La Caporetto della sanità italiana
Riportiamo un lungo post del Dott. Stefano Rosso, epidemiologo presso AOU Città della Salute e della Scienza di Torino.
Di seguito il post.
Nei giorni in cui si usciva, malconci, dalla Fase 1, sul blog del Chimico Scettico leggevo un ardito paragone con quello che fu uno dei più grossi disastri militare della storia bellica italiana: la sconfitta di Caporetto.
Il Chimico Scettico ricordava l’attacco austriaco con il gas fosgene che fu devastante per le truppe italiane protette da maschere antigas completamente inadeguate, paragonandolo alla iniziale carenza di DPI nei primi giorni dell’epidemia negli ospedali e nei reparti che dovevano gestire l’emergenza.
Penso, tuttavia, che il paragone non si debba fermare a questo episodio. Caporetto, oggi Kobarid in Slovenia, costò la vita a 12000 soldati italiani ed è riconosciuto dagli storici come la responsabilità della sconfitta fosse da attribuire agli errori degli alti comandi e alla impreparazione bellica delle truppe.
Quando il SARS-Cov-2 colpì la popolazione italiana alcune decisioni o non-decisioni causarono conseguenze altrettanto devastanti, ma, come per la preparazione bellica, gli errori furono anche conseguenza di azioni ed omissioni che provenivano dalle decisioni prese negli anni precedenti.
Ma su quali “fronti” siamo stati dunque travolti dal virus?
LA CAPORETTO DEL PIANO NAZIONALE
In risposta all’epidemia di SARS del 2003 fu redatto un Piano Nazionale di Preparazione e Risposta ad una Pandemia Influenzale del 13 Dicembre 2007 che prevedeva la convocazione di un gruppo di valutazione per avviare le decisioni necessarie a fronteggiare la pandemia. Non si sa se tale gruppo fu convocato o meno, addirittura in Gennaio, ma sicuramente, nessuna decisione rilevante fu presa sino al fatidico 9 marzo, data della dichiarazione del lockdown. Che la situazione fosse grave in Cina era già chiaro sin dal 23 Gennaio, quando fu messa in quarantena Wuhan, una città di 6 milioni di abitanti, probabilmente già con un ritardo di almeno 15 giorni. In Italia, fra mille polemiche, i voli dalla Cina furono sospesi dal 31 Gennaio, ma senza avviare nessuno degli interventi di identificazione dei possibili contagiati, arrivati nel periodo precedente. Invece, si perdeva tempo con inutili polemiche sull’emergenza razzismo nei confronti della comunità cinese.
Poi abbiamo saputo che simili ritardi furono presenti anche in altri paesi europei, in particolare in Germania ed Austria, da cui pare siano pervenuti i primi casi venuti poi in contatto con pazienti Lombardi. Ma qui si vuole sottolineare come il Piano Nazionale non sia stato sufficiente ed adeguato per virus non influenzali, oppure non sia stato attivato con sufficiente tempestività, costituendo quindi la prima linea di “sfondamento” dell’attacco virale.
LA CAPORETTO DELLA LOGISTICA
Dalle notizie che giungevano dalla Cina già in Gennaio, fu abbastanza evidente da subito come fossero indispensabili mezzi di contenimento del contatto virale (DPI, maschere chirurgiche, guanti, abiti, ecc..), innanzitutto per il personale sanitario, ma anche per la popolazione. E fosse altresì importante dotarsi di sufficienti dispositivi di ventilazione polmonare in ambiente protetto per far fronte alla polmonite interstiziale che poteva provocare, nei soggetti anziani o con pluripatologie, il decesso. In questo, l’iniziale lentezza nell’approvvigionamento di questi presidi sanitari, risultò esiziale nel favorire la diffusione della virosi, proprio negli ospedali e nelle strutture che avrebbero dovuto far fronte all’invasione.
La logistica poi, ancora adesso, ha limitato l’esecuzione dei tamponi nasofaringei per l’identificazione diretta del virus. Questo strumento non è stato immediatamente disponibile, ma lo si è definito una volta identificato il genoma del virus (approssimativamente a fine gennaio in Cina) e si sono dovute adattare le tecnologie necessarie. Ancora a metà Marzo i laboratori italiani in grado di eseguire la determinazione erano spaventosamente pochi. In Piemonte erano solo 2 ed a tutt’oggi si è arrivati, ma con grande fatica, a superare appena i 30, includendo i laboratori privati. Ma non è solo un problema di mancanza di laboratori: anche il personale per l’effettuazione del test è essenziale. E deve essere personale sanitario un minimo addestrato. E qui arriviamo al fattore limitante più serio. Ammesso che kit di laboratorio, reagenti e strumenti fossero sufficienti, e non lo sono nemmeno adesso, è stata la cronica carenza di personale che affligge da decenni il nostro SSN, ad impedire di fatto la corretta applicazione di questo strumento diagnostico, essenziale per l’identificazione ed il successivo trattamento preventivo delle persone contagiate.
A Caporetto un esercito forte di 3 milioni di soldati fu sconfitto da un esercito numericamente inferiore, ma meglio organizzato (in realtà alla 12° battaglia dell’Isonzo, quella di Caporetto, le forze italiane arrivarono esauste con uno schieramento in campo inferiore per uomini e mezzi). Qui, almeno, abbiamo la giustificazione di aver affrontato la battaglia in evidente inferiorità numerica.
LA CAPORETTO DELLE STRUTTURE OSPEDALIERE
La nostra prima linea, i dipartimenti di emergenza, arrivarono all’appuntamento con il destino completamente impreparati. Nei primi giorni, interi reparti di pronto soccorso (e le seconde linee di logistica ospedaliera) furono contaminati perché accolsero i pazienti senza protezioni e senza procedure di contenimento. Immediatamente fu chiaro, dall’esperienza cinese e dalle proiezioni che ormai giravano (i famosi “modelli”) che la disponibilità di terapie intensive non sarebbe stata sufficiente, venendosi così a sommare ritardi nella logistica e nelle decisioni di contenimento, ormai tardive per evitare il primo impatto. A fronte di cifre di malati, anche gravi, che aumentavano a ritmo esponenziale, si decise di “alleggerire” le strutture ospedaliere, invece di rafforzarle, inviando i pazienti ad intensità di terapia intermedia, ma pur sempre contagiosi, nelle RSA. Ma se i nostri ospedali pubblici risentivano di anni di carenze di investimenti, le RSA stavano anche peggio: da sempre in mano a gestione privata, le carenze di personale e strutture erano conosciute da tutti. Quelle che avevano investito in strutture lo avevano fatto nel settore riabilitativo, nell’assistenza della grande vecchiaia e del fine vita, non certo pensando al contenimento di malati infettivi.
Ma, considerando come stavano le cose, difficilmente si sarebbe potuto porre rimedio in tempi brevi ad una situazione di carenza cronica. Perché il de-finanziamento del nostro SSN non comincia adesso: sono almeno 10 anni che il budget a disposizione non subisce gli adeguamenti del caso, con una perdita stimata in 37 miliardi che ha attraversato governi di vario colore politico.
Il risultato è stato, ed è tuttora, una carenza, soprattutto nei settori di emergenza, con situazioni di sotto organico che costringe il personale a turni massacranti e quindi a rischio “errore” sanitario maggiore che altrove. Questa situazione non è ovviamente omogenea su tutto il territorio nazionale, ma forse la retorica del “miglior servizio sanitario del mondo” e le “eccellenze” del Nord, andrebbero severamente ridimensionate. La personale impressione è che tali carenze da tracollo immediato non fossero evidenti solo grazie al personale sacrificio degli operatori che hanno mantenuto in uno stato accettabile i servizi, nella situazione di normalità precedente alla crisi.
A rivedere, come in un film “Luce”, le dichiarazioni roboanti di certi esponenti politici nazionali e regionali sulla nostra sanità, precedenti al COVID-19, mi vien da pensare ai carrarmati ed aerei di cartone esibiti, anni dopo Caporetto, da un reduce che fece fortuna politica negli anni successivi.
LA CAPORETTO DEI DIPARTIMENTI DI PREVENZIONE E DELLA MEDICINA DI TERRITORIO
Se possibile, il de-finanziamento dei Dipartimenti di Prevenzione, nel corso degli anni, è stato ancora maggiore e più devastante.
Perché, in una epidemia, il lavoro di questi Dipartimenti è essenziale? Perché la diffusione dei microorganismi è essenzialmente comunitaria e, prima di giungere in ospedale, la circolazione va fermata indentificando i contatti, sorvegliando, e prendendo tutti i provvedimenti necessari al confinamento dei casi asintomatici o paucisintomatici. Il parziale successo ottenuto in Veneto è dovuto al potenziamento di questa attività e nella sua messa in opera immediata.
Nei vecchi Servizi di Igiene esistevano figure specializzate in quello che adesso viene chiamato il “contact tracing”, ma che una volta veniva chiamata l’indagine epidemiologica e che richiedeva competenze ed addestramento specifici. Ho avuto la fortuna, per mere ragioni anagrafiche, di lavorare con le assistenti sanitarie addette a quella attività, in occasione del contenimento della tubercolosi e meningite. E devo dire che la loro professionalità nell’approccio alle persone non può essere nemmeno lontanamente sostituita o vicariata da una App di segnalazione od altre tecnologie. Pensionate quelle figure, e addirittura scomparsa nel panorama formativo, questa figura professionale, si perse un enorme patrimonio di esperienza pratica che non fu poi passata a nessuna nuova generazione.
Inoltre, la rete di relazione fra i medici di base, primo presidio del territorio, ed i Dipartimenti di Prevenzione, strutture, almeno sulla carta, deputate ai successivi trattamenti comunitari, non ha mai funzionato veramente, sin dai tempi, credo, della costituzione del SSN.
Questo per vari motivi. Innanzitutto, la relazione è stata orientata sempre di più verso un controllo burocratico-repressivo dell’operato dei medici di medicina generale, visti, per lo più, come origine di costi inappropriati tramite richieste diagnostiche inutili oppure di prescrizioni eccessive di farmaci. Ed anche i settori della prevenzione si sono sempre di più orientati verso le sole attività di vigilanza e repressione delle violazioni delle normative igienico-sanitarie. In fondo, l’unica attività di prevenzione pro-attiva, è rimasta l’organizzazione dell’offerta vaccinale.
Ora, una truppa professionalmente impreparata, numericamente insufficiente (ed è un gentile eufemismo), e tecnologicamente non attrezzata, è stata travolta generando effetti tragicomici come lo smarrimento delle mail di segnalazione di casi da parte dei medici di base.
La situazione in cui versano i Dipartimenti di Prevenzione, e verseranno anche dopo, visto che non pare ci sia ripensamento sulla loro organizzazione da nessuna parte, fa ancora più contrasto con le dichiarazioni dei politici, di qualsiasi schieramento politico e di ogni livello di responsabilità, nazionale, regionale o locale, che si sentivano ad ogni convegno sulla prevenzione che ha attraversato il Bel Paese pre-covid.
LA CAPORETTO DEL SISTEMA INFORMATIVO
Condizione essenziale per la riuscita di qualsiasi campagna bellica è la disponibilità di notizie affidabili e di un buon sistema di comunicazione. A Caporetto, il secondo giorno dall’inizio delle ostilità (26 Ottobre), al Colonnello Antonicelli giunse l’ordine, portato da un tenente, di abbandonare la posizione entro la mattina del 27. Sorpreso per una ritirata ordinata ben un giorno prima, il nuovo capo della Brigata Salerno (ferito il Generale Viora che la comandava) chiese informazioni al portaordini il quale disse che probabilmente si trattava di un errore del comando di divisione, ma Antonicelli volle essere sicuro e obbligò il tenente a ritornare con l’ordine corretto, ma quando il messaggio corretto arrivò a destinazione, il Tenente Erwin Rommel (il futuro Feldmaresciallo) al comando di un distaccamento di Alpenkorps, aveva ormai nel frattempo circondato e preso il monte Matajur, punto chiave per la difesa di Cividale.
Ora, evito di commentare nel dettaglio il bailamme informativo che si è generato nella raccolta e successivo trattamento delle informazioni (quanti positivi, su quanti campioni effettuati, totale pazienti, ma esclusi i guariti oppure no) che ha disorientato anche gli esperti, generando, specie ultimamente, sospetti di manipolazione. Tuttavia, è doveroso rilevare come i normali sistemi informativi sanitari si siano rilevati inadeguati sin dall’inizio. In particolare, il sistema di rilevazione dei deceduti e la certificazione delle cause ha dimostrato tutta la sua inadeguatezza. A tutt’oggi non sappiamo quanti morti abbiamo avuto sino alla fine di Aprile in Italia, ma solo su un insieme non completo di comuni e sino al 15 Aprile. E qui si parla del minimo sindacale, ovvero della rilevazione semplice dello stato in vita.
La distanza fra le possibilità tecnologiche (app sul telefonino, tracciamento automatico, ecc…) ed il ritardo di una informazione che non è nemmeno dato sensibile, ovvero non protetto dalla normativa GDPR, è abissale. E solo contemplando più da vicino l’abisso si capisce quanto orrenda sia la situazione.
Il nostro sistema di rilevazione delle cause di morte si basa su un sistema sostanzialmente introdotto ai tempi della rivoluzione francese che mette in capo al sindaco la registrazione dello stato civile prima di pertinenza della parrocchia ed “esportato” sino a noi da Napoleone: la certificazione è fatta dal medico su un foglio (formato A3, nemmeno tanto agile da manovrare) in duplice copia. La prima va all’ISTAT, e la seconda all’ASL dove è avvenuto il decesso, che provvederà, in caso di deceduti residenti in altro comuno a trasmettere copia all’ASL del comune di residenza. A parte gli errori di compilazione e l’illeggibilità della copia laddove non si abbia cura di calcare nella scrittura, i tempi di trasmissione allungano ancora di più tutto il processo. Chissà se qualcuno prenderà seriamente in considerazione un aggiornamento del sistema napoleonico (e ringraziamo almeno il passaggio di Napoleone).
LA CAPORETTO DELLA RICERCA
Assorbita la botta iniziale, con numerose vittime fra lo stesso personale sanitario, medici e ricercatori italiani hanno iniziato a cercare di capirci qualcosa ed a provare a rallentare il decorso catastrofico della malattia.
Sicuramente alcune buone idee sono nate, come la proposta di uso di Tocilizumab, che modula la risposta immunitaria troppo violenta. Oppure, l’identificazione di trombi, prima nel polmone, poi anche in altri distretti, che innescarono l’uso di eparine a basso peso molecolare e che hanno probabilmente ridotto il numero di pazienti che arrivavano in terapia intensiva. Poi il plasma iperimmune, strumento non nuovo e già utilizzato in Cina durante l’epidemia.
Tuttavia, se guardiamo la produzione di articoli scientifici su questi ed altri argomenti correlati a questa epidemia, vediamo che la presenza dell’Italia, non degli italiani in generale, presenti nelle istituzioni scientifiche di tutto il mondo, è particolarmente carente. E non poteva certo essere un problema di carenza di pazienti ad aver impedito la produzione di un numero importante di ricerche. Non posso nemmeno pensare che manchino professionisti preparati, dal momento che ne esportiamo ovunque. Forse il problema è proprio questo: li esportiamo perché il sistema di ricerca in Italia è quasi assente.
La ricerca scientifica può sembrare un lusso inutile, ma invece, proprio in queste situazioni, quando quello che manca è una conoscenza approfondita del nemico, “l’intelligence scientifica” è indispensabile. Invece la maggior parte ci ciò che è pubblicato proviene dagli USA e dalla Cina, anche su temi su cui i nostri medici sono stati presenti da subito. Questo testimonia, ancora una volta, quanto sia fragile il sistema di ricerca italiano, ancora suddito delle grandi istituzioni internazionali e sostanzialmente incapace di offrire un habitat adeguato, attrezzato e generoso di giusti riconoscimenti anche economici a chi ci lavora.
Come si può capire da questa breve disamina si può senz’altro affermare che, come a Caporetto, la responsabilità non fu dei “soldati”, medici, infermieri e tutto il personale, ma anche essi furono le vittime di decisioni sbagliate, da cui si spera si potrà, in futuro, imparare qualcosa.
Nell’immaginario italiano Caporetto fu identificata come la sconfitta per eccellenza, tanto da essere incorporata nelle espressioni della nostra lingua.
Chissà come entrerà nella nostra epica nazionale questo periodo.
E quale sarà la nostra linea del Piave?
Stefano Rosso, medico
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