Come Hitler abbatté la disoccupazione e fece rivivere l'economia tedesca
Ho già pubblicato due articoli dedicati alle politiche economiche del nazionalsocialismo in tempo di pace, nella convinzione che il necessario disprezzo per la repressione, la distruzione dei sindacati, le Camicie Brune, le Camicie Nere e i campi di concentramento, non debbano influire minimamente sulla valutazione della politica economica realizzata sotto la guida di Hitler (La soluzione "germanica" e asiatica alla depressione e alla moneta e Il miracolo economico della Germania negli anni '30) .
Quella politica economica potrebbe essere stata normalmente buona o straordinariamente efficace e giusta. Essa tuttavia va studiata, perché generò per Hitler un consenso immenso e stando all'articolo che segue – pieno di citazioni di autori antifascisti e antinazisti, di credenze liberal capitalistiche o liberal-progressiste o dichiaratamente democratico-progressiste – , recò al 99% dei tedeschi una prosperità che in precedenza non avevano e una fiducia in se stessi straordinaria. Incredibilmente la politica economica e i risultati, descritti nell'articolo, sembrano essere stati, non soltanto efficaci ma anche piuttosto giusti.
Fortunatamente non siamo ancora nelle condizioni che suggeriscano di utilizzare la politica economica nazionalsocialista. Ma la crisi avanza. In caso di crollo o nel caso di lento declino per un decennio, quella politica potrebbero servire. Soprattutto, per quanto possa apparire paradossale, sarebbe importante porsi gli obiettivi di politica economica che il governo tedesco perseguiva (SD'A).
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di Mark Weber dal sito Institute for Historical Review traduzione di Gianluca Freda Blogghete
“…Coloro che parlano di ‘democrazie’ e ‘dittature’, semplicemente non capiscono che in questo paese ha avuto luogo una rivoluzione, i risultati della quale possono essere considerati democratici nel senso più alto di questo termine, se la democrazia ha un concreto significato…”
(Discorso di Adolf Hitler al Reichstag, 30 gennaio 1937)
Per affrontare la massiccia disoccupazione e la paralisi economica della Grande Depressione, tanto il governo americano quanto quello tedesco lanciarono programmi innovativi e ambiziosi. Se le misure varate col “New Deal” del presidente Franklin Roosevelt offrirono un aiuto solo marginale, le politiche assai più ampie e mirate del Terzo Reich si rivelarono notevolmente più efficaci. In soli tre anni la disoccupazione era stata eliminata e l’economia della Germania era tornata a fiorire. E se il metodo utilizzato da Roosevelt per fronteggiare la depressione è abbastanza noto, la rimarchevole storia del sistema adottato da Hitler contro la crisi non è mai stata pienamente compresa o apprezzata.
Adolf Hitler divenne Cancelliere di Germania il 30 gennaio 1933. Poche settimane dopo, il 4 marzo, Franklin Roosevelt assunse la carica di Presidente degli Stati Uniti. Entrambi restarono capi degli esecutivi dei rispettivi paesi per i dodici anni che seguirono, fino cioè all’aprile 1945, poco prima della fine della II Guerra Mondiale in Europa. All’inizio del 1933, la produzione industriale in entrambi i paesi era crollata a circa metà di ciò che era stata nel 1929. Ciascun capo di stato adottò rapidamente nuove e coraggiose misure per fronteggiare la terribile crisi economica, soprattutto con riguardo al flagello della disoccupazione di massa. E sebbene vi siano alcune impressionanti similarità tra gli sforzi compiuti dai due governi, i risultati ottenuti furono molto diversi.
Uno dei più influenti e studiati economisti americani del ventesimo secolo è stato John Kenneth Galbraith. Fu consigliere di diversi presidenti e per un periodo ebbe l’incarico di ambasciatore americano in India. Fu autore di dozzine di libri e per anni insegnò economia presso l’Università di Harvard. Riguardo ai risultati ottenuti dalla Germania, Galbraith scrisse: “…L’eliminazione della disoccupazione in Germania durante la Grande Depressione, senza produrre inflazione – e facendo inizialmente affidamento sulle sole attività civili – fu una conquista straordinaria. E’ stata raramente encomiata e non molto sottolineata. L’idea che da Hitler non potesse venire niente di buono si estende alle sue politiche economiche, così come, più plausibilmente, ad ogni altra cosa”.
La politica economica del regime hitleriano, prosegue Galbraith, comprendeva “prestiti su larga scala per la spesa pubblica, all’inizio principalmente per opere civili: ferrovie, canali e le Autobahnen [la rete autostradale]. Il risultato fu un attacco alla disoccupazione che si rivelò molto più efficace che in qualsiasi altro paese industrializzato”. [1]
“Alla fine del 1935”, scrive ancora Galbraith, “la disoccupazione in Germania non esisteva più. Nel 1936 gli alti profitti facevano già salire i prezzi o rendevano possibile alzarli… Alla fine degli anni ’30, la Germania era un paese a piena occupazione e con prezzi stabili. Si trattò, nel mondo industrializzato, di un risultato assolutamente unico”. [2]
“Hitler riuscì anche ad anticipare le moderne politiche economiche”, nota l’economista, “riconoscendo che una rapida ripresa della piena occupazione sarebbe stata possibile solo se combinata con il controllo sui salari e sui prezzi. Non c’è da sorprendersi che una nazione oppressa dalle paure economiche rispondesse a Hitler come gli americani risposero a F.D.R.”. [3]
Altri paesi, scrive Galbraith, non furono in grado di comprendere l’esperienza tedesca o di imparare da essa: “L’esempio tedesco fu istruttivo ma non convincente. I conservatori britannici e americani guardavano alle eresie finanziarie del Nazismo – il prestito e la spesa – e prevedevano concordemente un collasso… E i liberali americani e i socialisti britannici guardavano la repressione, la distruzione dei sindacati, le Camicie Brune, le Camicie Nere, i campi di concentramento, l’oratoria strepitante, e ignoravano l’economia. Nulla di buono [essi credevano], nemmeno la piena occupazione, sarebbe potuto venire da Hitler”. [4]
Due giorni dopo aver assunto l’incarico di Cancelliere, Hitler si rivolse per radio alla nazione. Sebbene lui e altri leader del suo movimento avessero resa esplicita l’intenzione di riorganizzare la vita sociale, politica, culturale ed educativa della nazione in accordo con i princìpi nazionalsocialisti, tutti capivano che, con quasi sei milioni di disoccupati e l’economia del paese alla paralisi, la massima priorità del movimento era quella di rimettere in moto la vita economica nazionale, aggredendo anzitutto la disoccupazione ed edificando opere produttive.
“La miseria del nostro popolo è terribile da contemplare!”, disse Hitler nel suo discorso inaugurale. [5] “Accanto ai milioni di lavoratori dell’industria affamati e senza impiego, vi è l’impoverimento dell’intera classe media e degli artigiani. Se questo collasso dovesse infine distruggere anche i contadini tedeschi, ci troveremmo di fronte ad una catastrofe di dimensioni incalcolabili. Non sarebbe soltanto il collasso di una nazione, ma del retaggio, antico di duemila anni, di alcune tra le più grandi conquiste della cultura e della civiltà umana…”
Il nuovo governo, disse Hitler, avrebbe “intrapreso il grande compito di riorganizzare l’economia della nostra nazione per mezzo di due grandi piani quadriennali. I contadini tedeschi devono essere salvaguardati per garantire le necessità alimentari della nazione e, di conseguenza, la sua base vitale. L’operaio tedesco verrà salvato dalla rovina grazie ad un attacco concertato e a tutto campo contro la disoccupazione”.
“Entro quattro anni”, garantì, “la disoccupazione sarà definitivamente superata. […] I partiti marxisti e i loro alleati hanno avuto 14 anni per dimostrare ciò che erano in grado di fare. Il risultato è un cumulo di rovine. Ora, popolo di Germania, concedi a noi quattro anni di tempo e poi darai un giudizio su di noi!”.
Ripudiando le prospettive economiche nebulose e poco concrete di certi attivisti radicali del suo partito, Hitler si rivolse a uomini di provata capacità e competenza. Molto significativamente, chiese l’aiuto di Hjalmar Schacht, banchiere e finanziere di spicco con un impressionante curriculum tanto nell’imprenditoria privata quanto nel settore pubblico. Sebbene Schacht non fosse di certo un nazionalsocialista, Hitler lo nominò presidente della banca centrale tedesca, la Reichsbank, e poi ministro dell’economia.
Dopo avere assunto il potere, scrive il Prof. John Garraty, eminente storico americano, Hitler e il suo nuovo governo “lanciarono immediatamente un attacco a tutto campo contro la disoccupazione… Stimolarono l’industria privata attraverso sussidi e sgravi fiscali, incoraggiarono la spesa dei consumatori con strumenti quali i prestiti matrimoniali e si lanciarono in un massiccio programma di opere pubbliche che produsse autobahn [autostrade], abitazioni, ferrovie e progetti di navigazione”. [6]
I nuovi capi di regime riuscirono a convincere anche quei cittadini tedeschi che un tempo erano scettici e perfino ostili, della propria sincerità, capacità e risolutezza. Ciò accrebbe la fiducia e la sicurezza, il che a sua volta incoraggiò gli uomini d’affari a compiere assunzioni e investimenti e i consumatori a spendere con lo sguardo rivolto al futuro.
Come avevano promesso, Hitler e il suo governo nazionalsocialista eliminarono la disoccupazione entro quattro anni. Il numero di disoccupati scese dai sei milioni dell’inizio del 1933, quando Hitler era salito al potere, al milione del 1936. [7] Il tasso di disoccupazione si ridusse in modo così rapido che nel biennio 1937-38 si registrò una carenza nazionale di forza lavoro. [8]
Per la stragrande maggioranza dei tedeschi, i salari e le condizioni di lavoro andarono rapidamente migliorando. Tra il 1932 e il 1938 la paga settimanale lorda crebbe del 21%. Se si tiene conto delle trattenute fiscali e assicurative e degli adeguamenti al costo della vita, l’incremento degli introiti settimanali durante questo periodo fu del 14%. Allo stesso tempo, il prezzo degli affitti rimase stabile e vi fu un relativo calo dei costi della luce e del riscaldamento. Calarono anche i prezzi di alcuni beni di consumo, come apparecchi elettrici, orologi da muro e da polso e alcuni generi alimentari. Il salario degli operai continuò a crescere, anche dopo l’inizio della guerra. Nel 1943 la paga oraria media di un lavoratore tedesco era cresciuta del 25% e quella settimanale del 41%. [9]
La “normale” giornata lavorativa, per molti tedeschi, era di otto ore e la retribuzione per gli straordinari era generosa. [10] Oltre ai salari più alti, i benefici includevano anche il miglioramento delle condizioni di lavoro, ad esempio migliori condizioni sanitarie e di sicurezza, mense che fornivano pasti caldi, campi di atletica, parchi, recite teatrali e concerti sovvenzionati dalle aziende, mostre, gruppi sportivi ed escursionistici, balletti, corsi di educazione per adulti e gite turistiche pagate. [11] Il preesistente sistema di programmi sociali, che includeva le pensioni di anzianità e l’assistenza sanitaria, venne ampliato ulteriormente.
Hitler voleva che i tedeschi avessero “il più alto standard di vita possibile”, come disse in un’intervista rilasciata ad un giornalista americano all’inizio del 1934. “A mio giudizio, gli americani hanno ragione nel non voler porre tutti allo stesso livello, mantenendo invece il principio della scala. Però, ad ogni singolo cittadino deve essere garantita l’opportunità di poter salire i gradini di quella scala”. [12] Per tener fede a questa prospettiva, il governo di Hitler promosse la mobilità sociale, con ampie opportunità di crescita e di carriera. Come osserva il Prof. Garraty: “Non vi è ombra di dubbio che i nazisti incoraggiarono la mobilità sociale ed economica della classe lavoratrice”. Per promuovere l’acquisizione di nuove competenze, il governo ampliò a dismisura i programmi di avviamento professionale e offrì generosi incentivi per gli scatti di carriera dei lavoratori più efficienti. [13]
Tanto l’ideologia nazionalsocialista quanto la visione di Hitler, scrive lo storico John Garraty, “spingevano il regime a privilegiare il comune cittadino tedesco sui gruppi d’èlite. Gli operai… avevano un posto d’onore all’interno del sistema”. In linea con quest’idea, il regime concesse ai lavoratori sostanziosi benefici, che includevano mutui agevolati, escursioni a costi ridotti, programmi sportivi e ambienti di fabbrica più gradevoli. [14]
Nella sua dettagliata e critica biografia di Hitler, lo storico Joachim Fest riconosce: “Il regime insisteva che non doveva esserci il dominio di un’unica classe sociale sulle altre e – garantendo a ciascuno la possibilità di crescere – dimostrò nei fatti la sua neutralità di classe… Queste misure fecero realmente breccia nelle vecchie e pietrificate strutture sociali. Produssero il miglioramento delle condizioni materiali di gran parte della popolazione”. [15]
Bastano poche cifre a dare l’idea di quanto la qualità della vita fosse migliorata. Tra il 1932, ultimo anno dell’era pre-hitleriana, e il 1938, ultimo anno prima dello scoppio della guerra, il consumo di alimentari crebbe di un sesto, mentre il ricambio di abbigliamento e manufatti tessili aumentò di oltre un quarto, quello di arredamento e beni per la casa del 50 %. [16] Durante gli anni di pace del Terzo Reich, il consumo di vino crebbe del 50%, quello di champagne aumentò di cinque volte. [17] Tra il 1932 e il 1938, il volume degli introiti per le aziende turistiche risultò più che raddoppiato, mentre il numero di possessori di automobili triplicò nel corso degli anni ’30. [18] La produzione tedesca di veicoli a motore, che includeva automobili prodotte dalle aziende di proprietà statunitense Ford e General Motors (Opel), raddoppiò nei cinque anni tra il 1932 e il 1937, mentre l’esportazione di veicoli a motore tedeschi crebbe di otto volte. Il traffico aereo passeggeri in Germania aumentò di oltre il triplo tra il 1932 e il 1937. [19]
Le aziende tedesche rivivevano e prosperavano. Durante i primi quattro anni dell’era nazionalsocialista, il netto delle grandi aziende si era quadruplicato e le retribuzioni delle figure manageriali e imprenditoriali erano cresciute del 50 per cento. “E le cose sarebbero andate ancora meglio”, scrive lo storico ebraico Richard Grunberger nel suo studio dettagliato The Twelve-Years Reich. “Nei tre anni tra il 1939 e il 1942, l’industria tedesca ebbe uno sviluppo pari a quello avuto nei cinquant’anni precedenti”. [20]
Anche se le imprese tedesche prosperavano, i profitti venivano tenuti sotto controllo e contenuti per legge entro limiti moderati. [21] A partire dal 1934, i dividendi degli azionisti delle corporazioni tedesche vennero limitati al sei per cento annuale. I profitti non distribuiti venivano investiti in titoli del governo del Reich, che offrivano un interesse annuale del sei per cento, e poi, dopo il 1935, del quattro e mezzo per cento. Questa politica ebbe il prevedibile effetto di incoraggiare i reinvestimenti e l’autofinanziamento delle aziende, quindi di ridurre il ricorso ai prestiti bancari e, più in generale, di ridurre l’influenza del capitale commerciale. [22]
La tassazione fiscale per le grandi aziende venne rapidamente incrementata, dal 20 per cento del 1934, al 25 per cento del 1936, fino al 40 per cento del 1939-40. I direttori delle compagnie tedesche potevano offrire dei bonus ai propri manager, ma soltanto se tali bonus erano direttamente proporzionali ai profitti e se si dava contestualmente l’autorizzazione a corrispondere bonus o “contributi sociali volontari” anche agli impiegati. [23]
Tra il 1934 e il 1938, l’imponibile lordo degli imprenditori tedeschi crebbe del 148 per cento, e allo stesso tempo il totale delle imposizioni fiscali crebbe, durante questo periodo, del 232 per cento. Il numero di contribuenti nella fascia fiscale più alta – quelli che guadagnavano più di 100.000 marchi all’anno – crebbe, durante questo periodo, del 445 per cento. (All’opposto, il numero di contribuenti della fascia più bassa – quelli che guadagnavano meno di 1500 marchi all’anno – crebbe solo del 5 per cento). [24]
La tassazione, nella Germania nazionalsocialista, era strettamente “progressiva”, cioè chi aveva redditi più alti pagava proporzionalmente di più di chi si trovava nelle fasce più basse. Tra il 1934 e il 1938, la tassazione media sui redditi superiori a 100.000 marchi salì dal 37,4 al 38,2 per cento. Nel 1938, i tedeschi che si trovavano nella fascia di reddito più bassa erano il 49 per cento della popolazione e detenevano il 14 per cento del reddito nazionale, ma pagavano solo il 4,7 per cento delle tasse totali. Gli appartenenti alla categoria dei redditi più alti, che rappresentavano l’uno per cento della popolazione con il 21 % del reddito complessivo, pagavano il 45 per cento degli oneri fiscali complessivi. [25]
Gli ebrei costituivano circa l’un per cento del totale della popolazione tedesca, quando Hitler salì al potere. Se è vero che il nuovo governo provvide ben presto ad escluderli dalla vita culturale e politica della nazione, agli ebrei fu però consentito continuare a partecipare alla vita economica, per almeno sette anni. Di fatto, molti ebrei trassero beneficio dalle misure adottate dal regime a favore della ripresa e dalla generale crescita economica. Nel giugno 1933, ad esempio, Hitler approvò un massiccio investimento governativo di 14,5 milioni di marchi nell’azienda Hertie, una catena di negozi berlinese di proprietà ebraica. Questo “bail out” fu varato per impedire il fallimento dei fornitori e finanziatori della grande azienda e, soprattutto, dei suoi 14.000 dipendenti. [26]
Il Prof. Gordon Craig, che per anni ha insegnato storia alla Stanford University, sottolinea: “Nel campo dell’abbigliamento e del commercio al dettaglio, le aziende ebraiche continuarono ad operare con profitto fino al 1938; e a Berlino e ad Amburgo, in particolare, firme rinomate per gusto e reputazione continuarono ad attirare i propri clienti, nonostante fossero gestite da ebrei. Nel mondo della finanza, nessuna restrizione venne imposta alle attività delle aziende ebraiche alla Borsa di Berlino e fino al 1937 le firme bancarie di Mendelssohn, Bleichröder, Arnhold, Dreyfuss, Straus, Warburg, Aufhäuser, e Behrens rimasero in attività”. [27] Cinque anni dopo l’ascesa al potere di Hitler, il ruolo degli ebrei nella vita affaristica era ancora significativo e gli ebrei possedevano ancora un numero considerevole di proprietà immobiliari, soprattutto a Berlino. Tutto questo cambiò però drasticamente nel 1938, e alla fine del 1939 gli ebrei erano stati in larga parte esclusi dalla vita economica tedesca.
Il tasso di criminalità in Germania si ridusse durante gli anni di Hitler, con cali significativi nel numero di omicidi, rapine, ruberie, appropriazioni indebite e piccoli furti. [28] Il miglioramento della salute e dell’aspetto esteriore dei tedeschi impressionò molti stranieri. “La mortalità infantile è calata moltissimo ed è sensibilmente inferiore a quella della Gran Bretagna”, scriveva Sir Arnold Wilson, un funzionario britannico che visitò la Germania per sette volte dopo l’ascesa al potere di Hitler. “La tubercolosi e altre malattie sono notevolmente diminuite. Le corti di giustizia non hanno mai avuto così poco da fare e le prigioni non hanno mai avuto così pochi occupanti. E’ un piacere osservare la prestanza fisica della gioventù germanica. Perfino le persone più povere si vestono meglio di quanto facessero prima e i loro volti sorridenti testimoniano il miglioramento psicologico che ha agito dentro di loro”. [29]
L’incremento del benessere psico-emotivo dei tedeschi durante questo periodo fu notato anche dallo storico sociale Richard Grunberger. “Ci sono pochi dubbi”, scrisse, “che la presa di potere [dei nazionalsocialisti] abbia generato un miglioramento ad ampio raggio della salute emotiva; questo non è solo l’effetto della ripresa economica, ma anche di un accentuato senso d’identificazione dei tedeschi con una finalità nazionale”. [30]
Anche l’Austria sperimentò una crescita straordinaria dopo la sua ricongiunzione con il Reich Germanico del 1938. Subito dopo l’Anschluss (“unione”), i funzionari si mossero immediatamente per alleviare le difficoltà sociali e rivitalizzare l’economia moribonda. Gli investimenti, la produzione industriale, la costruzione di abitazioni, la spesa al consumo, il turismo e i livelli di vita crebbero rapidamente. Solo tra il giugno e il dicembre 1938, la paga settimanale dei lavoratori dell’industria austriaca crebbe del nove per cento. Il successo del regime nazionalsocialista nell’eliminare la disoccupazione fu così rapido che lo storico americano Evan Burr Burkey fu portato a definirlo “uno dei più significativi risultati economici della storia moderna”. Il numero dei disoccupati in Austria scese dal 21,7 % del 1937 al 3,2 % del 1939. Il Prodotto Nazionale Lordo austriaco salì del 12,8 per cento nel 1938 e di un incredibile 13,3 per cento nel 1939. [31]
Un’importante manifestazione della ritrovata fiducia nazionale fu il netto incremento del tasso di natalità. A un anno dall’ascesa al potere di Hitler, il tasso delle nascite in Germania fece un balzo del 22 per cento, raggiungendo il suo picco nel 1938. Rimase comunque alto perfino nel 1944, l’ultimo anno in cui la II Guerra Mondiale fu nel vivo. [32] Nella prospettiva dello storico John Lukacs, questo aumento esponenziale delle nascite fu l’espressione “dell’ottimismo e della fiducia” dei tedeschi durante gli anni di Hitler. “Per ogni due bambini nati in Germania nel 1932, quattro anni dopo ne nacquero tre”, egli scrive. “Nel 1938 e 1939, in Germania si registrò il più alto tasso di matrimoni di tutta Europa, surclassando perfino le cifre dei più prolifici popoli dell’Europa Orientale. Il fenomenale incremento del tasso di natalità tedesco durante gli anni ’30 fu perfino più impetuoso dell’aumento del numero di matrimoni”. [33] “La Germania Nazional-Socialista, caso unico tra i paesi di popolazione bianca, riuscì ad ottenere un incremento della fertilità”, nota il celebre storico americano, di origine scozzese, Gordon A. Craig, con un netto aumento del tasso di natalità dopo l’ascesa al potere di Hitler e un rapido incremento negli anni che seguirono. [34]
In un lungo discorso tenuto al Reichstag all’inizio del 1937, Hitler ricordò le promesse fatte quando il suo governo aveva assunto il potere. Spiegò anche i princìpi su cui erano fondate le sue politiche e ripercorse tutti i risultati raggiunti nel corso di quei quattro anni. [35] “…Coloro che parlano di ‘democrazie’ e ‘dittature’”, disse, “semplicemente non capiscono che in questo paese ha avuto luogo una rivoluzione, i risultati della quale possono essere considerati democratici nel senso più alto di questo termine, se la democrazia ha un concreto significato… La Rivoluzione Nazional-Socialista non ha puntato a trasformare una classe privilegiata in una classe che non avrà più diritti nel futuro. Il suo fine è stato quello di offrire eguali diritti a coloro che non avevano diritti… Il nostro obiettivo è stato quello di dare all’intero popolo germanico la possibilità di essere attivo, non solo in campo economico, ma anche in campo politico, e di garantire ciò coinvolgendo le masse in maniera organizzata… Durante gli ultimi quattro anni abbiamo fatto crescere la produzione tedesca in ogni settore a livelli straordinari. E questo incremento della produzione è andato a beneficio di tutti i tedeschi”.
In un altro discorso di due anni dopo, Hitler parlò brevemente delle conquiste economiche ottenute dal suo regime: [36] “Ho sconfitto il caos in Germania, ho ripristinato l’ordine, ho incrementato immensamente la produzione in tutti i settori della nostra economia nazionale, con sforzi strenui ho trovato il modo di rimpiazzare molti materiali di cui abbiamo carenza, ho incoraggiato le nuove invenzioni, sviluppato i commerci, ho fatto costruire strade poderose e fatto scavare canali, ho creato dal nulla fabbriche colossali e allo stesso tempo ho avuto cura di sviluppare l’educazione e la cultura del nostro popolo per il progresso della nostra comunità sociale. Sono riuscito ancora una volta a trovare lavori produttivi per quei sette milioni di disoccupati, che tanto ci stavano a cuore, facendo restare il cittadino germanico sul proprio suolo a dispetto di ogni difficoltà, e preservando questa stessa terra per lui, ripristinando la prosperità del commercio tedesco e promuovendo i traffici al massimo”.
Lo storico americano John Garraty mise a confronto la risposta americana e quella tedesca alla Grande Depressione in un discusso articolo pubblicato su American Historical Review. Scrisse: [37] “I due movimenti [cioè quello in USA e quello in Germania] reagirono comunque alla Grande Depressione in due modi diversi e distinti da quelli adottati in altre nazioni industrializzate. Fra i due, i nazisti ebbero il maggiore successo nel curare i mali economici degli anni ’30. Ridussero la disoccupazione e stimolarono la produzione industriale più velocemente degli americani e – considerate le risorse a loro disposizione – seppero gestire i loro problemi monetari e commerciali con maggiore efficacia, sicuramente con maggiore immaginazione. Questo fu dovuto in parte al fatto che i nazisti sfruttavano il finanziamento del deficit su più ampia scala e in parte al fatto che il loro sistema totalitario si prestava meglio alla mobilitazione sociale, ottenuta sia con la forza, sia con la persuasione. Nel 1936 la depressione, in Germania, era praticamente superata, mentre negli Stati Uniti era ancora lontana dalla conclusione”.
In effetti, il tasso di disoccupazione negli Stati uniti rimase alto fino a quando non intervenne lo stimolo della produzione bellica su larga scala. Ancora nel marzo 1940, il tasso di disoccupazione statunitense era quasi del 15 per cento. Fu la produzione bellica, non i programmi del “New Deal” di Roosevelt, a creare finalmente il pieno impiego. [38]
Il Prof. William Leuchtenburg, eminente storico americano, noto soprattutto per i suoi libri sulla vita di Franklin Roosevelt, riassunse i risultati ottenuti dal presidente in uno studio ampiamente acclamato: “Il New Deal lasciò irrisolti molti problemi e ne creò perfino di nuovi e intricati”, concludeva Leuchtenburg. “Non dimostrò mai di essere in grado di generare prosperità in tempo di pace. Ancora nel 1941, i disoccupati ammontavano a sei milioni di persone e fu solo con l’anno di guerra 1943 che questo esercito di senza impiego finalmente si dissolse”. [39]
Il contrasto tra i risultati economici conseguiti da USA e Germania negli anni ’30 risulta ancora più impressionante se si considera che gli Stati Uniti possedevano una ricchezza di gran lunga più vasta in termini di risorse naturali, incluse ampie riserve petrolifere, nonché una minor densità della popolazione e nessun vicino ostile e ben armato.
Un interessante paragone tra l’approccio americano e tedesco alla Grande Depressione comparve su un numero del 1940 del settimanale berlinese Das Reich. Col titolo “Hitler e Roosevelt: un successo tedesco, un tentativo americano”, l’articolo citava il “sistema democratico-parlamentare” come fattore chiave del fallimento dei tentativi dell’amministrazione Roosevelt di ripristinare la prosperità. “Noi [tedeschi] siamo partiti da un’idea e l’abbiamo tradotta in misure concrete senza badare alle conseguenze. L’America è partita da molte misure concrete che, non avendo coerenza intrinseca, coprivano ogni ferita con una benda particolare”. [40]
Le politiche hitleriane avrebbero potuto funzionare negli Stati Uniti? Tali politiche sono probabilmente più efficaci in paesi quali Svezia, Danimarca e Olanda, che possiedono una popolazione dotata di buona cultura, autodisciplina e coesione etnico-culturale, nonché un’etica “comunitaria” tradizionalmente forte, con un corrispondente alto livello di fiducia sociale. Le politiche economiche di Hitler sarebbero state meno adatte agli Stati Uniti e ad altre società con una popolazione differenziata sul piano etnico-culturale, una tradizione del “laissez-faire” marcatamente individualistica e di conseguenza uno spirito “comunitario” più debole. [41]
Lo stesso Hitler una volta fece un illuminante paragone tra i sistemi socio-economico-politici di Stati Uniti, Unione Sovietica e Germania. In un discorso della fine del 1941, disse: [42]
“Ora abbiamo conosciuto due estremi [socio-politici]. Uno è quello degli stati capitalisti, che utilizzano le menzogne, la truffa e il raggiro per negare ai loro popoli i diritti vitali più basilari e che si preoccupano esclusivamente dei propri interessi finanziari, in nome dei quali sono pronti a sacrificare milioni di persone. Dall’altro lato abbiamo visto [in Unione Sovietica] l’estremo comunista: uno stato che ha portato miseria indicibile a milioni e milioni di individui e che, per seguire la sua dottrina, sacrifica la felicità altrui. Da questo, a mio avviso, nasce per noi tutti un solo dovere, e cioè quello di protenderci più che mai verso il nostro ideale nazionale e socialista… In questo stato [tedesco] il principio prevalente non è, come nella Russia Sovietica, il principio della cosiddetta eguaglianza, ma soltanto il principio della giustizia”.
David Lloyd George, che fu primo ministro britannico durante la Prima Guerra Mondiale, compì un lungo itinerario in Germania alla fine del 1936. In un articolo successivamente pubblicato in uno dei principali quotidiani londinesi, lo statista inglese raccontò ciò che aveva visto e sperimentato: [43]
“Qualsiasi cosa si possa pensare dei suoi [di Hitler] metodi”, scriveva Lloyd George, “i quali non sono certo quelli di una nazione parlamentare, non vi è dubbio che egli sia riuscito ad ottenere una meravigliosa trasformazione nello spirito della sua gente, nel loro atteggiamento reciproco e nelle loro prospettive sociali ed economiche.
“A Norimberga ha affermato correttamente che in quattro anni il suo movimento è riuscito a creare una nuova Germania. Non è più la Germania del primo decennio del dopoguerra, spezzata, affranta e china sotto un sentimento d’apprensione e impotenza. Ora essa è piena di speranza e fiducia, e di una rinnovata determinazione a condurre la propria vita senza interferenze da parte di qualunque autorità esterna alle sue frontiere.
“Per la prima volta dopo la guerra vi è un diffuso senso di sicurezza. Le persone sono più allegre. C’è un maggior senso di diffusa gaiezza d’animo in tutto il paese. E’ una Germania più felice. L’ho notato dappertutto e alcuni inglesi incontrati durante il mio viaggio, i quali conoscono bene la Germania, si sono detti molto impressionati da questo cambiamento”.
“Questo grande popolo”, ammoniva ancora l’anziano statista, “lavorerà più duramente, sacrificherà di più e, se necessario, combatterà con maggiore determinazione perché è Hitler a chiedergli di farlo. Coloro che non comprendono questo fatto basilare, non possono valutare le reali possibilità della moderna Germania”.
Benché il pregiudizio e l’ignoranza abbiano impedito una più diffusa conoscenza e comprensione delle politiche economiche di Hitler e del loro impatto, il suo successo nell’economia è stato sempre riconosciuto dagli storici, anche da quegli studiosi che sono in genere molto critici verso il leader tedesco e le politiche del suo regime.
John Lukacs, storico americano di origine ungherese, i cui libri hanno sempre suscitato molti commenti e approvazioni, ha scritto: “Le conquiste di Hitler, sul piano nazionale più che su quello estero, durante i sei anni [di pace] in cui fu a capo della Germania, furono straordinarie… Egli portò ai tedeschi prosperità e fiducia, quel tipo di prosperità che è il risultato della fiducia. Gli anni ’30, dopo il 1933, furono per molti tedeschi anni di gioia; qualcosa che rimase nei ricordi di un’intera generazione”. [44]
Sebastian Haffner, influente storico e giornalista tedesco che fu critico feroce del Terzo Reich e della sua ideologia, esaminò la vita e l’eredità di Hitler in un suo libro molto discusso. Sebbene il suo ritratto del leader tedesco in The Meaning of Hitler sia molto negativo, l’autore scrive ugualmente: [45]
“Fra i risultati positivi ottenuti da Hitler quello che eclissò tutti gli altri fu il suo miracolo economico”. Mentre il resto del mondo annaspava ancora nella paralisi economica, Hitler aveva reso “la Germania un’isola di prosperità”. Nell’arco di tre anni, continua Haffner, “il bisogno disperato e la povertà di massa si erano generalmente trasformate in una modesta ma confortevole prosperità. Quasi altrettanto importante: l’impotenza e la disperazione avevano lasciato il posto alla fiducia e alla sicurezza di sé. Ancor più miracoloso fu il fatto che la transizione dalla depressione al boom economico fu ottenuta senza generare inflazione, a prezzi e salari totalmente stabili… E’ difficile farsi un quadro adeguato della riconoscente meraviglia con cui i tedeschi reagirono a quel miracolo, il quale, nello specifico, fece sì che ampie percentuali di lavoratori tedeschi passassero, dopo il 1933, dal sostegno ai Social Democratici e ai Comunisti a quello verso Hitler. Questa riconoscente meraviglia dominò completamente l’umore delle masse tedesche tra il 1936 e il 1938…”.
Joachim Fest, un altro eminente storico e giornalista tedesco, esaminò la vita di Hitler in una biografia minuziosa e acclamata. “Se Hitler fosse rimasto vittima di un assassinio o di un incidente alla fine del 1938”, egli scrisse, “pochi esiterebbero a ricordarlo come uno dei più grandi statisti tedeschi, come il coronamento della storia germanica”. [46] “Nessun osservatore obiettivo della scena tedesca potrebbe mai negare i considerevoli successi di Hitler”, scriveva lo storico americano John Toland. “Se Hitler fosse morto nel 1937 o nel quarto anniversario della sua ascesa al potere… sarebbe stato senza dubbio ricordato come una delle più grandi figure della storia germanica. Aveva milioni di ammiratori in tutta Europa”. [47]
NOTE
1. J. K. Galbraith, Money (Boston: 1975), pp. 225-226.
2. J. K. Galbraith, The Age of Uncertainty (1977), pp. 214.
3. J. K. Galbraith, in The New York Times Book Review, 22 aprile 1973. Citato in: J. Toland, Adolf Hitler (Doubleday & Co., 1976), p. 403 (note).
4. J. K. Galbraith, The Age of Uncertainty (1977), pp. 213-214.
5. Discorso di Hitler alla radio, “Aufruf an das deutsche Volk,” 1 febbraio 1933.
6. John A. Garraty, “The New Deal, National Socialism, and the Great Depression,” su “The American Historical Review”, Ottobre 1973 (Vol. 78, No. 4), pp. 909-910.
7. Gordon A. Craig, Germany 1866-1945 (New York: Oxford, 1978), p. 620.
8. Richard Grunberger, The Twelve-Year Reich: A Social History of Nazi Germany, 1933-1945 (New York: Holt, Rinehart and Winston, 1971), p. 186. Pubblicato la prima volta in Inghilterra col titolo: A Social History of the Third Reich.
9. R. Grunberger, The Twelve-Year Reich (1971), p. 187; David Schoenbaum, Hitler’s Social Revolution (Norton,1980 [softcover]), p. 100.
10. David Schoenbaum, Hitler’s Social Revolution (Norton,1980), p. 101.
11. David Schoenbaum, Hitler’s Social Revolution (Norton,1980 [softcover]), pp. 100, 102, 104; Lo storico Gordon Craig scrive: “Oltre a questi risultati innegabili [cioè il miglioramento della qualità della vita], i lavoratori tedeschi ricevettero dallo stato sostanziosi benefici supplementari. Il partito condusse una campagna sistematica e di incredibile successo per il miglioramento delle condizioni di lavoro negli impianti industriali e commerciali, con periodiche iniziative studiate non solo per far sì che i regolamenti sulla salute e sulla sicurezza venissero implementati, ma anche per favorire la rottura della monotonia derivante dallo svolgere tutti i giorni gli stessi compiti lavorativi, con diversivi quali musica, attività nelle serre e premi speciali per i migliori risultati raggiunti”, G. Craig, Germany 1866-1945 (Oxford, 1978), pp. 621-622.
12. Intervista a Louis Lochner, corrispondente della Associated Press a Berlino. Citato in: Michael Burleigh, The Third Reich: A New History (New York: 2000), p. 247.
13. G. Craig, Germany 1866-1945 (Oxford, 1978), p. 623; John A. Garraty, “The New Deal, National Socialism, and the Great Depression,” “The American Historical Review”, Ottobre 1973 (Vol. 78, No. 4), pp. 917, 918.
14. J. A. Garraty, “The New Deal, National Socialism, and the Great Depression,” The American Historical Review, Ottobre 1973, pp. 917, 918.
15. Joachim Fest, Hitler (New York: 1974), pp. 434-435.
16. R. Grunberger, The Twelve-Year Reich (New York: 1971 [hardcover ed.]), p. 203.
17. R. Grunberger, The Twelve-Year Reich (1971), pp. 30, 208.
18. R. Grunberger, The Twelve-Year Reich (1971), pp. 198, 235.
19. G. Frey (Hg.), Deutschland wie es wirklich war (Munich: 1994), pp. 38. 44.
20. R. Grunberger, The Twelve-Year Reich (1971), p. 179.
21. D. Schoenbaum, Hitler’s Social Revolution (1980), pp. 118, 144.
22. D. Schoenbaum, Hitler’s Social Revolution (1980), pp. 144, 145; Franz Neumann, Behemoth: The Structure and Practice of National Socialism 1933-1944 (New York: Harper & Row, 1966 [softcover] ), pp. 326-319; R. Grunberger, The Twelve-Year Reich (1971), p. 177
23. R. Grunberger, The Twelve-Year Reich (1971), p. 177; D. Schoenbaum, Hitler’s Social Revolution (Norton,1980), p.125.
24. D. Schoenbaum, Hitler’s Social Revolution (1980), pp. 148, 149.
25. D. Schoenbaum, Hitler’s Social Revolution (1980), pp. 148, 149. (Come paragone, fa notare Schoenbaum, gli oneri fiscali per la fascia più alta nella Repubblica della Germania Federale del 1966 erano circa del 44 per cento.)
26. D. Schoenbaum, Hitler’s Social Revolution (1980), p. 134.
27. G. Craig, Germany 1866-1945 (Oxford, 1978), p. 633.
28. R. Grunberger, The Twelve-Year Reich (1971), pp. 26, 121; G. Frey (Hg.), Deutschland wie es wirklich war (Munich: 1994), pp. 50-51.
29. Citato in: J. Toland, Adolf Hitler (Doubleday & Co., 1976), p. 405. Fonte: Cesare Santoro, Hitler Germany (Berlin: 1938).
30. R. Grunberger, The Twelve-Year Reich (1971), p. 223.
31. Evan Burr Bukey, Hitler’s Austria (Chapel Hill: 2000), pp. 72, 73, 74, 75, 81, 82, 124. (Bukey è professore di storia presso l’Università dell’Arkansas.)
32. R. Grunberger, The Twelve-Year Reich (1971), pp. 29, 234-235.
33. John Lukacs, The Hitler of History (New York: Alfred A. Knopf, 1997), pp. 97-98.
34. G. Craig, Germany 1866-1945 (Oxford, 1978), pp. 629-630.
35. Hitler, Discorso al Reichstag del 30 gennaio 1937.
36. Hitler, discorso al Reichstag del 28 aprile 1939.
37. John A. Garraty, “The New Deal, National Socialism, and the Great Depression,” The American Historical Review, Ottobre 1973 (Vol. 78, No. 4), p. 944. (Garraty ha insegnato storia presso la Michigan State University e la Columbia University, e ha ricoperto la carica di presidente della Società degli Storici Americani.)
38. John A. Garraty, “The New Deal, National Socialism, and the Great Depression,” The American Historical Review, Ottobre 1973 (Vol. 78, No. 4), p. 917, incl. n. 23. Garraty scriveva: “Di certo il pieno impiego non fu mai raggiunto in America finché l’economia non passò alla piena produzione bellica… La disoccupazione in America non scese mai molto al di sotto della cifra di otto milioni durante gli anni del New Deal. Nel 1939 circa 9.4 milioni di persone erano senza lavoro e al momento del censimento del 1940 (a marzo) i disoccupati erano ancora 7.8 milioni, quasi il quindici per cento della forza lavoro”.
39. William E. Leuchtenburg, Franklin Roosevelt and the New Deal (New York: Harper & Row, 1963 [softcover]), pp. 346-347.
40. Da Das Reich, 26 maggio 1940. Citato in John A. Garraty, “The New Deal, National Socialism, and the Great Depression,” The American Historical Review, Ottobre 1973, p. 934. Fonte citata: Hans-Juergen Schröder, Deutschland und die Vereinigten Staaten (1970), pp. 118-119.
41. Durante una visita a Berlino negli anni ’30, l’ex presidente americano Herbert Hoover s’incontrò col Ministro delle Finanze di Hitler, il Conte Lutz Schwerin von Krosigk, che gli espose nei particolari le politiche economiche del suo governo. Pur riconoscendo che tali misure erano benefiche per la Germania, Hoover espresse l’idea che esse non sarebbero state adatte agli Stati Uniti. Livelli salariali definiti dal governo e politiche dei prezzi, egli riteneva, sarebbero stati contrari all’idea americana di libertà individuale. Vedi: Lutz Graf Schwerin von Krosigk, Es geschah in Deutschland (Tübingen/ Stuttgart: 1952), p. 167; L’influente economista britannico John Maynard Keynes scrisse nel 1936 che le sue politiche “Keynesiane”, che in certa misura furono adottate dal governo di Hitler, “si adattavano molto più facilmente alle condizioni di uno stato totalitario” piuttosto che ad un paese in cui prevalessero “condizioni di libera competizione e un ampio livello di laissez-faire”. Citato in: James J. Martin, Revisionist Viewpoints (1977), pp. 187-205 (Vedi anche: R. Skidelsky, John Maynard Keynes: The Economist as Savior 1920-1937 [New York: 1994], p. 581.); Ricerche degli anni recenti evidenziano che una maggiore differenziazione etnica riduce il livello della fiducia sociale e l’attuabilità delle politiche di welfare. Vedi: Robert D. Putnam, “E Pluribus Unum: Diversity and Community in the Twenty-first Century,” Scandinavian Political Studies, giugno 2007. Vedi pure: Frank Salter, Welfare, Ethnicity, and Altruism (Routledge, 2005)
42. Hitler, discorso a Berlino, 3 ottobre 1941.
43. Daily Express (Londra), 17 Nov. (o Sett.?) 1936.
44. John Lukacs, The Hitler of History (New York: Alfred A. Knopf, 1997), pp. 95-96
45. S. Haffner, The Meaning of Hitler (New York: Macmillan, 1979), pp. 27-29. Pubblicato per la prima volta nel 1978 col titolo Anmerkungen zu Hitler. Vedi anche: M. Weber, “Sebastian Haffner's 1942 Call for Mass Murder,” The Journal of Historical Review, Autunno 1983 (Vol. 4, No. 3), pp. 380-382.
46. J. Fest, Hitler: A Biography (Harcourt, 1974), p. 9. Citato in: S. Haffner, The Meaning of Hitler (1979), p. 40.
47. J. Toland, Adolf Hitler (Doubleday & Co., 1976), pp. 407. 409.
Per inquadrare la faccenda:
Nel 1934 la Germania aveva già iniziato a riarmarsi. In pratica stava preparando una guerra d' aggressione. Nello stesso anno il cancelliere austriaco Dolfuss era già stato fatto uscire da un balcone.
Nel contempo la stretta impressa alle libertà individuali era già quella caratteristica delle dittature.
Non ho ancora recuperato dati disaggregati, ma se tanto mi da tanto é presumibile che gli ex disoccupati avessero trovato impiegato per metà nell' industria bellica e per l' altra metà nell' esercito
Evidenzio altresì che l' incremento del tasso di natalità citato a dimostrazione di un senso di fiducia e ottimismo é caratteristico anche dei contesti in cui si sono verificati eventi catastrofici dunque: In previsione di CHE evento i lemmings tedeschi si stavano riproducendo all' impazzata? Magari in previsione dell' annientamento di Dresda?
Mah…
Personalmente io non ci conterei molto su Adolfo mentore e problem-solver al quale ispirarsi nella situazione attuale.
Ahahahah…
Questa è veramente bella…
Non credevo che per aumentare il reddito della gente fosse sufficiente reclutare nell’esercito una metà dei disoccupati…e nell’industria bellica l’altra metà…
Ma ti rendi conto di cosa hai scritto?
Ingrossare l’esercito e produrre cannoni non fa aumentare il reddito pro-capite!
Se il reddito dei tedeschi negli anni 30 è aumentato…le ragioni sono altre.
Magari fosse così semplice far diventare ricco un paese…
E poi…ti dò una notizia…gli alleati hanno vinto la guerra…e se non erro anche loro producevano cannoni (molti di più dei tedeschi) e reclutavano giovani nelle forze armate…ma non mi risultano boom economici in Gran Bretagna…
Invito tutti a ragionare…
Guarda, tu evidentemente non hai capito niente ma nemmeno hai letto e soprattutto compreso l’articolo, anche se ritengo sia del tutto inutile. Capisci che la questione circa lo scoppio della seconda guerra mondiale fu come attualmente è in essere circa la questione del covid: mero pretesto pur di imporre un regime tirannico sovra nazionale e mondiale finanziario ergo, meri pretesti atti a legittimare quel potere che, contrariamente, non potrebbe affermarsi ed instaurarsi prepotentemente al di sopra dei governi delle nazioni, se non attraverso azioni vili e menzognere. Pertanto amico, fattene una ragione anzi, credo a questo punto, anche più d’una.
P.s.Suppongo tu non conosca minimamente cosa sia la Proprietà Popolare della Moneta, motivo per cui Adolf Hitler, stampando il Marco tedesco e regalandolo al suo popolo, prima nazionalizzando la ReichsBank, fece incazzare i banchieri tanto da far scoppiare una guerra mondiale.
Paolo, qualche dato, da verificare, lo trovi nei due articoli che ho linkato. Leggi anche i commenti. Ho avuto sul punto una lunga discussione con Tonguessy, che forse può essere utile.
Gli autori citati nell'articolo sono, almeno per la parte che riesco a identificare, tutti antinazisti. J. K. Galbraith, , in particolare era presente in ogni biblioteca degli intellettuali di sinistra negli anni settanta. Non dobbiamo scambiare i lavori forzati con il lavoro forzato (se c'è un posto di lavoro e tu sei senza lavoro vai la lavorare là), perché "a ciascuno secondo i propri bisogni e da ciascuno secondo le proprie possibilità" era il principio supremo del comunismo. Prezzi degli affitti calmierati. Ecc ecc.
In ogni caso, c'era una buona progressività delle imposte. La regola del 6% massimo di utili è interessante. Forzati o non forzati sembra che i salari salirono più dei profitti. Il 5% di incremento di lavoratori con il reddito minimo, tenuto conto di una crescita dell'occupazione del 20%, indica una buona percentuale di lavoratori con il reddito minimo che lo videro crescere. Un dato pacifico sembra essere costtuito da un enorme spesa pubblica che non creò inflazione (è perciò importante indagare i meccanismi di spesa. Nell'articolo di Sylos Labini trovi qualche indicazione).
Forse la spiegazione del popolo economicamente soddisfatto è più verosimile di quella del popolo di invasati che seguì un folle!
Insomma ci hanno tritao gli attributi con il new deal e poi abbiamo scoperto che non servì a nulla, perché fu necessaria la guerra. Ora scopriamo che quello che doveva essere il,loro alleato e che soltanto dopo il 38 divenne il loro nemico (dovettero organizzare una grande campagna mediatica per mutare l'opinione che avevano formato nella testa della gente – il mostro prima era stalin) era riuscito meglio di loro – secondo il punto di vista dei conservatori lberali e secondo il punto di vista dei progressisti antifascisti – a sconfiggere la disoccupazione e ad uscire dalla grande crisi. Mi sembra poi pacifico che gli storici e gli economisti citati nell'articolo diano per pacifico che l'economia negli anni 33-37 non fosse né interamente, né in gran parte, né in una parte straordinaria rispetto a ciò che è consueto negli Stati Uniti, legata alla guerra.
più dei profitti
Stefano, questa serie sui successi economici del Nazismo ha un po’ stancato. Perché non ne inauguri una sui trionfi del Piccolo Padre, che trovò un Terzo Mondo ante litteram e lo trasformò in una super-potenza nucleare? Tanto, per l’infame storiografia odierna i due baffuti pari sono.
Non sarà che questa faccenda della florida economia nazional socalista é una sorta di "esperimento di Milgram" in cui si verifica la capacità di modificare i parametri di giudizio dei lettori?
http://it.wikipedia.org/wiki/Esperimento_Milgram
Alcuni sostengono che siamo già in una depressione, che durerà anni e che vedrà lentamente scendere produzione e occupazione. Il FMI prevede che nei prossimi due anni il PIL scenderà del 5% (in linea con molte nazioni europee). Molti temono l'esplosione della bolla del credito, che comportebbe una gravissima riduzione della produzione e dell'occupazione. Nell'immediato, non sembrano emergere linee di politica economica alternativa. Potremmo trovarci a dover uscire da una situazione grave. Di quali esperienze storiche siete a conoscenza e che potrebbero essere utile studiare e che testimoniano la capacità di uscire con celerità da una grave depressione?
Io sono venuto a sapere soltanto di recente di questa ipotesi sulla efficacia e giustizia della politica economica nazional socialista. E mi ha incuriosito. Nessuna volontà di voler modificare i parametri di giudizio su altri profili della politica nazional socialista (imperialismo, razzismo). Semplicemente sono sempre più consapevole del ruolo che svolge e ha svolto la propaganda. Se ne siete consapevoli, allora sarete anche voi certi che una quantità enorme di propaganda, di falsità e di reticenze fu diretta nel dopo guerra contro gli sconfitti. Sicché se nei fascismi vi fu qualche lato positivo, questo fu sistematicamente nascosto. A chi giova continuare a tenere la testa sotto terra?
Per recare un esempio italiano, sono sempre rimasto stupito dal fatto che il Fascismo italiano fece svolgere un ruolo di primo piano ad Alberto Beneduce, che era e rimase socialista, al quale si deve l'IRI e l'eccellente legge banccaria; o del fatto che invaricò Calamandrei di redigere il nuovo codice di procedura civile; o che lasciò come rettore dell'università di Padova l'antifascista Concetto Marchesi (pur senza sapere che era comunista). Così come rimasi enormemente sorpreso quando lessi i nomi di coloro che furono finanziati dal ministero della cultura fascista (i miglori giornalisti, scrittori e intellettuali, molti dei quali divennero bandiere dell'antifascismo nel dopo guerra – mica come la democrazia che finanzia Vanzina!). Perchè non dovremmo andare alla ricerca dello spirito pubblico o senso del dovere o volontà di premiare i migliori o desiderio servirsi degli ingegni della nazione che un tempo fu diffuso nella classe dirigente del nostro paese (ovviamente, venivano tenuti fuori coloro che contestavano apertamente il regime)?
Giornalisti e (pretesi) intellettuali di regime (quello attuale) si affannano a negare che dalle esperienze che essi qualificano con l'aggettivo "totalitarie" possa mai essere derivato qualche cosa di buono, con il corollario, che in realtà è l'obiettivo di questi intellettuali organici moderni, di circoscrivere la storia alle esperienze delle democrazie liberali, magari escludendo quelle in cui era troppo presente lo stato nell'economia, per la presenza dei comunisti nella dialettica politica o per il retaggio di forme di fascismo.
Perché noi dovremmo schierarci al fianco dei giornalisti e degli intellettuali di regime?
nessun esperimento di Milgram, per quanto mi riguarda. E' che nei 66 anni trascorsi dalla fine della guerra molte cose sono accadute e la verità storica non è mai definitiva, soprattutto quando ciò che avviene dopo fa impallidire la tragedia avvenuta prima. E' bene scollarsi dalla testa le mezze verità sulla Germania e sul Nazismo che ci hanno condizionato per mezzo secolo: è ora di ammettere che i presupposti della seconda guerra furono stabiliti con perfida consapevolezza dai vincitori liberali della prima guerra al tavolo della pace (!) di Versailles. Le potenze dell’Intesa, assai più rapaci e sanguinarie degli “Imperi centrali” (si pensi al genocidio commesso in Congo dal “povero Belgio”) furono anche allora mediaticamente molto efficienti nel vendere al mondo la favola della “barbarie teutonica” ,presentandosi come paladine dell’umanità: la Francia soprattutto, vera mestatrice e madrina della guerra europea. Molti ci cascarono, da Kropotkin a Mussolini, il primo in buona fede, il secondo in realtà fu comprato dai francesi. Il popolo tedesco, che più di tutti aveva sperato nella nuova era, nella pace giusta, “senza vincitori né vinti” (in quel frangente fu un popolo “anarchico” più che teutonico, il cui esercito si ammutinò e si sbarazzò del Kaiser con una pedata nel sedere) fu accusato di ogni colpa e pagò tutto con la rovina economica più totale. La socialdemocrazia tedesca, che aveva sostenuto il Kaiser nella guerra, nel dopoguerra si incaricò di schiacciare nel sangue i conati di rivoluzione comunista e poi si fece serva dei vincitori (repubblica di Weimar) dimostrandosi altresì totalmente inetta di fronte alla crisi del ’29 che portò la disoccupazione alle stelle. C’è da stupirsi dell’avvento di Hitler? E perché negare i suoi successi politici ed economici e stupirsi poi del fatto che i tedeschi lo abbiano seguito fino alla fine? Il suo errore e crimine, madornale e fatale, fu quello di aggredire l’Unione Sovietica, spinto da altrettanto criminali motivazioni ideologiche e razziali, anticomuniste e antislave. Questi, in estrema sintesi, i “parametri di giudizio” oggettivi e non adulterati dalle convenienze dei vincitori della guerra fredda.
L’aggressione dell’URSS non fu un errore. Un Hitler che non compie quell’atto e’ come un sole che non tramonta, o una mela che non si schianta a terra dopo essersi staccata dal ramo. Hilter e’ l’attacco all’URSS, e tutta la sua politica -sin dall’inizio!- era tesa verso quel fine. Perciò non si tratto di errore, ma della logica maturazione di una vicenda politica. Descriverlo come un errore sembra servire ad una maldestra operazione di “riciclaggio” del nazismo, previa raccolta differenziata dei lati positivi -ad esempio la lotta alla disoccupazione- dai lati negativi -gli “errori”.
Maldestro e poco onesto è il tentativo di farmi apparire come “ricilclatore” (!) del Nazismo tagliando a metà alcune delle cose che ho scritto e ignorando le altre. Ho parlato di errore e crimine (non solo di errore!) a proposito dell’aggressione all’Urss (non dell’Urss come scrivi tu, è bene correggere la svista perché di questi tempi qualche allocco potrebbe scambiare facilmente l’aggressore con la vittima). Crimine dal punto di vista etico, che è fondamentale nel giudizio storico e politico, errore dal punto di vista strategico (cioè dal suo stesso punto di vista) viste le disastrose conseguenze militari. Ho poi aggiunto: spinto da altrettanto criminali motivazioni ideologiche e razziali, anticomuniste e antislave. Cosa vuoi di più, in dieci righe?
Quanto alla raccolta differenziata dei rifiuti (felice espressione di cui ti do atto) , beh, altro non è che la molla di ogni approfondimento storico, l’importante è che la cernita sia fatta in modo onesto e non truffaldino, cioè senza taroccare i dati o i documenti e non mi pare che i dati messi in luce da Stefano siano taroccati.
Luciano
Sì, sono maldestro, disonesto e il mio passatempo preferito è pestare a sangue gattini di pochi mesi. Tu invece non ripetere l’errore di scrivere che l’aggressione dell’URSS (non meniamola con gli articoli, ok?) fu un errore e andremo d’accordo.
Claudio,
credo che tu e Luciano non vi stiate intendendo. Un punto certo è che si sia trattato di un errore dal punto di vista della Germania, considerato che Hitler era caduto in una falsa rappresentazione della realtà, poiché era convinto che l'URSS sarebbe caduta con facilità; e invece i due terzi dei carrarmati tedeschi furono distrutti sul fronte orientale (è l'URSS che ha sconfitto la Germania, più che gli stati uniti).
Tuttavia mi sembra che tu sostenga che l'ideologia di Hitler e la volontà di espandersi ad est avrebbero comunque condotto, prima o poi, la germania ad attaccare l'Unione sovietica. Questo credo che sia vero, in astratto, anche se i tre nemici di Hitler erano la democrazia liberale, il capitalismo e il bolscevismo. Non mi sembra che ciò escluda che si sia trattato di errore. Poteva aspettare qualche anno (magari avrebbe avuto l'atomica); poteva modificare l'ordine secondo il quale attaccare gli avversari. Poteva attendere un decennio. Insomma, direi che nessuno possa negare che l'aggressione dell'URSS fu un madornale errore della Germania. Anche lo scontro tra USA e Cina è inevitabile se uno dei due colossi non implode. Ma questo non vuol dire che agli Stati Uniti convenga aggredire la Cina oggi, anziché in seguito e magari tra dieci o venti anni. O che non sia preferibile per gli USA "attaccare" in modo soft (servizi segreti, rivoluzioin colorate, creazione di un popolo di consumatori individualisti liberali cinesi e così via).
Bho. Io penso che i nemici del Nazismo fossero il Bolscevismo, il Bolscevismo e il Bolscevismo.
Ma ne riparleremo
Non sono d’accordo con le vostre idee sull’attacco Tedesco contro l’urss. è provato che la Russia nel giugno 1941 stava ammassando le sue forze ai confini della Germania.
Da quello che ho letto (riscontrando il tutto su parecchi libri) sembra che i primi successi tedeschi furono dovuto proprio al fatto che i Russi erano in una fase di preparazione/trasporto:
1) L’aeronautica Russa era nelle sue basi prossime ai confini con gli aerei in manutenzione, i carri armati erano sui treni, i soldati stavano spostandosi vicino alla frontiera.
è storia sapere che i primi giorni/settimane per i russi sia stato un “macello” poi però quando si sono ripresi allora hanno incominciato a difendersi.
Fate uno studio e vedete quante perdite hanno avuto i russi i primi giorni, non vi viene in mente che per avere cosi tante perdite l’unica possibilità era quella di tenere le forze vicino al fronte ? a fare chè mi chiedo ? Quindi Hitler fu “costretto” ad attaccare il 22 giugno. Era l’unica possibilità che restava alla Germania di sopravvivere alla furia rossa. Certo avrebbe potuto aspettare che il primo colpo l o sparassero i russi. Ma sarebbe stato troppo pericoloso !!!!
Non ho una grande opinione di Freda, e non mi stupisce che pubblichi cose di questo tipo. Mi stupisce invece che vengano pubblicate qui, in questo sito.
Nella mia serie sul Cartello Petrolchimico ho cercato di mettere sotto la lente di ingrandimento il fatto che Hitler ed il nazismo tutto (differentemente dal fascismo) fossero delle marionette in mano ai grossi gruppi industriali (la tedesca IG Farben, che diventa poi Hoechst, Merck, Basf, Bayer etc..) nazionali e non.
Avendo anche tentato un approccio storico che smentisce nei fatti quanto sostenuto nell'articolo (fosse anche Galbraith stesso che lo dice, chissenenfrega), approccio che evidentemente non ha sortito risultato alcuno, provo a spostare l'intervento nazista degli anni pre SGM ai giorni nostri in Italia.
Disoccupazione: prima di tutto si toglie la cittadinanza alle migliaia di persone di etnia diversa dall'italica. Così facendo si sistemano due cose: si tolgono dalle liste di disoccupazione "ospiti" indesiderati e si liberano posti di lavoro per gli italici. Ah, la Lega lo sta già facendo, dite?
I disoccupati e cassintegrati vengono assorbiti per sistemare la Salerno Reggio Calabria, per fare le terze corsie nelle autostrade a sole due corsie, e per costruire quelle autostrade previste. Non percepiscono nulla, se non cibo e alloggio.
Gli oppositori politici, gli scassaballe e gli appartenenti ad etnie diverse verranno fatti lavorare con turni di 12 ore consecutive alla FIAT. Verranno riaperti gli stabilimenti chiusi ed altri ne verranno aperti. Sarà data priorità alla produzione di mezzi militari, e la FIAT incorporerà le industrie belliche nostrane (facciamo già contratti per forniture militari per miliardi di dollari all'anno, vogliamo decuplicare questo fatturato): Agusta, Alenia, Oto Merlara,Galileo Avionica etc.. avranno un sostanziale aumento di produzione tanto per vendite internazionali che per scopi interni. Vogliamo diventare la maggiore potenza bellica europea, e competere con le potenze internazionali. Che questo possa portare a tensioni e guerre, ce ne frega: i morti sono sempre li stessi, carne da cannone che si lasciano irretire nella risoluzione della disoccupazione.
Copiando la truffa perpetrata ai danni dei tedeschi relativamente al caso VolksWagen, anche la FIAT costruirà la perfetta macchina per il popolo: scatto bruciante, 230km/h, linee filanti progettati da una equipe di designer, avrà la caratteristica di non potere essere multata. Chiunque la desideri dovrà sborsare 5000€ (pari ad un sesto del costo) ed il resto verrà detratto comodamente dallo stipendio. Con questa truffa si aiuterà il decollo dell'Italia.
Mi fermo qui per brevità. Concordo con Claudio: era inevitabile (nonostante il patto Molotov_Ribbentrop) che i nazisti tentassero di distruggere la Russia ed il bolscevismo. E' andata male, come a Napoleone. Oggi, per fortuna, non ci sono più pericoli comunisti nè bolscevismi vari: tutto sepolto sotto il tappeto omologante del pensiero unico. Pensandoci bene: sarebbe questo lo scopo dell'articolo di Freda?
A mio modesto avviso Freda e’ approdato da diverso tempo al fascismo, e la sua spazzatura dovrebbe essere tenuta a debita distanza da questo sito.
Per il resto, se si vuole un esempio di successo di un economia non-capitalistica basta guaardare alla Cina. Che bisogno c’e di disturbare lo zio Adolf (ammesso e non successo che lo zio Adolf sia un fenomeno non-capitalista)?
La presente solo per specificare a Claudio Martini che il fascismo lo lascio volentieri agli "antifascisti" come lui, che sono gli unici a prosperare cibandosi da settant'anni del suo cadavere decomposto e calcificato. Non siamo tutti ghoul e zombie, se Dio vuole. Bon Appetit.
Gianluca Freda
Ma che bello, allora Gianluca Freda ci legge! Che onore! Ne approfitto per comunicargli un mio sentimento: vai a farti fottere, grandissima testa di minchia. Sono anni che fai del non capire una mazza di niente la ragione sociale del tuo blog. L’unica cosa che ti riesce è trangugiare l’immondizia che raccogli nelle fogne di internet per poi vomitarla addosso ai poveretti che ancora ti seguono. Tornatene nella tua celletta web a masticare cazzate, invece di insudiciare questo spazio.
Ed ecco un esempio di dialogo e moderazione.
L'esempio cinese porta acqua al mulino degli estimatori della politica economica del fascismo. I fascismi storici poggiavano su tre pilastri: nazionalismo, dittatura del partito unico e delle sue organizzazioni di massa, economia mista (il settore statale nell'Italia degli anni Trenta era forza trainante dell'apparato industriale e nella Germania nazional-socialista vigevano piani quadriennali, non paragonabili ai piani quinquennali sovietici ma tali da creare un quadro di riferimento entro il quale l'industria privata doveva muoversi). Se questa è una definizione corretta dei fascismi, la Cina attuale vi rientra. Il simbolismo e le bandiere, ancora rossi, hanno la loro importanza, come è importante il retaggio storico confuciano, ma ragionando per tipologie la Cina odierna è sostanzialmente fascista.
No, non è una definizione corretta. Ritenta, sarai più fortunato.
Ricambio i saluti a Claudio Martini e rinnovo il Bon Appetit. Occhio, però, che la dieta di cadaveri nuoce al fegato (come si vede).
GF
Gnam,gnam…
Ecco bravo, lasciaci alla nostra innocente necrofagia e togli il disturbo. Meno ti si vede meglio e’.
Claudio,
la risposta di Freda non era stata più offensiva della tua originaria affermazione. La tua replica la potevi evitare. In questo blog non ci esprimiamo in quel modo.
Freda riflette e informa su internet egregiamente, anche quando espone giudizi politici e morali che il lettore non condivide. Gli articoli che scrive sono tutti ragionati e informati. E quando riflette lo fa con coerenza.
Io gli contesto di aver sostenuto per un po' di tempo le tesi di fondo di conflitti e strategie, dando troppa importanza alla collocazione geopolitica dell'Italia e troppo poca alla mancanza di sovranità, posto che la sovranità è il presupposto di alleanze geopolitiche; e finendo per far apparire Berlusconi come il male minore, rispetto alla tesi, a mio avviso più equilibrata, che ho sempre cercato di sostenre in questo blog: centrodestra e centrosinistra sono state, al più, due correnti del medesimo partito. Questa mia "distanza" mi ha indotto a leggerlo meno spesso; non certo a disprezzarlo o a dileggiarlo.
Tu e Tonguessy sostenete che è approdato al fascismo. Io, che accolgo un punto di vista molto ristretto sul fenomeno che designo con il termine fascismo (il fascismo è il ventennio, dal punto di vista culturale, storico e politico e niente altro) non posso che dissentire. Capisco però che se si accoglono concezioni ampie, l'accusa andrebbe rivalutata alla luce dei criteri (da voi) utilizzati. Però bisogna stare attenti. Per esempio, io sono certo che pressoché tutti i comunisti storici italiani, vissuti dal 1921 al 1980, sarebbero stati contrari ai matrimoni tra omosessuali (so che Freda è contrario, perciò reco questo esempio). Li considerate tutti dei fascisti? Dunque diventa fascista, secondo questa logica, anche il credo di pressoché tutti i comunisti, quando i comunisti esistevano per davvero? Ditegli almeno illiberale? Perché fascista?
Continuo a non capire come mai Tonguessy e Claudio siano infastiditi dai tre articoli che ho postato sulla politica economica nazional socialista. La regola che limitava gli utili delle grandi imprese al 6% ne che trasformava gli utili non reinvestiti in prestiti forzosi allo stato, con interessi dapprima del 6% e poi del 4,5% vi sembra una sciocchezza? E' interessante o no? Ciò vale per molte altre cose espresse nell'articolo.
Può anche darsi (anzi è certo) che la grande industria chimica finanziasse il partito. Ma era sottoposta o no alla regola degli utili del 6%? Questo sarebbe interessante sapere.
Abbiamo poi letto nell'articolo che gli storici danno per pacifico che gli ebrei continuarono a lavorare, perché furono provati dei diritti politici, non dei diritti connessi alle prestazioni lavorative. L'altra volta avevamo dei dubbi sul punto. Quindi è stato utile sciogliere il dubbio.
Una cosa è certa. Una volta abbandonata la prospettiva dell'abolizione della proprietà dei mezzi di produzione e una volta chiarito che la giustizia sociale si può ottenere soltanto con il governo dell'economia da parte dello stato nazionale, dal punto di vista della politica economica, il socialismo patriottico e la politica economica del nazional socialismo, nelle varianti più estreme, tendono ad avvicinarsi e ad essere simili. Le differenze riposano altrove. Nel razzismo e nell'imperialismo, essenzialmente (qui dissento da Freda, che contesta anche la categoria di imperialismo).
Tu sei il padrone di casa, qui, e tu stabilisci gli standard di correttezza ed educazione ammissibili. Perciò ti devo chiedere scusa se ho sporcato il tuo sito con il mio turpiloquio. Ma ti assicuro, Stefano, che non meno insudiciante e’ il percolato che il fascista Freda raccoglie e ri-diffonde, simile ad un ventilatore con lo sterco. Egli e’ la quintessenza di internet: la ridicola star di un microcosmo chiuso, asfittico, in cui circolano boiate che alla luce del sole si dissolverebbero in pochi attimi. Esattamente ciò da cui vorremmo uscire.
Ma se non condividi questo giudizio, be’, allora continua a riprendere ciò che viene pubblicato da quell’individuo. Ingoierò il rospo (ingoio già cadaveri, secondo la dotta opinione del fascistello, perciò non dovrei avere problemi)
A questo punto, in modo molto affettuoso, mi permetto di proporre una provvisoria interpretazione di questa vicenda:
Su questo forum sono stati scritti articoli affascinanti che sto girando con entusiasmo un po' a tutti gli amici. Tra tutti: "Soluzione popolare alla crisi" e "Proposte per l' alternativa" (Ma anche "Lavoro – Che fare?" é un' analisi azzeccatissima).
Qui, proprio come nell' esperimento di Milgram, a un certo punto i lettori si trovano di fronte ad una prospettiva che per alcuni di loro é inaccettabile. Tu puoi citargli tutti gli autori ed i riferimenti autorevoli dell' universo e loro si impunteranno come il cane che non vuole seguirti da quella parte e tu tiri il giunzaglio e lui ti guarda con due occhi brillanti e fieri e ringhia e tu devi cambiare strada
Per fortuna che ci sono quei lettori perché sono quelli che hanno la memoria lunga e che nessun Monti o Berlusconi riciclato potrà venirgli tra un anno a raccontare storielle. Gente che, se ci sarà una Norimberga per i mascalzoni del tempo presente salirà sul banco dei testimoni e si ricorderà tutto, ma proprio tutto di come si é svolta la vaccata.
E non ci potranno essere "non eventi" e "non persone": Tutti dovranno rispondere per quello che ci hanno fatto
Tutta la questione così com'è posta dall'articolo può essere interpretata come episodica.
Guardiamo questa frase, ad esempio: Le persone sono più allegre. C’è un maggior senso di diffusa gaiezza d’animo in tutto il paese. E’ una Germania più felice. "
“Questo grande popolo”, ammoniva ancora l’anziano statista, “lavorerà più duramente, sacrificherà di più e, se necessario, combatterà con maggiore determinazione perché è Hitler a chiedergli di farlo. "
Proviamo adesso a chiedere a F. Paulus com'è che si sentirono lui ed i suoi sottoposti durante il terribile inverno russo di Stalingrado. Fu promosso feldmaresciallo in extremis, proprio per tentare di galvanizzare il morale ormai sotto ai tacchi. Fame, tifo e pidocchi e bombe: dei 320.000 allegri tedeschi di Paulus, felici di avere combattuto duramente per il Fuhrer, ne torneranno a casa fischiettando solo 5000. Complessivamente a Stalingrado l'asse perse 1.100.000 uomini, di cui 400.000 prigionieri.
Non intendo continuare questa guerra degli episodi. Si può costruire, decostruire e ricostruire tutto a seconda della bisogna. C'è un limite a tutto, però. E questo limite lo troviamo se ci allontaniamo un po'. Bisogna guardare da distante, non da vicino. Tralasciare gli episodi, e guardare il puzzle nella sua totalità.
Intendo qui riaffermare la mia precisa volontà a considerare la felicità di un popolo non episodica e passeggera, ma sostanziale perchè ben radicata. Frutto non di scelte scellerate che portano distruzione e morte nel mondo, ma di scelte oculate che privilegiano l'armonia tra i popoli. Il riarmo e la militarizzazione non sono sicuramente tra queste scelte.
Viviamo tempi difficili. Come più di qualcuno ha sottolineato stiamo ripercorrendo (pur con marginali differenze) gli stessi passi che portarono all'ascesa di Hitler: aumento della disoccupazione, calo dei redditi, economia in crisi, relazioni internazionali tese. Se saltasse fuori qualcuno dotato di eccellente arte oratoria ed un programma molto di pancia che sapesse catalizzare la disaffezione generale per costruire una dittatura militare, potrebbe guadagnare pericolosi consensi. Abbiamo però una memoria.
Ecco, tutto lo sforzo di Freda sta nel cancellare quella memoria, nel ridare la verginità al nazismo, nel ridurre a poca cosa lo scempio che ha causato, nell'enfatizzare le poche cose buone di Hitler e soci e nel negare che essi abbiano mai causato 55 milioni di morti.
No, non ci sto. Ho avuto piacere nell'offrire il mio apporto a questo sito, ma le condizioni sono cambiate. Se si tratta di uno scivolone, ci sta. Ma non posso dare il mio contributo ad un sito che rende onore al nazismo. Io e Freda non possiamo frequentare gli stessi spazi. Non c'è abbastanza aria per noi due assieme. Quando l'ho capito ho smesso di leggere il suo sito (per carità, internet offre a tutti il diritto di sparare sulla croce rossa). Adesso che lo vedo qui le cose non possono essere diverse.
Di un'unica cosa gli devo rendere onore: di avere cancellato la falce e martello dal suo sito. Quella è l'unica cosa sensata che abbia fatto ultimamente.
Si tratta quindi, da parte mia, di conoscere quale sia l'indirizzo che il sito vuole privilegiare: se la ricetta nazista sembra un percorso fattibile è ovvio che non mi posso schierare a suo sostegno. Questo è il minimo che io possa fare per onorare la memoria di mio nonno, internato in un campo di concentramento nazista come molti, troppi dissidenti.
Voi potete avere dimenticato. Io, invece, ricordo.
Adolf Hitler, 8 novembre 1942
Tra quel “voi” di sicuro non ci sono io, e ormai dovrebbe essere chiaro ciò che penso del fascista Freda. Ma in realtà non c’e nemmeno Stefano, il quale-sono sicuro- in futuro non lascerà più spazi per gli equivoci.
Il "voi" era riferito a chi si sta impegnando nel rifare la verginità al nazismo. Quindi a nessuna persona specifica, nè tantomeno a Claudio o Stefano.
Mi scuso per l'eventuale equivoco
PS Il sito da cui è tratto l’articolo, l’Institute for Historical Review (IHR) , fondato da Willis Carto nel 1978, è una controversa organizzazione della destra statunitense. Si autodefinisce un centro culturale di pubblico interesse, di ricerca e di pubblicazione col fine di promuovere una maggiore consapevolezza pubblica della storia. I suoi avversari, tuttavia, denunciano l’istituzione come neonazista, negazionista e antisemita. La stessa CNN ha definito l’IHR “la principale organizzazione negazionista del mondo”.
http://it.wikipedia.org/wiki/Institute_for_Historical_Review
Economia di Guerra, Economia di Guerra, Economia di Guerra, questo e i cospicui finanziamenti della grande industria tedesca hanno permesso il "benessere" diffuso nella Germania nazista, a quando "rivelazioni" sulle cose buone del Capitalismo?
http://www.comunismoecomunita.org
Tonguessy,
mi asterrò dal pubblicare altri articoli sulla politica economica nazional socialista. Dopo due anni di collaborazione, provo affetto per te, oltre che grande stima. E poi questo sito è tuo come mio.
Lo farò, però, per stima ed affetto e per rispettare la tua suscettibilità per questo tema. Non perché concordi che la pubblicazione di questo articolo o di quello di Sylos Labini o di quello tradotto da Cobraf abbia in qualche modo rivalutato il nazismo.
Ci tengo a ribadire, più per qualche lettore occasionale o nuovo, che per te, che nè nell'articolo né in qualche commento sono stati esaltati o in qualche modo giustificati l'imperialismo, il militarismo imperialistco, il razzismo, l'antibolscevismo, l'antislavismo, l'antiebraismo, l'esaltazione del principio gerarchico o altri aspetti della ideologia e dell'azione nazista che meritano ripugnanza. Il maggiore dei crimini del nazismo – l'invasione dell'Unione Sovetica – è stato rammentato da Luciano come crimine oltre che, giustamente, come errore fatale dei nazisti (anche la qualifica di errore continuo a sostenere che sia esatta e anzi ovvia, per le motivazioni che ho indicato).
Se è vero ciò che tu dici sul sito che ha pubblicato il testo originario dell'articolo, possiamo dare per scontato che coloro che lo hanno pubblicato intendevano "rivalutare" il nazional socialismo; più precisamente, mettere in risalto un profilo altamente positivo del nazismo, solitamente taciuto. La ragione per la quale Gianluca Freda ha tradotto l'articolo consiste – per come ho imparato a conoscere Freda – nel voler segnalare le falsità della propaganda, che ha sempre taciuto sulle ragioni del consenso ricevuto da Hitler e sui tratti socialistici di quel regime. Il mio interesse per l'articolo era esclusivamente volto ad alcuni provvedimenti di politica economica. Debito pubblico senza inflazione (e mi sembra di aver capito dall'articolo di Sylos Labini e da quello di Cobraf, che sia possibile se si creea una moneta speciale, destinata ad un "giro" predeterminato); limitazione degli utili distribuibili; prestito forzoso degli utili non redistribuiti (io l'ho proposto a Monti prima di leggere l'articolo); controllo dei prezzi. Francamente sono molto contento di aver letto l'articolo e spero che tra i lettori ve ne siano alcuni che, condividendo il mio angolo prospettico, abbiano avuto modo di riflettere sui punti fondamentali. Mi piacerebbe sapere come fu ottenuto il controllo dei prezzi (per esempio delle locazioni immobiliari). Ma seppure scoprissi un articolo che mi sveli il segreto, mi limiterei a leggerlo e non lo pubblicherei.
Una parola conclusiova su Gianluca Freda, non per difenderlo dalle tue accuse ma per spiegare il mio apprezzamento.
Mi sembra che la linea direttrice di Freda sia quella di sostenere che i media ufficiali, non si limitano a sostenere tesi di parte ma svolgono il ruolo di strumenti di propaganda e creano e diffondono sistematicamente falsità. L'antiamericanismo di Freda, che me lo rende simpatico, lo spinge a mostrare le falsità assolute in molte materie che vedono coinvolti gli stati uniti: guerra contro l'Iraq; guerra contro la Libia; caso Neda; propaganda antirussa. Sin qui, credo che egli trovi il tuo e il mio consenso. Egli ha rivolto la sua attenzione anche a temi che non mi interessano come esempi di propaganda, come la passeggiata sulla luna, talune falsità che sarebbero opinione comune circa i campi di sterminio e ora anche la politica economica del nazional socialismo prima che l'economia fosse una economia di guerra o prevalentemente di guerra (questo tema, mi interessa, ma non come esempio di verità taciuta e negata dalla propaganda, bensì per l'efficacia e la giustizia di certi provvedimenti).
Tu dal fatto che egli abbia voluto studiare anche queste ultime due materie e forse dalla sua simpatia per Putin reputi che egli sia diventato fascista e che già solo per questa ragione non dovrebbe essere pubblicato, a prescindere dal contenuto dell'articolo.
Io dissento da te sotto il secondo profilo, perché un articolo lo valuto in base al contenuto e non in base all'autore. E perciò non mi sento di prometterti che non pubblicherò più articoli di Freda (esclusi quelli sul nazismo, che non pubblicherò perché trattano del nazismo; non perché siano di Freda).
Il dubbio se Freda abbia simpatie e preferenze per alcuni tratti di regimi politici – tratti che si rinvengono anche nei fascismi e che anzi darebbero luogo all'archetipo del fascismo – forse l'ho anhe io. Il mio, però, è solo un dubbio. Perché le sue indagini sui revisionisti e l'articolo che ha tradotto e che ho pubblicato potrebbero essere motivati dal suo antiamericanismo (che è il tratto comune a tutti i suoi articoli dedicati alla propaganda e alla falsità diffusa dai media), piuttosto che da simpatie per il nazismo. Per quanto riguarda, poi, la simpatia per Putin, confesso che anche io ne ho una certa stima, anche se ammiro molto di più Zuganov. Perciò lo attendo alla prova del nove: la demolizione del libro nero sul comunismo; la demolizione della propaganda anticomunista. Forse non è politicamente attuale. Ma Freda dimostra di amare la storia. Mi piacerebbe che sperimentasse le sue capacità anche per smascherare le menzogne del libro nero del comunismo.
Aggiungo che sull'antiberlusconismo, io, avendolo sempre considerato un cancro, sono stato più vicino alla posizione di Freda (ma senza mai rivolgere una sola lode al Berlusca) che alla tua, che in fondo odiavi Berlusca al punto da credere che se fosse andato via le cose non potevano che migliorare, sia pure di poco (e invece sono peggiorate!).
Perciò, mai più articoli sul nazismo; ma lasciami per cortesia pubblicare ogni tanto gli articoli di un autore che continuo a stimare, se credo che l'articolo meriti di essere letto per il suo contenuto.
Caro Stefano,
parliamoci da amici. E comportiamoci da tali. Nè tu ne io abbiamo quindi bisogno dell'approvazione dell'altro. La nostra amicizia è tale perchè abbiamo molte cose in comune, e non ci nascondiamo quelle che invece ci dividono. Ce le diciamo in faccia, come è giusto che due amici facciano. E come sarebbe giusto che alleati temporanei e nemici facessero.
Purtroppo viviamo un'epoca in cui la Parola è vilipesa, perchè i rapporti si basano non su onestà e sincerità, ma su sotterfugi e convenienze.
Quindi tra noi nessun sotterfugio nè convenienza. Te ne prego.
Continua quindi a postare gli articoli che credi utili, ma sappi che io ho un rapporto molto sincero con le mie idee e uso le parole per esprimerle al meglio. Non ho mai fatto sconti a nessuno, tanto meno a me stesso. Mi comporto quindi conseguentemente, costi quel che costi.
La differenza tra gli articoli di Cobraf e Freda, ad esempio, sta nelle intenzioni. Fare riferimento a Galbraith e Keynes può dare stimoli interessanti per capire certi meccanismi. Fare riferimento agli scritti dell'ultradestra americana spacciandosi per antiamericani può solo fare il gioco dell'ultradestra in genere. Per completare l'operazione occorre prima demolire le distinzioni tra destra e sinistra, creare un grande Pensiero Unico e spacciarsi per anititetici a tale pensiero. In questo senso i risultati della destra sono straordinari. E Freda nè è l'esempio lampante: riesce a coagulare attorno a sè anche pensatori di tutto rispetto. Ma bisogna capirne i fini ultimi per potere scremare apparenze e sostanze.
Certamente i media sono di parte. E certamente occorre informare in modo diverso se vogliamo creare una prospettiva diversa. Ma ho una certezza: dare corda all'ultradestra non è informare, è fare lo stesso gioco dei media. Sostenere che il fascismo è ormai morto da settant'anni ad esempio, è negare che possa ritornare. Dare del necrofago a chi è sicuro che ci siano reali rischi di un ritorno alla dittatura fascista è sicuramente informazione alla Minzolini più che controinformazione.
Infine un ultimo appunto sul puttaniere: la disfatta morale (le parole solo come convenienza personale) e culturale in cui siamo precipitati è sicuramente frutto di un sistema che non ha saputo prendere delle adeguate contromisure. Proprio come nel caso del fascismo di ritorno che non esiste. Denunciare la bassezza comportamentale e morale di chi dovrebbe invece assurgere a modello sociale è non solo doveroso ma anzi necessario. In questo Freda è ancora una volta campione: pur di fare un dispetto al PD ha scritto di volere votare Berluskaiser, ovvero di sostenere la bassezza morale ed il degrado culturale. Peccato che nessuno abbia mai sostenuto che il PD fosse l'alternativa. Quindi si tratta solo di mosse relative ad una strategia precisa. Per quanto mi riguarda nè il brianzolo nè altri dell'arco costituzionale (fino a Vendola, ultimo degli orrori della politica nostrana) sono alternativi a chichessia, ma sostanzialmente collaborano in pure stile americano. MOLTI anni fa c'era una vignetta americana in cui si descrivevano democratici e repubblicani come pugili che da angoli opposti urlano gli stessi slogan. Ecco, fare di tutto questo un motivo per sostenere il puttaniere mi sembra assolutamente fuorviante e sincrono con quella visione dell'ultradestra cui accennavo prima. Ognuno ha il diritto di pensare ciò che crede, ma a me non interessa avere scambi con chi ha già pianificato tutto verso l'ultradestra. Come ho già detto ho un debito verso mio nonno, e intendo onorarlo. Perchè sono un uomo di parola. E non voglio più che succeda che un padre di famiglia venga preso da militari (ok, finanziati tramite operazioni intelligenti, il che mette una seria ipoteca sull'intelligenza tout court), sia caricato su un camion e venga sbattuto a lavorare come uno schiavo per il benessere di qualcun altro (fosse anche uno Stato risorto miracolosamente dalle proprie ceneri), lasciando sul lastrico figli e moglie.
Tutta l'apparente capacità persuasiva dell'articolo si basa un artificio logico operato nelle prime righe:
Ho già pubblicato due articoli dedicati alle politiche economiche del nazionalsocialismo in tempo di pace, nella convinzione che il necessario disprezzo per la repressione, la distruzione dei sindacati, le Camicie Brune, le Camicie Nere e i campi di concentramento, non debbano influire minimamente sulla valutazione della politica economica realizzata sotto la guida di Hitler
In sostanza l'autore ci dice che prova disprezzo per la distruzione dei sindacati ma che ha una valutazione positiva della politica economica di Hitler. Che sarebbe un po' come sostenere che a parte il freddo il polo nord è un posto bellissimo. La distruzione dei sindacati è in realtà la colonna portante di tale politica, perché i capitalisti sono stati pronti a fare delle concessioni alle classi lavoratrici proprio in virtù del fatto che, essendo queste prive di potere di associazione, sapevano che le loro rivendicazioni non sarebbero potute andare oltre un certo punto a causa della repressione del regime che avrebbe riportato a più miti consigli i lavoratori. Invece, in democrazia, piena occupazione significa che il potere politico si sposta dalle élite alle masse popolari, che non sono più ricattabili dalla minaccia della disoccupazione e avanzano nuove rivendicazioni che innescano la spirale salari-prezzi e quindi l'inflazione. A questo punto il blocco di potere degli industriali e dei rentier fa pressione sullo Stato perché agisca con politiche restrittive che creano disoccupazione, in modo da dare una lezione alle classi lavoratrici. In parole povere le politiche economiche naziste non sono delle particolari geniali tecniche, ma un tutt'uno con le politiche di distruzione delle libertà politiche, non sono cioè minimamente realizzabili in quadro democratico.
Una volta chiarito questo semplice fatto si capirà he il resto dell'articolo non è altro che fuffa ideologica volta a obnubilare ciò.
Piergiuseppe,
le tue osservazioni sono acute. Provo a replicare.
1) Calmierare i prezzi in una economia non amministrata ma che ammette la libera iniziativa privata presuppone una volontà politica, che evidentemente si può esprimere anche in regime di repressione dei sindacati. E' la politica che decide se calmierare o meno i prezzi (incidendo sui profitti dei dettaglianti e dei locatori, in primo luogo) non i sindacati. Questi provvedimenti sono astrattamente pensabili e attuabili sia in regime democratico che in regime non democratico.
2) Stabilire che gli utili delle grandi imprese non possono superare il 6% del capitale ivestito è competenza della politica. Si tratta di un provvedimento prendibile (soltanto in un contesto che limita la libera circolazione dei capitali) sia in regime non democratico che reprime i sindacati (stando all'articolo fu concretamente preso) sia in regime democratico che riconoscere la libertà dei lavoratori di associarsi in sindacati.
3) Stabilire che gli utili superiori al 6% che non vengano reinvestiti diventano prestiti forzosi allo stato, che rendono il 4,5% (o meno) è un provvedimento che compete alla politica e che astrattamente può essere preso anche in un regime democratico.
4) Limitare la circolazione dei capitali e pagare i creditori esteri con moneta spendibile soltanto per acquistare beni prodotti da imprese nazionali (statali o il cui capitale sia, diciamo, al 75% ubicato nel territorio dello stato) è competenza della politica e può essere deciso sia da un regime non democratico sia da un regime democratico.
5) Emettere moneta non a debito ma stampata dallo stato, destinata ad un "giro" predefinito (per esempio lo stato regala 5000 euro a ogni cittadino indebitato con istituti finanziari, perché questi lo utilizzino per ripagare il debito che hanno con le banche; e 5000 euro a cittadini non indebitati con istituti finanziari – altrimenti si crea un'ingiustizia – perché i destinatari lo utilizzino per acquistare titoli del debito pubblico al tasso di inflazione) non dovrebbe generare alcuna inflazione e dovrebbe migliorare la condizione di tutti! (la soluzione è tanto paradossale che va sottoposta a riflessione). Ebbene un simile provvedimento lo può prendere, oltre a un regime che reprime i sindacati, anche un regime democratico.
L'insieme di tutti i provvedimenti indicati e di altri ancora, potrebbe alla lunga generare la piena occupazione. Quando è raggunta la piena occupazione, il sindacato serve a poco. In regime di economia che riconosce la libera impresa, l'obiettivo dei sindacati è di promuovere la piena occupazione, perché in tale situazione il lavoratore è libero di licenziarsi e di accettare un'offerta migliore. In sostanza i sindacati in Italia dovrebbero oggi suggerire provvedimenti come quelli segnalati e che sembra furono presi dal regime nazional socialista. In sostanza, in regime di piena occupazione non è la forza dei sindacati che fa crescere i salari; bensì la scarsità di lavoro rispetto alla domanda (di lavoro da parte delle imprese).
Insomma, a me sembra che le politiche indicate nei tre articoli possano essere applicate anche in regime democratico. La presenza dei sindacati non impedisce di perseguirle.
Anzi, una volta raggiunta la piena occupazione, i lavoratori sarebbero più forti che nel regime nazional socialista, proprio per la presenza dei sindacati. Ovvio che se il partito al potere o (in regime democratico) i partiti al potere decidono di deflazionare (di alzare il tasso di interesse, di far entrare nel territorio dello stato un esercito industriale di riserva, i salari scenderanno. Ma questo mi sembra che possa avvenire sia in regime dittatoriale che in regime democratico.
Insomma io continuo a reutare che dall'articolo sia possibile apprendere qualche cosa in ordine alla politica economica astrattamente perseguibile in Italia. Il paradosso è che in Italia oggi non c'è alcun partito che voglia perseguire quella politica economica (e che, quindi, voglia uscire dalla UE, i cui principi impediscono in radice che uno stato possa prendere i provvedimenti segnalati)
Stefano,
mi pare che la pensiamo grosso modo allo stesso modo, quello che voglio dire è che tali ricette non sono replicabili allo stato attuale per motivi squisitamente politici, e non certo perché Hitler e Schacht fossero dei geni dell'economia. E' come dici tu, non esistono ostacoli teorici a che certe misure vengano prese, ma solo politici.
Quello che voglio dire è che quelle ricette furono applicate in un regime dittatoriale perché i capitalisti tedeschi si fidavano di Hitler e sapevano che la classe lavoratrice non avrebbe potuto alzare la testa. Per cui accettarono di buon grado alcuni "sacrifici" ben sapendo che non avrebbero più avuto sindacati in mezzo ai piedi nè tantomeno pericoli di sovversioni socialiste. Invece in democrazia i capitalisti non si fidano delle classi lavoratrici, non tanto per intrinseca avidità, ma perché temono che se offrono un dito esse si prendano tutto il braccio. Per cui ostacolano ricette politiche che mirino alla piena occupazione perché così facendo sanno che rafforzerebbero i sindacati e verrebbe meno il potere di ricatto della perdita del lavoro. Il fatto che in piena occupazione le classi lavoratrici sarebbero più forti con i sindacati che nel regime nazional-socialista è in realtà proprio il motivo per cui la piena occupazione non è perseguita! Ovviamente ci sono fasi storiche in cui un compromesso sociale viene raggiunto e dura nel tempo, ma è per sua stessa natura precario.
Se nessun partito si pone questo obiettivo è perché la capacità di avere rappresentanza delle classi lavoratrici è venuta drammaticamente meno, per una serie di motivi dei quali potremmo parlare per ore.
Io penso che abbia ragione Polanyi e che alla lunga capitalismo e democrazia non possano coesistere, perché i cittadini pretenderanno che la democrazia si allarghi anche alla sfera della gestione dell'economia, per cui la tensione si risolverà o con una soluzione fascista, che è quella che salva il capitalismo a spese della democrazia, o con una socialista, che salva la democrazia a spese del capitalismo.
In termini bambineschi:
Viva al democrazia, abbasso il capitalismo
Le ricette economiche sono contingenti, al contrario delle teorie economiche che sono delle vere e proprie ideologie. Le prime possono essere intercambiabili tra destra e sinistra, vedi la Nep di Lenin (ricetta “liberista”) oppure la politica economica di Schacht-Hitler (ricetta “socialista”) . Entrambe servono strumentalmente e temporaneamente, per risollevare il paese dal disastro prodotto dalla guerra o dalla crisi. Ma Lenin rimane Lenin, così come Hitler rimane Hitler: con i loro fini e le loro strategie di lungo periodo.
Le “ricette” sono funzionali comunque agli interessi di classe: della borghesia, della piccola borghesia, della classe operaia, dei contadini, ecc. classi intese però non in senso sociologico ma in senso politico perciò può succedere benissimo che una classe sociale, consapevole della propria identità e funzione politica generale, cioè dotata di forte “coscienza di classe”per esempio la borghesia, possa aver bisogno di un po’ di “socialismo” (quanto basta, come in cucina) facendo qualche rinuncia contingente per l’immediato, ma assicurandosi un più solido avvenire sul piano strategico. Anche il protezionismo è uno strumento che a volte conviene, a volte non conviene: pensate alla Fiat, per decenni liberista all’interno dei confini nazionali – per assumere più facilmente il ruolo di monopolista del mercato interno- ma protezionista verso l’esterno: era per noi difficile, se non impossibile, comprarci un’auto giapponese e prima ancora persino un’auto francese! Bisogna dunque distinguere tra “capitalismo” e “borghesia”, il primo è un meccanismo cieco che regola la produzione e gli scambi, la seconda è un soggetto sociale e storico, dotato di coscienza, articolato nelle diverse parti del mondo, che si avvale del meccanismo capitalistico per consolidare la propria dittatura sociale e culturale. Personalmente, penso che sia la borghesia –l’attuale borghesia cosmopolita e antinazionale ormai unificata sotto l’ala dell’oligarchia finanziaria angloamericana- il nemico a tutto tondo, mentre lo scagliarsi contro il capitalismo “ovunque nel mondo” è come combattere contro i mulini a vento o addirittura assecondare i progetti del nemico principale.
Quindi per tornare al punto, direi che bisogna evitare sia l’enfasi sia lo sdegno: da quel che ho appurato su antichi testi cartacei dei quali mi fido – e non su Wikipedia- le cose in Germania andarono più o meno in quei termini: utili trasferiti allo Stato sotto forma di prestiti, aumento della spesa pubblica, controllo dei prezzi e blocco dei movimenti di capitali: ma in Germania il “socialismo di stato” era di casa fin dai tempi di Bismark. La spesa pubblica fu anche, in buona parte, diretta al riarmo fin dall’inizio, questo è bene precisarlo, però la “ricetta” in un paese industriale avanzato ma depresso come era la Germania avrebbe funzionato anche senza il riarmo e funzionerebbe tuttora, al giorno d’oggi, da noi, viste le analogie. Quello che manca per attivarla però è la paura, ossia il “fattore Stalin”.
Infine alcune considerazioni storiche sulla questione del voto, che ovviamente si riproporrà in modo lacerante. Io personalmente ho disertato le urne nel 2008 e non ne sono affatto pentito, anzi ho avuto conferma della giustezza di quella scelta. Ma se un Carneade, per esempio Freda, decide di votare Berlusconi per una viscerale avversione verso Veltroni (non essendo maturo per l’astensione o per il voto a una lista meritevole, lista che comunque allo stato non esiste!) beh, non mi sento di condannarlo a priori. E qui voglio tornare alla storia degli anni 20 quando il Partito Comunista in Germania (KPD) sosteneva che “non si può combattere il fascismo se prima non si batte il social-fascismo” Orrore! Vergogna! Strillavano in coro democratici e socialdemocratici di tutta Europa…lo stesso coro fu replicato nel 1939 in occasione del patto Ribbentrop-Molotov e continuò per tutto il secondo Novecento, coro al quale io stesso, ahimè, mi ero in qualche misura associato. Ebbene, oggi me ne pento e me ne vergogno, perché sono convinto che se Hitler andò al potere, non fu certo per l’intransigenza “settaria” dei comunisti tedeschi: anzi, se il KPD fosse stato “politicamente corretto” (come si dice oggi) l’ascesa di Hitler sarebbe stata ancor più irresistibile. Mutatis mutandis, questa storia – ma senza un KPD equivalente, questo è il punto focale! – l’abbiamo rivissuta in Italia a partire dal ’93, naturalmente come farsa e non come tragedia, essendo l’Italia il paese di Pulcinella-Veltroni-Berlusconi…
In definitiva, mi sembra di poter concludere che non si può muover foglia senza che scoppi un putiferio: dalle questioni storiche, tuttora aperte come ferite sanguinanti, alle questioni politiche e geopolitiche attuali, sembra difficilissimo trovare un comune denominatore che possa prevenire effetti centrifughi e rotture laceranti quanto imprevedibili: quindi, se ci si vuole proiettare nel futuro, serve più che mai l’analisi preventiva, obiettiva e non emotiva della realtà passata e presente.
Questo e’ vero. A spianare la strada a Hitler furono i dirigenti della SPD, gli Ebert, i Noske e gli Scheidemann (tra l’altro massacratori di comunisti)
Eccellente, Luciano!
Grazie, Stefano!
La discussione si fa interessante. Cominciamo con Luciano che scrive: "Serve un'analisi obiettiva e non emotiva della realtà". Sono in disaccordo. L'analisi (che pure è attività logica) mi deve emozionare. I fatti mi devono emozionare. Le diramazioni si devono ricongiungere al grande centro, e farlo palpitare. Ho una visione olistica della Storia e della Logica. Come diceva un antico sciamano: "La via che percorri deve avere cuore, sennò è solo tempo perso". Detesto l'aridità.
Questo olismo ha una sua forma filosofica (più correttamente epistemologica) nella tesi di Duhem-Quine, che dice grosso modo che non si può separare un'operazione dal computo totale. Cioè non possiamo separare (rispondendo a Stefano) delle singole operazioni dal complesso di ciò che il nazismo fece. Ne è convinto anche Keynes quando scrive che le misure di cui stiamo parlando " possono essere adottate più facilmente da un regime totalitario che in un paese in cui prevale in larga misura il laissz-faire".
Quindi si tratta di decidere se vogliamo osservare la somma delle operazioni eseguite (olismo) oppure se preferiamo osservare i singoli elementi che la compongono, distinguendo le varie fasi delle realizzazioni separate dal corpo totale, un po' come fanno i medici che analizzano il fegato in quanto tale, separato dalle relazioni (sociali, emotive etc) del corpo che lo contiene.
Non dico che questo metodo non produca risultati interessanti, intendiamoci. Dico che offre analisi accuratissime ma parziali, che vanno integrate con analisi (o emozioni, come preferite) che possono rovesciare completamente il fronte della presunta ragionevolezza.
Purtroppo il nostro mondo è intriso di ragionamenti parziali, di settorializzazioni, di parcellizzazioni e specializzazioni e abbiamo sempre più difficoltà a richiamare il nostro senso della non-divisione con ciò che siamo e che viviamo. Siamo più abituati all'esclusione che all'inclusione. Studiamo accuratamente i meccanismi dimenticandoci delle funzioni ultime delle macchine.
Forse perchè studiare i meccanismi è interessante mentre comprendere le funzioni ultime è devastante.
L'articolo mi ha fatto scoprire il sito di Freda e condivido che si tratti di persona interessante, in fase di transito dal comunismo ad un insieme alquanto confuso di nazionalsocialismo e liberismo, che rappresenta o meglio rappresentava il segno dei tempi. E' la posizione del Front national di dieci anni fa.
Trapassi dall'una all'altra mitologia ce ne sono sempre stati, da Bordiga alle greggi di fascisti oltranzisti che dopo la II guerra mondiale si sono riscoperti comunisti. Chi ha voglia di menare le mani prende la religione – oggi religioni laiche – che l'epoca gli offre.
Oggi poi che la sinistra parlamentare è diventata la galoppina del grande capitale, e che in tutta Europa sono quasi solo i movimenti di estrema destra a contestare il sistema, trapassi del genere saranno sempre più frequenti. Un po' ovunque la destra radicale tende a riscoprire le proprie radici sociali per reazione allo sfacelo liberista, e ciò facilita le conversioni (anche se non non mi sembra ancora il caso di Freda). Si veda ad es. l'evoluzione di Le Pen figlia rispetto alle posizioni del padre… come diceva Schmitt il criterio discriminante della dimensione politica è l'individuazione del nemico, e a tutti è oggi chiaro che il nemico è la dittatura dell'alta finanza e non certo un comunismo a cui più di metà della popolazione dell'Europa orientale guarda con giustificato rimpianto.
Sarei/sarò curioso di vedere quale sarà la scelta dei partecipanti a questo blog qualora, approfondendosi la crisi del capitalismo terminale, un movimento di estrema destra giunga al potere – concretamente la vedo come l'alternativa di gran lunga più probabile – e vi troviate a scegliere fra la pelle dei vostri amati negri e mezzi negri, ed il ritorno sotto le alucce dei diritti umani alla Monti e alla Marchionne. Chi sarà il vostro "nemico principale" (A. de Benoist)?
Per il resto scusate se sono andato fuori tema… era una piccola riflessione estemporanea. Non capisco abbastanza di storia economica per discutere l'articolo, anche se a buon senso e per quel tanto che so di storia del nazionalsocialismo abbraccio appieno la posizione di Stefano.
Finalmente qualcuno (Lorenzo) si decide a mettere le mani dentro il piatto, senza usare le posate, e fa bene, al contrario di molti che, non volendo sporcarsi le dita, glissano e farfugliano nascondendosi dietro i sacri principi e ripetendo all'infinito il ritornello del "nè con questo nè con quello". A costoro sfugge irrimediabilmente "il criterio discriminante della dimensione politica, cioè l'individuazione del nemico", quindi, aggiungo io, non possono essere protagonisti, ma solo subordinati e fuori dal gioco. Però gli altri, che siano di “destra” o di “sinistra” -le virgolette sono d’obbligo perché questi termini si sono in parte sovrapposti o desemantizzati- devono saper leggere il presente e il passato, come ho detto nel post precedente, elaborando un’analisi obiettiva e non emotiva delle forze in gioco. Lorenzo accenna a Freda, al Front national e a Le Pen (padre e figlia) e pare che simpatizzi con questa destra antiliberista. Ipotizzando inoltre (e forse auspicando) che questa destra possa affermarsi in Europa, lancia la sfida a coloro (tra cui il sottoscritto) che aborriscono la sinistra del “né ..né”.
Abbiamo già qualche esempio in merito: l’Italia e l’Ungheria. In Italia la destra, sia quella fascista o postfascista sia quella leghista, si sono immediatamente piegate ai diktat dell’impero: per loro gli atteggiamenti antieuropei e antiatantici sono -purtroppo!- puramente occasionali e strumentali: non hanno alcuna forza o determinazione per elaborare strategie di resistenza agli attacchi che l’imperialismo conduce su tutti i fronti (mediatico, finanziario e militare), malgrado che –bisogna ammetterlo- il potenziale di resistenza a livello sociale si concentri più a destra che a sinistra. Ma nell’arco variegato della destra politica anche estrema nessuno ha la volontà di dare rappresentanza effettiva a questo potenziale: conosciamo i nostri polli!
In Ungheria con Orban staremo a vedere: mi auguro che non si pieghi, ma la sua debolezza sta a mio avviso nel fatto che muove da presupposti anticomunisti, mentre gran parte del popolo ungherese ha nostalgia per il regime comunista, che non stressava la gente comune. Riuscirà a portare dalla sua parte le masse lavoratrici tradite, come da noi, dai loro partiti di riferimento? Non credo: la destra solitamente è brava a conquistare l’animo della piccola borghesia ma non della classe operaia, perché non è strutturalmente idonea a farlo e questo generalmente determina la sua parabola. Il razzismo è il suo propellente, ma non la farà andare lontano: quando si esaurisce, essa si acquatta di nuovo sotto l’ala dell’oligarchia finanziaria, perché comunque tanti soldi concentrati nelle mani di poche persone trascinano sempre i pochi soldi posseduti da tante persone.
Ma in realtà la partita grossa e decisiva non si gioca nelle province europee, si gioca sui tre continenti: Asia, Africa e America Latina ed è una partita geopolitica. Obama ha già annunciato il riposizionamento americano nell’area “Australia Pacifico” (non ha avuto il coraggio di dire “Cina”). Ma i Cinesi hanno mangiato la foglia e il Presidente Hu Jin Tao parlando al varo di una nuova portaerei ha detto ai marinai: “preparatevi a combattere!” Saprà la destra europea superare i suoi pregiudizi viscerali e razziali nei confronti dei “gialli” o continuerà a svillaneggiare i “neri” nel cortile europeo sotto l’ala tollerante dell’imperialismo?
Direi che Luciano ha colpito il centro del bersaglio. La differenza è effettivamente il razzismo. La volontà di potenza è una seconda differenza. Teorizzata e desiderata in un caso. Aborrita nell'altro, che teorizza più una volontà di resistenza e pacifiche alleanze paritarie con altre nazioni. Invece, non direi che costituiscano necessariamente una differenza i profili "spirituali". Spesso le due parti guardano da punti di vista diversi e denominano diversamente medesimi fenomeni: i profili spirituali della destra sono spesso i caratteri antropologici che la migliore sinistra constata travolti dal capitalismo, stupendosi di pensieri "reazionari" e comunque non "progressivi".