Marx, il conflitto sociale e la sovranità dello Stato (parte I)
di GENNARO SCALA (FSI Bologna)
Nel mio precedente lavoro Marx, l’Europa e il globalismo intendevo segare il ramo secco del globalismo marxiano proprio perché convinto che l’impianto teorico marxiano avesse dei rami ancora verdi, principalmente frutto del lavoro a cui Marx maggiormente si dedicò, lo studio de Il Capitale, ad es. lo schema di riproduzione DMD’, quale inversione dei mezzi e dei fini, per dirla con Emanuele Severino (o perversione dei fini) nel senso che quanto dovrebbe essere mezzo, il denaro, diventa fine, mentre la mercificazione dal rapporto di lavoro si estende ad ogni aspetto della vita, la mercificazione universale oggi in atto, quale forse neanche Marx avrebbe neanche immaginato, che mette in produzione anche le gestanti, con tanto di embrioni messi in vendita su internet.
I meccanismi dell’accumulazione e della valorizzazione del Capitale, sono ancora oggi indispensabili per analizzare le dinamiche della società attuale in particolare per quanto riguarda i rischi di distruttività dell’ambiente che tale sistema di produzione comporta, sia i rischi di esclusione di massa crescenti della popolazione da un ruolo sociale attivo. Questi strumenti concettuali restano indispensabili se vogliamo anche solo immaginare di porre un freno a Mr. Capital, oppure se addirittura vogliamo immaginare un sistema economico diverso. Perché no? i sistemi produttivi sempre cambiano nel tempo.
Compito che non può essere pensato in astratto, ma sempre guardando sull’esperienza storica reale, pratica e concreta, anche di altre organizzazioni sociali, quali ad es. la Cina che ha affrontato con successo la questione del sistema produttivo, combinando meccanismi di carattere capitalistico con il controllo della politica sull’economia, determinando così un sistema misto tra iniziativa privata e controllo statale, che in pochi decenni ha condotto la Cina da una situazione di arretratezza alla situazione attuale che la vede tra le grandi potenze mondiali. Non propongo che debba essere importato il modello cinese, ma di prenderlo in considerazione quale uno dei sistemi in cui la politica ha conservato il controllo sull’economia, obiettivo valido in se stesso.
Taluni che pur sono convinti della crisi irreversibile dei marxismi si dicono restii ad affrontare un discorso critico radicale sul pensiero del loro fondatore (il quale però, è bene sempre ricordarlo, disse di non essere marxista) perché Marx resta, tra i grandi pensatori, colui chi più ogni altro ha analizzato e promosso il conflitto sociale. Marx è, in ambito teorico, il conflitto sociale. Ed oggi ci sarebbe decisamente bisogno di conflitto sociale, dopo decenni di “lotta di classe” condotta solo dall’alto, nel senso che le classi dominanti sono state libere di devastare liberamente le condizioni di vita delle classi popolari. Proprio perché il conflitto sociale è positivo e necessario voglio esaminare cosa non funziona nella concezione marxiana dello stesso. Spero risulterà chiaro alla fine che è necessario operare una decisiva correzione di tiro rispetto alla concezione marxiana, anche se in questo caso non si tratta di segare un ramo morto, ma raddrizzare uno storto che va in una direzione sbagliata.
Innanzitutto, bisogna precisare, che è Machiavelli il primo ad interrompere una tradizione che da Aristotele a Cicerone vedeva un bene nella concordia ordinum, mentre invece considerava il conflitto interno come un male in sé, attribuendo un valore positivo al conflitto sociale che a suo giudizio aveva creato le migliori istituzioni della Repubblica romana. È il principale contributo di Machiavelli alla storia del pensiero politico. Ma a differenza di Marx per Machiavelli è attraverso il conflitto tra volontà divergenti che si realizza l’unità della repubblica, mentre per Marx il conflitto porta inevitabilmente alla radicale trasformazione sociale. Quanti rivendicano politicamente la legittimità del conflitto sociale si rifanno inconsapevolmente alla concezione repubblicana machiavelliana (ho analizzato il repubblicanesimo machiavelliano in altra sede), in quanto non si può allo stesso tempo rivendicare la sua legittimità istituzionale e allo stesso tempo negare la legittimità delle istituzioni, a meno di non voler rivendicare uno sorta di “diritto costituzionale alla rivoluzione”, il che è un assurdo.
Ciò non implica l’impossibilità di trasformazioni radicali, sono sempre avvenute e avverranno in futuro di fronte a classi dominanti incapaci di gestire il funzionamento complessivo della società, ma lo si verifica “in corso d’opera”, non si può allo stesso tempo rivendicare la legittimità del conflitto sociale, la possibilità per ogni classe sociale di difendere legittimamente i propri interessi, e allo stesso tempo negare il quadro istituzionale che dovrebbe riconoscere la legittimità di tale conflitto. Marx effettivamente apparteneva a pieno titolo all’idealismo, come rilevava Gentile, e poi sulla sua scorta Preve e Fusaro, se appunto l’idealismo è considerare quale principale realtà quella creata dalla praxis, quando dichiarava: “i filosofi hanno finora interpretato il mondo si tratta ora di cambiarlo”, compendiando le Tesi su Feuerbach. Potremmo tradurre così: “in quanto filosofi abbiamo finora interpretato il mondo, si tratta ora di plasmarlo a nostra immagine e somiglianza”. Il re-filosofo, preso il posto del Demiurgo, sognava di plasmare la realtà sociale secondo i suoi desideri, sogno che può trasformarsi nell’incubo di un mondo completamente pacificato e amministrato.
Vi è invece un’altra parte del pensiero di Marx in cui il Comunismo avrebbe dovuto nascere da un parto di cui era già gravida la Storia, per cui il compito maieutico del rivoluzionario era quello di accelerare, o forse meglio assistere e favorire il parto, attività maiuetica indispensabile altrimenti potrebbero verificarsi la morte del neonato e della stessa gestante. Al di là dell’illusione relativa all’idea che la Storia fosse gravida del Comunismo, vi era però implicito che bisognasse conoscere le dinamiche sociali per agire in accordo con esse, che bisognasse partire dai movimenti reali presenti nella società: il comunismo era “il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”.
Con questo spirito marxiano, più che nell’ottica delle varie ideologie marxiste sopravvissute, diventate oggi reazionarie, Carlo Formenti ha guardato ai cosiddetti movimenti populisti, derivandone che sia necessario stare all’interno di questi movimenti (essi, come tutti i movimenti spontanei, sono un aggregato delle più disparate tendenze) sorti come reazione alla devastazione sociale operata del neo-liberismo, perché soltanto dall’interno si possono individuare degli spiragli verso la trasformazione sociale. Formenti proviene da quella variante specificamente italiana del marxismo detta operaismo (di cui però privilegia la versione trontiana opponendosi a quella negriana) per cui ha iniziato un lavoro di revisione radicale del proprio marxismo che ha fatto subito parlare di “strani approdi”, dove con quel “strani” ben si intuisce quale accusa si vorrebbe ventilare, ma non apertamente forse per tema del ridicolo. È invece la reazione vitale di chi vuole sottrarsi alla deriva di un ambiente di cui ha fatto parte, ma di cui si coglie l’“irriformabilità” per dirla con Preve, e destinato per questo a finire nella discarica della storia. Credo di capire alquanto Formenti in questo suo spirito, provengo dal marxismo, ma non quello operaista, da quello più “classico” gramsciano e togliattiano, pur non avendo avuto il ruolo paragonabile a quello di Formenti, e pur appartendo ad una generazione successiva, non quella degli anni ’70 ma quella dei deprimenti anni ’90.
Personalmente, mi sono reso conto circa 10 anni fa che bisognasse rompere con quello che era il mio ambiente insieme politico e anche relazionale. Guardato ora a distanza, il percorso che ne è seguito mi appare come descensus ad inferos, l’inferno dell’annullamento, della negazione delle proprie convinzioni, che è necessario attraversare per compiere il processo di morte e rinascita, secondo la massima di Goethe: “muori e divieni”. Guardo con sincera ammirazione e rispetto a chi come Formenti ha intrapreso un percorso di radicale ripensamento, non facile per chi ha trascorso buona parte della sua vita nell’ambito della sinistra comunista, ed ha avuto un certo ruolo in quel mondo intellettuale (l’alternativa era il silenzio o la marginalità), tuttavia mi permetto di far notare che la sua crisi radicale necessita di un approccio ugualmente radicale che riguarda lo stesso Marx.
Sono convinto che Formenti converrebbe, tuttavia non posso non esprimere il mio dissenso quando nel suo ultimo e interessante libro Il socialismo è morto. Viva il socialismo scrive che Marx “a differenza degli intellettuali di sinistra di oggi, Marx non ha mai confuso cosmopolitismo borghese e internazionalismo”. Insisto con decisione su tale questione perché è una parte del pensiero marxiano che per me va decisamente abbandonata, nel mio lavoro su Marx e l’Europa e il globalismo credo di aver portato sufficienti argomenti a favore della tesi secondo cui il pensiero marxiano, in merito alle relazioni internazionali, nonostante ripensamento radicale alla fine della sua vita, da lui stesso affermato, è stato prevalentemente improntato al globalismo eurocentrico. Certo, è importante analizzare l’evoluzione del pensiero marxiano, il deciso ripensamento della concezione deterministica e progressiva della storia, che si manifesta nei Quaderni antropologici, resa esplicita nell’introduzione francese al Capitale da lui stesso corretta, tuttavia bisogna tenere conto che opere come Il manifesto del partito comunista hanno influito decisamente di più nella formazione della mentalità di generazioni di comunisti. E in merito al colonialismo se proprio non si tratta di sofismi dialettici, in ogni caso è un discorso nettamente contraddittorio in cui il sostegno al colonialismo inglese è prevalente.
Se poi qualcuno riesce invece a dimostrare che la mia tesi è errata, sarò stato lieto di aver dato un contributo alla migliore conoscenza del pensiero marxiano (secondo il procedimento della dialettica classica). Da questo mio lavoro, inoltre, ho tratto la conclusione che per ripensare il socialismo bisogna oggi abbandonare l’utopia comunista strettamente connessa al globalismo, quale soluzione utopica delle contraddizioni irrisolvibili in cui era entrata l’Europa ottocentesca che poi sfoceranno in due guerre mondiali. Inoltre, la questione del socialismo, pensato soprattutto come controllo della collettività sulla produzione, non esaurisce la questione politica in quanto le forme politiche, nella loro relativa autonomia, non sono in relazione alla sola struttura economica, ma alle modalità in cui è costituito l’esercito.
Esercito di massa, esercito popolare, esercito di leva, esercito professionale influiscono sulla struttura politica e anche nei rapporti tra le classi. Non a caso ad es. la precarizzazione a cui hanno mirato le classi dominanti negli ultimi decenni ha coinciso con la fine dell’esercito di leva in quasi tutti i principali paesi occidentali. È stata questa una teoria originariamente formulata dal sociologo tedesco Otto Hintze e che ha influenzato un’interessante corrente di studi definita “sociologia storica” che ha introdotto con Charles Tilly un’importante integrazione dell’analisi marxiana, basata principalmente sullo studio dell’Europa moderna, affiancando l’analisi della “concentrazione dei capitale” alla “concentrazione del potere politico” che si verifica con la nascita degli eserciti moderni.
[continua]
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