Globalismo: un mondo in catene
Traduzione a cura di Alessandro Castelli (FSI Trento)
La peggior paura dei globalisti non è lo Stato – è il popolo
Questo è il primo saggio di una serie in due parti di Phil Mullan che esplora il credo politico ed economico del globalismo. La seconda parte, sulla genesi e la politica del neoliberalismo, sarà pubblicata tra due settimane.
Siamo entrati in uno di quei periodi della storia in cui l’ordine mondiale può essere definito solo come instabile. Alcuni prevedono che ci sarà un ‘momento di Tucidide’, in riferimento alla di questi storia della guerra del Peloponneso di 2500 anni fa. In quest’opera, Tucidide scrisse: ‘Ciò che rese inevitabile la guerra fu la crescita della potenza ateniese e la paura che ciò causò a Sparta.’ Oggi potremmo esserci incamminati sulla stessa strada, dal momento che vecchi e nuovi poteri si stanno scontrando: una Cina in crescita sta alimentando le ansie nel declino dell’America e dell’Europa e nel frattempo si stanno aggiungendo, a un quadro di per sé caratterizzato da un alto indice di discontinuità, crescenti tensioni all’interno del ‘vecchio’ mondo occidentale.
Un approccio razionale a un mondo in cambiamento sarebbe quello di elaborare collettivamente un nuovo ordine appropriato per la nostra era, da parte di nazioni libere e indipendenti. Tuttavia, la prospettiva dominante globalista è stata invece quella di insistere sull’adesione a un preesistente ‘ordine internazionale basato su un codice predeterminato di regole’, istituito dopo la seconda guerra mondiale. Ma perpetuare gli attuali accordi giuridici internazionali rischia di ravvivare il fuoco sotto una pentola a pressione già in procinto di esplodere.
Quando le vecchie potenze si affidano al mero preservare le regole esistenti, ciò è per il mondo altrettanto pericoloso, delle azioni di coloro che rifuggono tali regole o che cercano di riscriverle, se non di più.
Questo è il motivo per cui i globalisti contemporanei rappresentano una minaccia per la pace mondiale tanto quanto coloro che essi condannano come nazionalisti, caratterizzati da una visione antiquata della politica economica. Quando coloro che si trovano in una posizione dominante usano le loro posizioni privilegiate per cercare di preservare lo status quo a costo di frustrare le aspirazioni dei loro sfidanti si crea un ambiente internazionale potenzialmente esplosivo.
Questa posizione poco saggia appare così popolare tra le élite perché riflette il loro profondo attaccamento allo status quo. Le élite politiche non promuovono più visioni alternative per il futuro. Ciò non rappresenta solo una perdita di immaginazione, ma rivela anche un’esiziale perdita di fiducia nella capacità delle persone e delle libere nazioni democratiche, di agire responsabilmente. Avendo rinunciato alla deliberazione politica, il seguire delle regole è diventato un sostituto della prudenza e di nuove elaborazioni di pensiero.
Questo è molto lontano dal profilo che Immanuel Kant delinea della strada per l’ordine mondiale nel suo influente saggio sulla pace perpetua. Scrivendo alla fine del XVIII secolo, Kant spiega il suo rifiuto di fare affidamento sul diritto internazionale osservando che la legge non è altro che un’apologia del potere. Invece, sostiene che la causa della pace mondiale potrà basarsi esclusivamente sulla libertà e la ragione. Kant era infatti convinto che l’umanità non solo possieda la ragione, ma anche che in ultima analisi sia guidata da essa.
I globalisti di oggi hanno perso la fiducia nella capacità della ragione di guidare le azioni delle persone. Il loro disprezzo per la democrazia è stato svelato nel 2016, quando hanno apertamente screditato i cittadini britannici che hanno votato per lasciare l’Unione europea e i cittadini americani che hanno eletto Donald Trump. L’indifferenza globalista nel rispettare il processo decisionale democratico si basa sul disconoscimento dell’efficacia della volontà espressa dal popolo.
Questo denuncia anche il fatalismo dietro la prospettiva moderna sulla globalizzazione. Ci viene detto che abitiamo in un mondo determinato dalle forze del mercato globale, forze su cui possiamo avere poca influenza. Ciò significa vedere la globalizzazione come una forza oggettiva che sembra quasi impermeabile alla volontà e all’azione umana, e questo a sua volta mostra quale sia il principio globalista più importante e di più ampia portata: che il processo decisionale nazionale sia diventato molto meno efficace e tendente a essere ridondante, mentre da noi si sia sempre più soggetti al capriccio di forze globali impersonali e indipendenti.
Il fatalismo del globalismo si auto-riproduce: proprio nel momento in cui afferma, su basi apparentemente solo descrittive, che la democrazia non sia in grado di operare, fa sì che le persone, normativamente, non abbiano modo di esercitare il controllo sulla globalizzazione
Prendiamo ad esempio la dichiarazione del 2007 fatta da Alan Greenspan, l’allora presidente della Federal Reserve, recentemente in pensione, quando un giornale svizzero gli chiese chi sarebbe potuto essere il prossimo presidente degli Stati Uniti. Questi rispose: ‘siamo fortunati che, grazie alla globalizzazione, le decisioni politiche negli Stati Uniti sono state in gran parte rimpiazzate dalle forze del mercato globale … non fa alcuna differenza chi sarà il prossimo presidente. Il mondo è governato dalle forze del mercato.’(1)
Questo riassume il più importante corollario politico della credenza nella globalizzazione ascendente: che la teoria e la pratica della sovranità nazionale e dello Stato nazione siano indebolite da un mondo immerso in un processo di rapido cambiamento. Ma senza lo Stato nazione, non abbiamo lo strumento principale della sovranità popolare. Il fatalismo del globalismo si auto-riproduce: proprio nel momento in cui afferma, su basi apparentemente solo descrittive, che la democrazia non sia in grado di operare, fa sì che le persone, normativamente, non abbiano modo di esercitare il controllo sulla globalizzazione
Che un globalista come Greenspan sminuisca la democrazia non è un caso. L’antipatia per la politica, e in particolare per la politica di massa, è stata una caratteristica presente nel globalismo sin dalle origini, vale a dire negli anni ’20 e ’30, quando tale concetto venne per la prima volta elaborato.
È quasi emozionante rendersi conto che invece questo periodo storico, fino a questo momento, offre molti esempi del semplice fatto che la globalizzazione non sia un processo naturale. Il mondo interconnesso di oggi è stato costruito lungo decenni, specialmente dal secondo dopoguerra, da un’alleanza di politici, di altre élite e di esperti, tra cui personaggi come lo stesso Greenspan. La globalizzazione non può essere legittimamente presentata come un fenomeno auto-guidato, separato dalla politica.
La regola delle regole
La globalizzazione, in breve, si riferisce alla convinzione che il mondo – economicamente, politicamente ed ecologicamente – si sta riducendo rapidamente nelle sue dimensioni sociali e fisiche. Ma cosa intendiamo per ‘globalismo’ e ‘globalisti’? Chi sono?
Alcuni descrivono i globalisti come la ‘folla di Davos’, le persone che si riuniscono in Svizzera ogni anno in occasione degli incontri annuali del World Economic Forum. Molti volano con un jet privato o con un elicottero per indicare che sono la crème dell’élite globalista. Ma i globalisti sono molto più numerosi di coloro presenti a Davos.
Includono coloro che guidano grandi società e gestiscono istituzioni internazionali come l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), il Fondo monetario internazionale (FMI) o l’UE. Ma, a ragione, includono anche la maggior parte delle persone che gestiscono le organizzazioni ufficiali e le istituzioni statali dell’Occidente. Particolarmente importanti, negli ultimi due decenni e ancor più dopo la crisi finanziaria, sono i leader delle banche centrali presumibilmente ‘indipendenti’. Pensiamo allo stesso Greenspan, che pur credendo che il mondo sia governato da impersonali forze di mercato, ha ben pensato di dedicare più di due decenni della sua vita a guidare la banca centrale degli Stati Uniti.
Il globalismo, a sua volta, descrive la prospettiva dominante dell’establishment politico e imprenditoriale occidentale del dopoguerra. Abbiamo già parlato del suo attaccamento a un codice predeterminato di regole. Di fatto, una definizione dell’ethos globalista può essere questa: ‘devozione a un mondo di regole’. Molti globalisti illustrano le loro credenziali ‘liberali’ molto più attraverso la loro devozione a tali regole che attraverso il perseguimento attivo dell’autonomia e della libertà.
John Ikenberry, uno scienziato politico globalista e apologista del dominio degli Stati Uniti, ha riassunto questo con la sua affermazione che gli americani sono meno interessati a governare il mondo che a ‘creare un mondo di regole’ (2). Allo stesso modo, nella sua acclamata analisi della crisi finanziaria, lo storico Adam Tooze ha scritto che la crisi aveva esposto chiaramente come la globalizzazione sia basata su delle regole. Tematizzando la visione convenzionale della globalizzazione come un ‘processo quasi naturale’, Tooze ha sottolineato che in realtà ci deve essere un notevole accordo tra volontà diverse per far funzionare un regime basato su delle regole. La globalizzazione è in realtà ‘un’istituzione, un manufatto di costruzione politica e legale deliberata’ (3).
Certo, la devozione alle regole non significa che i politici globalisti vi si attengano sempre: i Governi globalisti, specialmente nei Paesi più potenti, sono noti per rompere tali regole con relativa tranquillità quando il loro interesse nazionale lo richiede. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno violato regolarmente le regole che dichiarano di sostenere, conducendo interventi militari non autorizzati e operazioni segrete all’estero.
E la Commissione europea, dal canto suo, tratta gli Stati più grandi che infrangono le regole del budget molto più indulgentemente di altri più piccoli. Ad esempio, Germania e Francia, tra molti altri Paesi dell’UE, hanno spesso infranto la regola di stabilità e il patto di crescita dell’UE per limitare i deficit pubblici al tre per cento del PIL senza essere significativamente sanzionati.
Sebbene il Governo formale delle regole sia stato la norma globalista dalla Seconda guerra mondiale, non è iniziato da allora. Il desiderio tra le due guerre da parte di Gran Bretagna, Francia, Germania e altri Paesi sviluppati di tornare al gold standard prebellico esprimeva il desiderio dei politici di essere in grado di seguire determinate regole. Sebbene il ricongiungimento del gold standard fosse successivamente considerato un grosso errore, in sintonia con la famosa critica di Keynes, negli immediati anni del dopoguerra il ritorno era un obiettivo per lo più incontestato. Alla fine del 1925, 35 valute in tutto il mondo erano ufficialmente convertibili in oro o erano state stabilizzate da almeno un anno. Il ritorno al gold standard era visto come una regola che, in effetti, era stata ‘sospesa’ solo a causa delle circostanze emergenziali dovute alla guerra.
Si pensò che la ri-adozione dello standard imponesse una certa ‘disciplina’ politica attraverso azioni vincolanti di politica fiscale e monetaria. In questo spirito, Montagu Norman, il governatore della Banca d’Inghilterra, vide il ritorno all’oro come un ‘cavalcavia’. Una comune adesione al gold standard da parte dei Paesi sviluppati creò una regola internazionale de facto.
È pertinente per un apprezzamento del significato di regole oggi vincolanti per ogni Stato sottolineare che l’essenza della regola dello standard dell’oro era un meccanismo di impegno interno: dal momento che mantenere l’allineamento limitava fortemente lo spazio di manovra per le politiche domestiche, farlo legava le mani del Governo, proteggendo così la classe politica dalle pressioni democratiche per abbandonare le politiche deflazionistiche basate su una moneta forte. In effetti, la rottura del gold standard nel 1914 è stata in parte attribuita al sorgere della democrazia, perché erano le masse a subire il maggior numero di misure di austerità interne adottate per mantenere l’adesione alla regola, masse che però avevano appena guadagnato il diritto di voto.
In retrospettiva, è facile vedere come il ritorno alla sopravvalutata regola del gold standard causò moltissimi danni economici e sociali durante il periodo tra le due guerre in Gran Bretagna e altrove. E una tenace adesione alle regole conseguenti al gold standard contribuì infine alle tensioni che hanno portato alla ripresa del conflitto globale nel 1939. Tuttavia, questa lezione non venne appresa: all’indomani del bagno di sangue della Seconda guerra mondiale, furono raddoppiati gli sforzi per cercare di governare attraverso delle regole valide per tutti gli attori in gioco.
Ora passiamo a descrivere una caratteristica sempre più evidente della scuola globalista: la sua promozione dello Stato di diritto.
Il malleabile ‘Stato di diritto’
I globalisti spesso definiscono il liberalismo come sostegno allo ‘Stato di diritto’. Tuttavia, il significato di questo termine è probabilmente ‘meno chiaro oggi di quanto sia mai stato’ (4). Inoltre, un leader del movimento dei critical legal studies ha suggerito che, alzando il livello della giustizia procedurale, fare appello allo ‘‘Stato di diritto’ consente ai potenti di ‘manipolare le sue forme a proprio vantaggio’ (5). Dovremmo essere consapevoli di questa flessibilità quando sentiamo la formula ‘Stato di diritto’, soprattutto dal momento che viene usata così spesso nelle affermazioni globaliste ed è di conseguenza importante valutare tale formula nel contesto in cui viene utilizzata.
Storicamente, non vi è dubbio che lo Stato di diritto sia stato un elemento cruciale nella diffusione della libertà e della sovranità popolare. Questa visione giuridica della libertà è stata ben catturata da un eminente esponente della Corte Suprema del periodo interbellico, di nome Louis Brandeis, quando questi osservò che ‘la storia della libertà è in larga misura la storia delle osservanze procedurali’.
La caratteristica chiave del tradizionale principio dello ‘Stato di diritto’ è che tutti sono uguali davanti alla legge, sia i funzionari della legge stessa sia i comuni cittadini che dovrebbero essere soggetti ai suoi dettami. Nessuno – nemmeno il più ricco uomo d’affari o il politico più in vista – dovrebbe essere ‘al di sopra della legge’. In questa modo, lo Stato di diritto diventa una sentinella di importanza vitale nei confronti dell’esercizio arbitrario del potere. In passato ha sicuramente contribuito a promuovere un sano scetticismo nei confronti dei governanti da parte dei governati.
L’idea dello Stato di diritto ha avuto origine nell’Antica Atene quando il nomos (il primato della legge) prese il posto della physis (la natura) come modo migliore di ordinare la società. Sotto la democrazia ateniese, ogni cittadino, indipendentemente dalla ricchezza e dal potere, era uguale secondo la legge. Rappresentando i poveri del loro tempo, i marinai ateniesi nell’agorà sostenevano la legge per proteggere le masse contro i capricci dei ricchi e dei potenti.
Con la diffusione del suffragio di massa nel 20° secolo, l’idea di porre dei vincoli su ciò che i governanti potevano fare si è trasformata in vincoli su ciò che potevano fare i Governi eletti dal popolo.
Il concetto di Stato di diritto fu adottato anche durante la Repubblica Romana. Nei primi anni della repubblica, solo l’élite di Roma sapeva quali erano le leggi, che ovviamente favorivano l’aristocrazia. Nel 450 aC., dopo circa 50 anni di repubblica, questo particolare difetto fu corretto. Le leggi romane furono scritte per la prima volta come le ‘dodici tavole’, in modo che tutti potessero conoscere la legge. Rendere pubbliche le leggi diede la parità a tutti, consentendo alla legge di trattare tutte le persone allo stesso modo.
Il principio dello Stato di diritto fu reintrodotto in tempi moderni attraverso la gloriosa rivoluzione britannica del 1688, quando si rimosse i diritti ‘divini’ dei re e i privilegi politici degli aristocratici per fare in modo che il potere politico potesse essere esercitato solo in base a procedure e vincoli prescritti da leggi pubblicamente note. Questo Stato di diritto fece sì che tutte le persone, compresi i funzionari governativi, dovessero obbedire alle leggi e venissero giudicate nei tribunali se non lo facevano. Inoltre, le leggi potevano essere cambiate solo attraverso le procedure costituzionali e non potevano essere annullate o scavalcate da singoli decreti.
Questo approccio fornisce ancora una protezione importante contro oligarchie e dispotismi, e consente la difesa dei diritti delle minoranze. Tuttavia, l’essenza liberale dello Stato di diritto è stata progressivamente erosa lungo il secolo scorso, e in particolare dagli anni ’70. Invece lo ‘Stato di diritto’ e il sistema giudiziario sono stati trasformati in un veicolo per alcune azioni molto illiberali e antidemocratiche nel loro calpestare i desideri della gente.
Senza dubbio molti globalisti non saranno d’accordo con questo punto di vista. Tuttavia, è probabilmente meno controverso se visto nel contesto delle colonie o neo-colonie. John Sydenham Furnivall – amministratore coloniale britannico in Birmania per 30 anni, fino ai primi anni ’30, quando tornò in patria per diventare uno studioso critico delle politiche imperiali occidentali – venne soprannominato ‘l’imperialista riluttante’ quando sfidò l’opinione allora convenzionale secondo cui lo sviluppo economico era la condizione preliminare per l’autogoverno e la democrazia nei territori colonizzati sostenendo l’esatto contrario: soltanto concedendo l’autonomia si darà il via allo sviluppo sociale ed economico.
Riflettendo la sua prospettiva pro-democratica, Furnivall sosteneva che lo ‘Stato di diritto’ imposto dalle potenze occidentali alle loro colonie era principalmente concepito al solo scopo di promuovere il commercio (6) e che questa versione dello ‘Stato di diritto’, lungi dal potenziare e unire le persone, ampliava sì il commercio, ma a scapito dell’integrità sociale e politica della società coloniale. All’indomani della Seconda guerra mondiale, quando un’autentica autonomia del Terzo Mondo era chiaramente assente, l’affermazione di Furnivall era difficile da contestare.
Quindi l’appello allo ‘Stato di diritto’ non dovrebbe essere considerato un bene universale, deve bensì essere valutato all’interno di specifiche circostanze sociali e politiche. Si consideri una definizione di liberalismo suggerita dallo scienziato politico Francis Fukuyama: il liberalismo significa avere ‘regole generalmente accettate che pongono chiari limiti al modo in cui lo Stato [nazionale] può esercitare il potere’ (7). Questo non sembrerebbe di primo acchito discutibile, tuttavia l’enfasi sui ‘chiari limiti’ contiene il potenziale per contrapporre lo ‘Stato di diritto’ alla volontà democratica popolare. È quello che è successo con la diffusione del suffragio di massa nel 20° secolo, quando l’idea di porre vincoli e limiti su ciò che i governanti potevano fare si è trasformata in vincoli e limiti su ciò che potevano fare i Governi eletti dal popolo. Il significato dello Stato di diritto si è spostato, dandogli la precedenza sul Governo – Governo la cui attività legislativa è frutto da una decisione politica attuata dalla gente comune.
Negli anni ’30, il presidente americano Franklin D. Roosevelt si scontrò con questo potenziale blocco giudiziario per la democrazia liberale. Questi e il suo Partito Democratico erano stati eletti nel 1932 con il mandato di attuare misure per combattere gli effetti della Grande Depressione. La Corte Suprema, tuttavia, si pronunciò contro alcune delle misure del New Deal come ‘incostituzionali’ e appoggiò solo in modo restrittivo le altre con una decisione non unanime: cinque giudici contro quattro.
Dopo essere stato rieletto nel 1936 con una maggioranza ancora più ampia, Roosevelt accusò la Corte Suprema di ‘agire non come un organo giudiziario, ma come uno politico’. La sua proposta di rimediare a ciò sostituendo i giudici della Corte Suprema non poté ottenere l’approvazione legislativa – un’altra conseguenza dei ‘pesi e contrappesi’ americani – ma attraverso il suo mandato elettorale venne visto come vincitore di principio: la Corte Suprema si sentì in dovere di arrendersi e approvare le sue precedenti politiche del New Deal.
La responsabilità dei Governi di agire in base ai loro mandati elettorali è svalutata insistendo sulla loro responsabilità primaria verso lo Stato di diritto
Lo scontro di Roosevelt con i tribunali negli anni ’30 ha anticipato le tendenze antidemocratiche nell’evoluzione dello Stato di diritto dopo il 1945. Facendo appello alla santità dello ‘Stato di diritto’, le istituzioni giuridiche possono considerarsi giustificate nel respingere i desideri del popolo espressi attraverso i voti popolari e le elezioni. La responsabilità dei Governi di agire secondo i loro mandati elettorali è svalutata insistendo sulla responsabilità primaria dei Governi verso lo Stato di diritto.
Una formulazione tipica di tutto ciò ci viene da Kofi Annan quando era segretario generale delle Nazioni Unite, all’inizio di questo millennio, il quale difese ‘un principio di governance in cui tutte le persone, le istituzioni e le entità, pubbliche e private, incluso lo Stato stesso, sono tenute a fare in modo che le leggi siano pubblicamente promulgate, applicate imparzialmente e passibili di essere giudicate in modo indipendente nella loro coerenza con le norme internazionali sui diritti umani ‘. Di nuovo, in superficie, questo non sembra apertamente antidemocratico: le istituzioni di Governo dovrebbero essere vincolate dallo Stato di diritto e non dovrebbero essere libere di ignorare le leggi che essi stessi applicano. Ma un altro principio democratico essenziale è che i Governi dovrebbero essere responsabili nei confronti del loro elettorato. Le leggi da seguire dovrebbero essere quelle con cui le persone sono d’accordo. Se un Governo non ha un numero abbastanza alto di elettori non può entrare in carica; oppure, se gli elettori successivamente alle elezioni non sono d’accordo con l’azione del Governo, questi possono sostituirlo e cambiarne le leggi alle prossime elezioni.
Questa relazione è, nel migliore dei casi, offuscata, o persino sovvertita, quando i funzionari non eletti delle Nazioni Unite affermano che la legge che vogliono essere osservata dai Governi debba essere in accordo con certi standard ‘internazionali’. Quando a tali ‘norme’, spesso vaghe e imprecise, a livello internazionale viene dato un veto effettivo sulla legislazione nazionale, le capacità decisionali delle persone vengono in linea di principio ignorate, anche se non sempre nella pratica.
Inoltre, questa prospettiva sullo Stato di diritto, in cui le azioni del Governo devono soddisfare determinati criteri stabiliti a livello internazionale, ha già legittimato l’intervento internazionale negli affari di Stati sovrani. Molte nazioni sono state invase a causa dell’accusa che stavano infrangendo la legge, inclusi negli ultimi tempi Somalia, Serbia, Iraq, Libia e Siria. Come ha osservato lo storico Mark Mazower, l’appello alla legge è diventato un ‘vocabolario di permessi, un mezzo per affermare un potere, e un controllo, che normalizza il discutibile e giustifica l’eccezione’ (8).
Il crescente uso dello Stato di diritto per convalidare l’erosione della sovranità nazionale fa parte della più ampia reinvenzione dell’ordine internazionale postbellico, nella misura in cui alle istituzioni internazionali postbelliche viene sempre più attribuita un’autorità superiore a quella dei Governi nazionali. La loro preminenza rispetto alla sovranità popolare le dota di un potere sacro e quasi incantato.
Le risposte pubbliche di molti globalisti al ben noto disprezzo e ostilità di Trump verso queste organizzazioni hanno reso tali opinioni più esplicite. Una raccolta di studiosi di relazioni internazionali ha sostenuto di preservare l’ordine internazionale esistente contro alcune delle esplosioni anti-globaliste di Trump in una dichiarazione pubblicata sul New York Times (27 luglio 2018) in cui si sosteneva che l’ONU, la NATO, l’OMC, l’UE e le altre istituzioni postbelliche hanno fornito ‘stabilità economica’ e ‘sicurezza internazionale’, essendo la sorgente di ‘livelli senza precedenti di prosperità’ e del ‘periodo più lungo nella storia moderna senza guerra tra grandi poteri ‘. Dare così tanta influenza alle istituzioni internazionali trasforma un desiderio in una falsa realtà.
Non potremo mai sapere se avremmo avuto un lungo periodo di ‘pace’ – ossia un periodo in cui le nazioni più importanti a partire dal 1945 hanno evitato di guerreggiare tra loro – anche senza queste istituzioni perché esiste una sola storia. Tuttavia, queste istituzioni alla fine esprimono solo le forze e le pressioni delle nazioni che le inventano. Di per sé, le istituzioni non possono fare nulla quando i più potenti fra gli Stati membri le ignorano. La Società delle Nazioni, ad esempio, ‘fallì’ nell’impedire la Seconda Guerra Mondiale non a causa di qualche difetto istituzionale, ma perché le nazioni capitaliste erano in rotta di collisione a causa dei conflitti economici e geopolitici del tempo. La Società delle Nazioni era impotente a impedirlo.
Un altro esperto di relazioni internazionali, Stephen Walt di Harvard, non solo ha rifiutato di firmare la dichiarazione del New York Times, ma ha anche messo in dubbio le sue ipotesi. Ha spiegato che queste istituzioni sono state istituite in un’epoca diversa dal presente e che la maggior parte di esse non sono più appropriate per il mondo di oggi. Walt ha ammonito che la nostalgia di un passato che non è mai esistito non avrebbe aiutato a risolvere i problemi contemporanei. Il cosiddetto ‘ordine liberale’ non era proprio il nirvana che la gente ora immagina fosse.
Walt ha dimostrato che questo non è mai stato un ordine completamente globale. C’era anche un ‘terribile comportamento illiberale’ in corso, anche da parte di Paesi e leader che proclamavano costantemente ‘valori liberali’. Gli Stati Uniti, ha ricordato ai suoi colleghi, hanno appoggiato molti governanti illiberali autoritari durante tutta la Guerra Fredda (e hanno continuato a farlo da allora). Un più recente disprezzo per le regole internazionali si è palesato quando gli Stati Uniti hanno guidato l’invasione dell’Iraq nel 2003 senza l’approvazione dell’ONU.
Le amministrazioni della Casa Bianca non hanno esitato a infrangere le regole dell’ordine liberale per seguire i loro interessi nazionali. Questo è ciò che accadde quando gli Stati Uniti smantellarono unilateralmente il sistema di cambio di valuta di Bretton Woods nel 1971, perché non potevano più seguire le regole che avevano approvato in precedenza. Gli interessi nazionali assunsero semplicemente maggiore importanza per gli Stati Uniti rispetto all’onorare il loro impegno nei confronti del sistema monetario internazionale.
Tornando a Walt, nel prosieguo del suo ragionamento questi ha sottolineato che alcune delle istituzioni difese oggi sono in realtà una fonte del problema che stiamo analizzando, fornendo l’esempio della NATO, organismo creato in un diverso momento storico per coordinare il potere militare occidentale durante la Guerra Fredda e che dalla fine di questa si è trasformato in una fonte di disordine. Infatti, il suo obiettivo di una ‘espansione verso est tanto assidua quanto mal concepita’ ha riacceso, e non alleviato, delle tensioni internazionali,.
Dotare queste istituzioni di un potere supremo non è solo traviante, ma è anche corrosivo per la democrazia. La promozione dell’autorità istituzionale internazionale non eletta va a minare l’autorità nazionale regolarmente eletta e il depauperamento del ruolo dei cittadini nel processo decisionale è ulteriormente intensificato quando ci viene detto che le organizzazioni internazionali sono i veri costruttori di pace e i veri ingegneri della prosperità. La presunta onnipotenza di questi corpi conferisce loro uno status quasi sacro. Questo è il motivo per cui alcuni globalisti considerano sacrilego anche soltanto criticare tali istituzioni.
Stato anti-nazione, ma non anti-statalista
Il globalismo è spesso percepito come il corollario naturale di un’economia sempre più unificata a livello mondiale. Sembra probabile che la crescente interdipendenza delle economie nazionali dalla fine del XIX secolo sia stata una base necessaria per l’emergere del globalismo. Ma non era abbastanza. In che modo le idee globaliste sono diventate così potenti?
Tornando alla dichiarazione di Greenspan del 2007, è bene mettere in risalto tre punti.
In primo luogo, coglie l’ethos fatalista del globalismo: ‘Difficilmente fa differenza chi sarà il prossimo presidente. Il mondo è governato dalle forze del mercato.’ L’implicazione è che, poiché gli Stati nazionali non controllano nulla, c’è poco che possiamo fare per influenzare le cose con il voto. È il mercato che determina le nostre condizioni di vita.
In secondo luogo, è lo stesso autore che rende tale dichiarazione particolarmente significativa. Fino al suo ritiro, pochi mesi prima, Greenspan era stato regolarmente festeggiato come ‘l’uomo più potente del mondo’, ed è bene mettere in rilievo che la sua esternazione è avvenuta prima della crisi finanziaria, quando la sua reputazione, e quella dei banchieri centrali in generale, ha perso parecchio smalto. Possiamo comunque apprezzare l’ironia insita nel fatto che l’ex leader della banca centrale più potente del mondo metta in luce l’impotenza di tale istituzione una volta posta di fronte alla globalizzazione. La contrapposizione tra il potere reale che persone come Greenspan hanno e le loro asserzioni di impotenza non è un paradosso incidentale del globalismo, ma è intrinseco a esso.
E in terzo luogo, il fatto che Greenspan abbia origini rintracciabili nell’Europa centrale non è privo di importanza per la storia del globalismo, anche se nel suo caso si tratta di un esponente di seconda generazione.
Greenspan è nato a New York negli anni ’20, vivendo prima nel distretto di Washington Heights. All’epoca era conosciuto come ‘Francoforte sull’Hudson’, a causa del gran numero di immigrati ebrei dalla Germania. I suoi genitori erano in realtà di origine centroeuropea: suo padre rumeno, sua madre ungherese. La discendenza di Greenspan è rilevante a causa dell’importante influenza del neoliberalismo classico sullo sviluppo del pensiero globalista.
Due diverse narrazioni sul globalismo possono essere lette nella dichiarazione di Greenspan. La narrazione standard e più popolare è quella del globalismo come gemello del ‘neoliberalismo’, che esprime la visione del ‘fondamentalista del mercato’ secondo cui l’intervento statale è negativo per l’economia e quando un Governo interferisce troppo con il potere autoregolamentato dei mercati liberi va a minare la prosperità del sistema. Questa prospettiva spiega perché Greenspan considerava come una circostanza ‘fortunata’ quella in cui la globalizzazione stava rendendo superfluo il Governo nazionale. Potremmo chiamarla la narrativa ‘anti- Stato’.
Ciò a cui i globalisti sono realmente ostili non è lo Stato, ma la politica
Una narrazione alternativa è in realtà molto più pertinente: stiamo parlando di una narrazione ‘contraria alla politica’, in particolare ‘contraria alla politica di massa’. La dichiarazione di Greenspan incorpora la presunzione, piuttosto diffusa, che l’Occidente abbia raggiunto la ‘fine della politica’. Ciò presume che la politica abbia perso la sua efficacia di fronte alle forze globali. Di conseguenza, anche semplicemente porre in essere delle politiche, in particolare delle politiche economiche, è ora irrilevante se non dannoso, perché tutto è guidato e determinato dalla forza impersonale della globalizzazione.
Lo storico americano Quinn Slobodian ha spiegato questa narrazione ‘contraria alla politica’ nel suo eccellente libro, Globalists: The End of Empire and Birth of Neoliberalism (2018). Slobodian ha caratterizzato il globalismo come la convinzione che ‘alla politica non rimanga altro che un ruolo passivo’, dal momento che l’unico attore in gioco rimasto è l’economia globale’. Questa seconda narrazione mette in luce la centralità e il dominio della negazione della libera volontà umana.
La narrazione standard anti-Stato è in realtà fuorviante. I globalisti non sono realmente contro lo Stato. I globalisti, all’interno delle loro varie istituzioni nazionali e internazionali non vanno al lavoro al mattino per mettere i piedi sulla scrivania e rimanersene lì a non fare nulla tutto il giorno nella loro presunta avversione all’attività statale. Ciò a cui sono veramente ostili non è lo Stato, ma la politica.
I globalisti si preoccupano dei politici ribelli, rissosi e magari persino irrazionali che si impegnano in attività che deragliano dal loro modello liberale. Ciò significa anche che sono sospettosi della democrazia stessa, perché presumono che le masse non siano così razionali e lucide come loro, anzi, le persone comuni sono suscettibili di essere influenzate, illuse o ingannate a tal punto da eleggere ‘politici ribelli, rissosi e magari persino irrazionali’.
Persino i neoliberali apertamente dichiarati tra i globalisti non sono contrari all’attivismo statale in quanto tale. Certamente, spesso denunceranno la pianificazione e il controllo dello Stato sugli affari ma, di base, sono ancora più preoccupati di ciò che considerano l’impatto destabilizzante della politica. In particolare, criticano ciò che chiamano ‘politica discrezionale’, ovvero quegli atti di Governo eseguiti sotto l’egida di decisioni politiche, che pensano interferiscano con il libero funzionamento delle spontanee forze di mercato. Tuttavia, sono abbastanza favorevoli allo Stato che aiuta a realizzare il loro ideale di un ordine di mercato libero dalla politica.
Per esempio, Lionel Robbins, uno dei principali economisti neoliberali della Gran Bretagna del 20° secolo, simpatizzava con la concezione liberale classica di ordine nazionale basato su uno Stato forte e deciso e sempre più spesso, a partire dagli anni ’30, suggeriva che lo stesso principio di uno Stato forte e deciso dovrebbe applicarsi anche su scala internazionale, in qualche forma di autorità federale.
Allo stesso modo, l’ardente neoliberale Friedrich Hayek, nel suo libro del 1979 Legge, legislazione e libertà ha respinto esplicitamente l’idea, a suo dire appunto inesatta, che egli fosse un sostenitore di uno ‘Stato minimo’. Egli ha sostenuto che fosse ‘indubbio che un Governo di una società avanzata dovesse utilizzare il suo potere di raccogliere fondi per la tassazione per fornire una serie di servizi che per vari motivi non possono essere forniti, o non possono essere forniti in modo adeguato, dal mercato’. Questo non è certo un manifesto per il globalismo dei piccoli Stati.
Per coincidenza, Hayek ha negato di essere un purista anti-Stato proprio quando un nuovo primo ministro britannico, Margaret Thatcher, stava dicendo ai suoi colleghi di gabinetto che il libro del 1944 di Hayek La via della schiavitù dovrebbe essere una lettura obbligatoria. Nonostante il fatto che la Thatcher abbia la reputazione di paladina del libero mercato, l’espansione, piuttosto che la contrazione, dello Stato durante il suo mandato fa sì che il necrologio apparso sulle colonne dell’Economist dell’8 aprile 2013 fosse appropriato: questo portavoce del globalismo e del libero mercato affermò che l’essenza del thatcherismo fosse ‘uno Stato forte’ aggiunto al più pieno impegno per una ‘economia libera’.
In un’intervista rilasciata dal quotidiano cileno durante la dittatura militare del generale Pinochet, Hayek ha rafforzato tale prospettiva: ‘quando un Governo si trova in una situazione di totale discontinuità nei confronti del passato e non ci sono regole riconosciute, è necessario creare regole per dire cosa si può fare e cosa no. In tali circostanze è praticamente inevitabile che qualcuno abbia poteri quasi assoluti … Può sembrare una contraddizione che sia io fra tutte le persone a dirlo: in genere io chiedo di limitare i poteri del Governo nella vita delle persone e sostengo che molti dei nostri problemi siano dovuti, appunto, a un potere eccessivo attribuito al Governo. Tuttavia, quando mi riferisco a un potere di tipo dittatoriale, sto parlando solo di un periodo di transizione dove tale potere sia visto come mezzo per ristabilire democrazia e libertà nella loro pienezza. Questo è l’unico caso in cui io possa giustificare e raccomandare una dittatura.’ (9)
Che sia temporaneo o meno, Hayek sostiene esplicitamente uno Stato forte e persino autoritario per stabilire delle regole, da cui si può concludere che la figura più famosa del neoliberalismo non era uno ‘statista minimo’.
Quando i globalisti alludono all’essere anti- Stato, in realtà esprimono la loro opposizione allo Stato nazione, piuttosto che all’intervento statale di per sé. Inoltre, quando sono critici dello Stato nazione, non sono nemmeno realmente contro la ‘nazione’ come entità politica esistente. Piuttosto, sono per lo più contrari all’idea di una nazione in grado di esprimere una politica nazionale.
La maggior parte dei globalisti all’interno delle élite occidentali odierne si sente estranea politicamente e culturalmente alle proprie istituzioni nazionali. Questo può portarli a essere in contraddizione rispetto all’interesse nazionale, oppure, persino, a dubitare che sia giusto perseguire tali interessi. Le élite trovano più facile fare le cose attraverso le reti internazionali perché sono già sempre più distaccate dalle vite e dalla visione del mondo dei cittadini comuni a casa.
Soprattutto, i globalisti sono uniti da un desiderio per un mondo separato dalla democrazia popolare e dalla necessità di ottenere il mandato da parte del popolo stesso.
Di più, considerano sospette le nazioni che pongono in essere delle politiche a causa della loro intrinseca associazione con la gente comune di quella nazione. La loro preoccupazione di fondo è come le persone comuni, molte delle quali non condividono il loro pensiero a loro dire avanzato, possano influenzare ciò che lo Stato fa attraverso il processo democratico. E poiché la democrazia esiste solo nella forma nazionale, questa preoccupazione è alla base del loro svalutare lo ‘Stato nazione’.
È quindi una caricatura ingannevole sostenere che i globalisti cercano un mondo ‘senza confini’ o una società a ‘Stato zero’. Alcuni lo fanno, ma ciò che li unisce davvero è la brama di un mondo separato dalla democrazia popolare e dalla necessità di ottenere il mandato da parte del popolo. Gli Stati rimangono importanti ma si ritiene che operino al meglio attraverso azioni delegate a burocrati e regolatori esperti, non a legislatori e politici sottoposti al mandato popolare.
Questo è ciò che guida l’impulso costituzionalista e legalista all’interno del globalismo – cercare di limitare le politiche economiche nazionali attraverso discipline basate su regole. La regolamentazione legale del commercio non viene più affidata a dei controlli democratici nazionali, ma a delle regole che limitano l’autonomia legislativa. Il legalismo è un modo per i politici di provare ad assolversi dalle proprie responsabilità quando le cose vanno male: ‘Stavamo solo seguendo le regole’.
Seguire delle regole è un modo per evitare di dover esercitare un giudizio. In questo modo, le regole completano le implicazioni di depoliticizzazione delle teorie della globalizzazione. Se le forze globali denudano lo Stato nazione, l’adesione alle regole fornisce una, per quanto modesta, foglia di fico per chi sta governando in quel momento.
In una relazione speciale sull’evoluzione del ruolo dello Stato nel 1997, la Banca Mondiale si è affidata a un modo di pensare molto diffuso quando ha chiesto restrizioni sia nazionali che internazionali ai Governi (10). Il rapporto ha affermato che ora è ‘generalmente accettato’ che alcune aree del processo decisionale pubblico richiedano ‘l’isolamento dalla pressione politica’. Non era chiaro da chi fosse ‘generalmente accettato’. Senza dubbio tra i globalisti, piuttosto che tra le persone che si trovano sul lato di chi non ha più possibilità di dire la propria.
In questo spirito, la Banca Mondiale ha suggerito ai Paesi di rafforzare ‘strumenti formali di moderazione’ attraverso un’efficace separazione dei poteri e ‘un’indipendenza giudiziaria’ (11). Ha precisato che ‘nell’area tecnica e spesso delicata della gestione economica’, una certa protezione del processo decisionale dalla pressione delle lobby politiche era ‘desiderabile’ (12).
Questa proposta di proteggere la politica economica dalle influenze democratiche non ha espresso il ‘ritiro dello Stato’, ma l’aspirazione a uno Stato più ‘efficace’ attraverso una ‘ridefinizione della governance globale’. Per la Banca Mondiale ‘per miglioramento delle istituzioni pubbliche’ si intende mettere tali istituzioni in grado di definire regole e restrizioni capaci di controllare azioni statali ‘arbitrarie’ (13).
‘Miglioramento’ suona come un concetto positivo, ma in questo caso implica il controllo del pubblico. La Banca Mondiale ha posto in pratica questa interpretazione, ad esempio, nei primi anni ’80, quando ha applaudito il regime militare di Pinochet in Cile per le sue riforme normative dell’industria delle telecomunicazioni.
Il globalismo quindi, come prospettiva, non è affatto contro i confini, né è intriso di anti-statalismo, piuttosto vi è al suo nucleo – un nucleo legato alle regole – un’avversione per la democrazia e la forma nazionale tramite cui questa è esercitata.
L’ultimo libro di Phil Mullan, Creative Destruction: How to Start an Economic Renaissance, è pubblicato da Policy Press.
(1) Citato in Buying Time: The Delayed Crisis of Democratic Capitalism, di Wolfgang Streeck, Verso, 2014, p213
(2) ‘Illusions of Empire: Defining the New American Order’, di John Ikenberry, Foreign Affairs, March/April 2004
(3) Crashed: How a Decade of Financial Crises Changed the World, di Adam Tooze, Allen Lane, 2018, p575
(4) ‘‘The Rule of Law’ as a Concept in Constitutional Discourse’, di Richard Fallon, Columbia Law Review, Vol 97, 1997, p97
(5) ‘The Rule of Law: An Unqualified Human Good?’, di Morton Horwitz, Yale Law Journal, vol 86, 1977, pp561, 566
(6) Colonial Policy and Practice: A Comparative Study of Burma and Netherlands India, di John Furnivall, Cambridge University Press, 1948
(7) ‘On Why Liberal Democracy Is In Trouble’, di Francis Fukuyama, National Public Radio, Morning Edition, 4 April 2017
(8) Governing the World: The History of an Idea, Mark Mazower, Penguin, 2013, p 404
(9) ‘Friedrich Hayek: An interview’, El Mercurio, 12 April 1981
(10) World Development Report 1997: The State in a Changing World, World Bank, 1997
(11) Ibid, pp109, 117
(12) Ibid, pp8, 116-17
(13) Ibid, p3
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