunitense a controllare la regia ed a dimostrare che, se si possiede l’arsenale militare più forte del mondo, un debito pubblico di spaventosa entità e sbilanciatissimo verso l’estero non provoca alcuna speculazione di sorta.
La cosiddetta crisi del debito greco, italiano e poi spagnolo e forse persino francese, altro non è che l’atto finale di questa guerra di dominio mascherata da democrazia sovranazionale e dal ritornello irritante della futura Europa politica. Una resa dei conti intercapitalistica che avviene, non a caso, in una fase di gravissima crisi del blocco economico europeo e nord-americano (con il capitalismo pre-dominante che opta per la carta della competizione per rapina e spoliazione di altri capitali, oltre che, ovviamente, tramite il prelievo diretto della ricchezza prodotta dal lavoro).
Non esiste alcun problema di debito pubblico in sé. Non esiste alcun problema di credibilità dei paesi circa i loro fondamentali. Non esiste, neanche, alcun mercato di investitori atomistici anonimi che basano le loro scelte sugli umori collettivi. Esiste, invece, il ricatto politico reso possibile dal doppio meccanismo della massima esposizione verso l’estero di molti paesi europei (tra cui l’Italia) e dell’autocastrazione politica stante nell’impossibilità di adottare (entro il presente contesto istituzionale) misure di difesa contro gli attacchi speculativi.
Il debito si configura così come una semplice arma di ricatto che con i fondamentali dell’economia non c’entra nulla. Un’arma usata a piacimento ed a fasi alterne per ottenere dai paesi tenuti per il collo ciò che altri paesi interpreti di interessi capitalistici ben precisi vogliono ed ordinano: misure di austerità, svendita del patrimonio pubblico, liberalizzazioni, aumento dell’età pensionabile, riforma del mercato del lavoro in senso liberale etc etc…ovvero, in ultima istanza la riduzione del paese ad uno stato di semi-colonia e di sotto-sviluppo, deindustrializzato e privato delle proprie imprese di punta, alla mercé del capitale straniero, fornitore di manodopera a basso costo e ricattabile e di domanda per le esportazioni.
Il blocco di potere berlusconiano e la coalizione Pdl-Lega per varie ragioni legate alla rappresentanza elettorale, alla difesa di interessi non sempre coincidenti con quelli del capitalismo europeo, aveva da tempo dato prova di inaffidabilità in politica estera e di lentezza in politica interna. Un governo ovviamente impopolare (come tutti quelli succedutisi in particolare dopo il 1992) servitore fedele del capitalismo più retrivo ed esecutore di riforme e leggi vergognose; ma pur sempre un governo politico, con la sua dialettica e complessità interna, costretto a rendere conto ai propri elettori delle scelte adottate e vincolato ad un sistema di rappresentanza (per quanto fluido nella sostanza reale). Di fronte agli attacchi speculativi contro l’Italia, esattamente come avvenuto in Grecia, il governo politico non ha voluto o potuto portare fino in fondo il programma di macelleria sociale proposto dai tecnocrati. Ha resistito, cedendo quasi su tutto, ma non su tutto, per qualche mese in un estenuante tira e molla osceno in cui stampa e giornali continuavano a gridare all’aumento del differenziale tra i tassi sui Buoni del Tesoro italiani e quelli tedeschi (il cosiddetto spread) come ad una forza imperscrutabile ed indiscutibile cui occorreva rispondere con mosse accondiscendenti. Ed infine ha ceduto il passo alla forma più diretta di governo dei poteri forti (tramite il solito giochino dei parlamentari venduti), mostrando come di questi tempi ogni tentativo di filtro politico (anche minimo e di qualunque colore e forma) tra tali interessi e la loro traduzione in norme esecutive, sia mal tollerato, fino ad essere persino esautorato con il tradimento, la forza e l’applicazione diretta della dittatura tecnocratica. Ma i governi tecnici non esistono e sono soltanto la forma ideologica “neutralistica” per indicare proprio i governi che saranno invece tra i più politici e decisionali (capaci di sconvolgere l’assetto di un paese) in senso ovviamente opposto a quelli che sono gli interessi popolari.
La speculazione sui debiti sovrani è la prova che siamo giunti ad un punto di non ritorno in cui le alternative sono soltanto due (e le vie di mezze sono destinate ad essere temporanee o fagocitate dalla loro irrealizzabilità): o accettare che il proprio paese possa essere annichilito da chi lo desidera e da chi ha interesse a farlo, perdendo ogni possibilità di reazione politica e abbracciando la fine della sovranità politica; oppure contestare alla radice i meccanismi che rendono possibile tutto questo, reclamando una fuoriuscita dalla prigione dell’Unione Europea, verosimilmente con sganciamenti dei diversi Stati, soluzione che ritengo infinitamente più realistica, oppure, meno verosimilmente con un cambiamento complessivo dell’Europa in quanto totalità.
Credere di poter salvare capra e cavoli (la sete dei mercati e la civiltà sociale minima in cui viviamo) è puramente illusorio e conduce allo stallo (lo stesso stallo che è costato la caduta al governo Berlusconi) o alla menzogna (la menzogna di Monti di voler imporre sacrifici con equità sociale, cosa assai curiosa dal momento che ciò che i mercati chiedono è esattamente l’ineguaglianza, il caos, la legge del più forte e il soccombere del più debole, altro che equità sociale!!).
Lo scenario politico interno merita davvero pochi commenti. Tutte le forze parlamentari, eccetto la Lega, si sono allineate senza pudore con le manovre condotte da Napolitano per favorire l’ascesa del tecnocrate Monti, già commissario europeo alla concorrenza, uomo di Goldman Sachs e membro del gruppo Bildeberg e della Trilaterale (tink tank neo-liberali di primissima linea). Il Pd e il Terzo Polo sono in prima linea per sostenere il carattere di governo senza scadenza che dovrà avere l’esecutivo Monti, esaltato preventivamente per le proprie virtù; l’Idv dopo primi tentennamenti cade nel grottesco invocando persino un governo di soli tecnici senza politici (temendo lo spettro del retropotere berlusconiano); Vendola, come c’era da attendersi, segue la linea e dichiara aperture a quello che chiama sibillinamente “governo di scopo” accettando in toto il terreno per cui la priorità assoluta è la tranquillizzazione dei mercati finanziari e dei partner europei; il Pdl infine, pur entro alcune contraddizioni politiche interne e spaccature anche molto forti, ha anch’esso accettato la linea. Tutte le forze dell’arco parlamentare si schierano così a fianco dell’inevitabile destino cui ci condanna la speculazione.
Se vi è un aspetto positivo nell’uscita di scena di Berlusconi, l’unico forse in questo contesto, è la fine di ogni scusante emotiva per tutti coloro che negli ultimi 17 anni di vita politica italiana si sono rifugiati dietro le sconcezze e gli eccessi del cavaliere per nascondere la loro incapacità o pigrizia di analizzare seriamente il carattere sostanziale delle forze politiche protagoniste della politica nazionale. Adesso il gioco potrebbe finire e tutti quanti saranno chiamati a schierarsi senza equivoci da una parte o dall’altra. Con il governo Monti-BCE e con le esigenze dei mercati finanziari, della UE e del capitalismo più opprimente e rapace; oppure contro questo conglomerato di forze in nome di un recupero della sovranità politica nazionale precondizione materiale per una pratica politica di difesa dei diritti sociali, dei beni pubblici, dei diritti del lavoro: in breve, degli stessi cardini della civiltà sociale che hanno conosciuto i nostri padri. Per difenderli e per rilanciarli rinnovati e potenziati in un orizzonte coerente di superamento del capitalismo.
Anche soltanto per iniziare a pensare in questi termini difensivi e poi trasformativi è imprenscindibile, ora più che mai, una critica radicale dei meccanismi perversi che stanno a fondamento dell’Unione europea. Una critica che diventi proposta politica con l’opportuno studio concreto delle possibili vie d’uscita realistiche: uscita dall’euro e dall’UE e relazione tra le due cose; ripudio del debito selettivamente dopo il recupero della sovranità sui movimenti di capitale e di merci; possibilità intermedie etc, etc..: tutti temi meritevoli di essere studiati con dedizione per uscire dalla gabbia psicologica che per un ventennio ha reso le forze politiche sulla carta anticapitalistiche del tutto succubi del processo di integrazione neo-liberale europea, il processo più capitalistico che la storia occidentale abbia mai conosciuto dal dopoguerra ad oggi.
C’è da attendersi a questo punto un triplice attacco pesantissimo: da un lato l’accelerazione di misure anti-popolari sul lavoro e sulle pensioni (licenziamenti sempre più facili e eliminazione delle pensioni di anzianità); contestualmente l’atto conclusivo di svendita del patrimonio pubblico, da quello immobiliare a quello (ben più importante) imprenditoriale e sociale con in prima testa le tre aziende strategiche parzialmente pubbliche ENI, Finmeccanica ed ENI, ed a seguire le municipalizzate e i servizi sociali. Una storia, quella delle privatizzazioni, iniziata anch’essa nell’ormai lontano 1992 e condotta alacremente dai governi di centro-sinistra (in massima parte) e di centro-destra (in maniera più contenuta e con un deciso rallentamento dei ritmi di svendita); infine vi sarà un’ulteriore spinta verso le liberalizzazioni dei numerosi settori del sistema produttivo e dei servizi ancora protetti e vincolati, con l’obiettivo di permettere l’ingresso del grande capitale straniero in grado di soppiantare e mandare in rovina piccole imprese nazionali e annicchilire e precarizzare larghe fette di lavoro autonomo.
Una dura opposizione (per forza di cose esterna al parlamento, al momento blindato) al neo-nato governo Monti da parte di tutte quelle forze che si riconoscono nella critica del disegno politico scellerato di cui si sono sunteggiati gli aspetti principali, sarebbe il primo passo per iniziare a contarsi e a procedere verso forme di aggregazione politica dotate di una minima forza sociale.
L’occasione per un rimescolamento delle carte e una definizione più netta delle distinzioni sostanziali (oltre i consueti formalismi puramente identitari) è più che mai alla portata di mano. L’obiettivo non può che essere la costruzione di una forza politica capace di sfidare anche elettoralmente al prossimo appuntamento il blocco di potere omogeneo attualmente presente nel parlamento italiano.
Sto ascoltando e leggendo con disgusto tutte le palle che ci stanno raccontando in questi giorni. Ma ora che non c'è piu berlusconi finalmente le cose si rivelano per ciò che in realtà sono! Il dramma è che vogliono passare per matti furiosi quelli che stanno gridando ad alta voce questa verità! Ma che si può fare? I mezzi di comunicazione sono in mano di persone di questo calibro…..Forse la rete…..Io ho paura che la maggior parte degli italiani preferisca rimbambire con Fiorello piuttosto che passare un po piu di tempo a chiedersi perchè qualcosa gli dice che….la sta prendendo in quel posto.
Ora stiamo assistendo ad una vera e propria guerra mondiale. Questa è la terza guerra mondiale! E noi non ce ne stiamo accorgendo perchè non sentiamo le bombe caderci sulla testa o non vediamo morti per strada. In questo modo non ne percepiamo il pericolo, non riusciamo neppure a individuare il nemico, non riusciamo neppure a vederlo. Ma la catastrofe è dietro l'angolo.
A volte quando parlo ho l'impressione di essere giudicata una fanatica, oppure mi sento dire: hai ragione, ma è meglio non pensarci, oppure …e che cosa si può fare?
Cosa facciamo, aspettiamo la catastrofe?
silvia
Intanto, noi fanatici, cominciamo a serrare i ranghi. Un saluto :)
Mi permetto di segnalarvi un paio di articoli per chi legge le lingue. Il primo è fra i più discussi delle ultime settimane nel Regno Unito: un neoliberista ammette gli sfaceli a cui ha condotto la sua dottrina. Il secondo è una buona analisi di come l'élite finanziaria ha forgiato la semantica dominante in funzione dei propri interessi. Vengono alla mente il concetto marxiano di ideologia e quello paretiano di derivati.
http://www.telegraph.co.uk/news/politics/8655106/Im-starting-to-think-that-the-Left-might-actually-be-right.html
http://www.faz.net/aktuell/feuilleton/debatten/kapitalismus/euro-krise-die-luege-von-der-systemrelevanz-11537333.html
PS: per una volta persino la chiesa e Bagnasco dicono qualcosa di sensato: questa non è una crisi finanziaria, è una crisi morale e di civiltà. Siamo ormai un bassissimo impero pronto per l'autodissoluzione e le calate dei barbari.