Luigi Cavallaro: “Stanno smantellando lo Stato di diritto con la scusa dello spread”
Intervista a Luigi Cavallaro Contro la crisi
Tutti che guardano allo spread, intanto questa crisi ha cambiato completamente i connotati ai fondamenti dello Stato di diritto…
Più esattamente, questa crisi sta cambiando i connotati a quella peculiare declinazione dello Stato di diritto che è lo Stato sociale, a cominciare dalla sua pretesa di governare i processi economici. Si tratta in effetti della maturazione di un trend che ormai data da lontano. Per capirci, quando i nostri costituenti vararono la Costituzione, inserirono nel terzo comma dell’articolo 41 il principio secondo cui lo Stato doveva indirizzare e coordinare sia l’economia pubblica sia quella privata. Lo Stato, ai loro occhi, non doveva essere solo il “regolatore” dell’iniziativa economica e nemmeno il produttore di beni e servizi da offrire in alternativa alle merci capitalisticamente prodotte: doveva porre sia l’iniziativa economica pubblica sia quella privata nell’ambito di un proprio disegno globale, che individuava priorità, strategie, mezzi. Un obiettivo del genere, sebbene fermamente voluto sia dai cattolici che dai comunisti, era particolarmente inviso ai liberali, che erano ben disposti a godere dei benefici della spesa pubblica, ma certo non volevano saperne di cedere allo Stato poteri di indirizzo e controllo sulla loro attività. Si optò allora per un compromesso che – grazie alla mediazione di Luigi Einaudi, capofila dei liberali tra i costituenti – prese la forma dell’art. 81 della Costituzione: ogni legge di spesa doveva indicare la corrispondente fonte di entrata. Era un modo per dire che nemmeno lo Stato poteva sottrarsi al principio del pareggio di bilancio, perché Einaudi sapeva bene che, se si fosse consentito allo Stato di indebitarsi (come invece predicavano i keynesiani ortodossi), l’economia pubblica, che già si trovava collocata su una posizione di primazia, avrebbe preso il sopravvento sull’economia privata.
Un compromesso per la proprietà e il capitale…
Sì, ma nel 1966 la Corte costituzionale lo fece saltare, perché in una sentenza stabilì che anche il debito costituiva una forma di entrata. A quel punto – ricordiamo che in quel periodo il 90% del sistema bancario e un’elevatissima percentuale di quello industriale erano di proprietà pubblica – c’erano tutte le premesse perché anche l’economia italiana potesse avviarsi lungo i temuti (da Confindustria, beninteso) sentieri della “bolscevizzazione”: nel corso degli anni ’70 Guido Carli lo denunciò a più riprese e trovò ascolto, oltre che nelle classi proprietarie, in una nuova leva di economisti e giuristi che presto ne divennero gli intellettuali organici: penso a Eugenio Scalfari, Nino Andreatta, Romano Prodi, Giuliano Amato. In effetti, quando finalmente si scriverà la storia degli anni ’70, bisognerà pur dire che quella che andò in scena dietro il paravento delle crisi petrolifere, del balzo dell’inflazione, delle stragi e del terrorismo fu una vera e propria guerra civile, innescata dai tentativi di “rivoluzione dall’alto” che furono portati avanti dai tanto vituperati governi di solidarietà nazionale e del compromesso storico voluti da Moro e Berlinguer. Ma lasciamo stare, perché quel che ci interessa qui è la reazione capitalistica. La quale, più ancora che nella marcia dei 40.000, si manifestò nel cosiddetto “divorzio” tra il Tesoro e la Banca d’Italia. Su iniziativa di Andreatta e Ciampi (appena asceso al soglio di Governatore della Banca d’Italia), la nostra Banca centrale venne esonerata dall’obbligo di acquistare i titoli del debito pubblico che fossero rimasti invenduti in asta. Quell’obbligo, in pratica, significava che lo Stato poteva indebitarsi al tasso desiderato, perché tutti i Buoni del tesoro che i privati non avessero acquistato finivano alla Banca centrale. Era il modo in cui lo Stato “comandava” il capitale monetario. Con il divorzio, invece, lo Stato venne costretto a indebitarsi ai tassi d’interesse correnti sul mercato, i quali giusto in quel periodo schizzavano verso l’alto a causa della svolta monetarista impressa da Paul Volcker all’azione della Federal Reserve, la banca centrale americana. Può essere interessante ricordare che un giovanotto di nome Mario Monti scrisse allora che il correlato inevitabile del “divorzio” doveva essere la dismissione progressiva delle aree d’intervento pubblico: se lo Stato non poteva più indebitarsi ai (bassi) tassi precedenti, c’era il rischio che la sua azione provocasse un aumento del debito pubblico. Ma la maggioranza pentapartito fu di diverso avviso, e così il nostro debito pubblico, che nel 1981 era pari al 58% del Pil (nonostante il profluvio di spese anticicliche sopportate nei sei anni precedenti), arrivò nel 1992 al 124% del Pil. E bada bene, non perché ci fosse un eccesso di spese sociali rispetto alle entrate: il debito raddoppiò solo per effetto dell’aumento della spesa per interessi causato dal “divorzio”.
E dal 1992 ad ora che è successo?
E’ successo che quel processo di dismissione delle aree d’intervento statale, che fino ad allora non si era potuto realizzare perché la nostra Costituzione era “interventista”, è stato finalmente intrapreso grazie alla nostra adesione ai Trattati europei. I quali, dal punto di vista delle prescrizioni economiche, sono praticamente antitetici rispetto alla nostra Costituzione: per dirla con una battuta, è come se da Keynes fossimo tornati ad Adam Smith e David Ricardo. Peggio, alle “armonie economiche” di Bastiat. Si è cominciato a privatizzare, si sono tagliate le piante organiche delle amministrazioni pubbliche, si sono riformate la sanità e le pensioni in modo da umiliare i malati e impoverire i pensionati. Sono tutte politiche dettate dalla volontà di spazzar via lo Stato dal processo economico, che però hanno generato una diminuzione della domanda, perché non esiste alcuna domanda interna o estera capace di soppiantare la minor domanda pubblica di beni e servizi. L’unica fiammata di (relativo) benessere la nostra economia lo ha conosciuto tra il 1995 e il 1996, quando si fecero finalmente sentire gli effetti della pesantissima svalutazione della lira attuata (a danno dei lavoratori, grazie alla disdetta della scala mobile) nel 1992. Ma da quando siamo entrati a far parte della banda ristretta di oscillazione che poi (dal 1999) porterà alla moneta unica, le nostre esportazioni sono crollate e con esse la domanda, il reddito e l’occupazione. Guarda i tassi di crescita del nostro Pil dal 1997 a oggi e scoprirai che la “decrescita” ce l’abbiamo in casa fin da prima che Latouche inondasse con la sua bibliografia gli scaffali delle librerie.
Quindi il “fiscal compact” non è una novità come sembra…
La modifica che è stata adesso apportata all’articolo 81 della Costituzione, che ha reso davvero stringente il vincolo del bilancio in pareggio, è assolutamente coerente con l’ingresso del nostro paese nell’Unione europea. L’attività dello Stato, ci dice l’Europa, è possibile solo in quanto non interferisce con l’iniziativa privata. Non c’è più alcuna politica economica possibile: non una politica fiscale (perché si devono solo ridurre le spese), non una politica monetaria (perché ci pensa la Banca centrale europea), non una politica industriale (perché ci pensa Marchionne). Si devono solo abbassare i salari, perché non sono compatibili con un sistema produttivo arretrato come il nostro, che campa ancora di agroalimentare, abbigliamento, arredo casa e un po’ di automazione meccanica. E dunque via alla balcanizzazione dei contratti nazionali in una miriade di contratti aziendali: a questo serve la modifica dell’articolo 18, sebbene molta parte del sindacato non se ne dia per inteso.
Ma non c’erano alternative possibili?
Quello che è più triste è dover constatare che anche quanti avrebbero dovuto denunciare e contrastare per tempo questa follia di ritornare allo Stato ottocentesco, allo Stato veilleur de nuit, hanno avuto un ruolo che possiamo definire di “agevolazione colposa”. Mi riferisco all’antistatalismo viscerale che ha ispirato ed ispira molta parte della cosiddetta “sinistra d’alternativa”, che nei vent’anni trascorsi anni ha coltivato e diffuso nelle generazioni più giovani una quantità impressionante di mitologie protese a ricercare improbabili “terze vie” tra privato e pubblico, tra capitale e Stato: prima era il “terzo settore”, adesso sono i “beni comuni” e in mezzo ci sono sempre le utopie regressive dell’“ecologismo radicale”. Sono i cascami dell’anarchismo, dell’autogestionarismo e dell’assemblearismo post-sessantottino e post-settantasettino, che – va da sé – hanno assai più mercato editoriale e visibilità massmediatica rispetto alle più classiche posizioni marxiane o keynesiane: in fondo, non fanno altro che ripetere che la via “pubblica” è sbagliata e comunque non è percorribile, dunque al capitale fanno molto comodo. Quando vedo le marce contro la privatizzazione dell’acqua (e va da sé, per l’“acqua bene comune”), sorrido e mi vien da pensare a una battuta di Flaiano, che più o meno diceva che quando in Italia si organizza un convegno sull’importanza del bovino vuol dire che i buoi sono scappati dalla stalla. “No alla privatizzazione dell’acqua”: bene. Ma dove eravate, vien fatto di dire, quando si privatizzavano le banche e le industrie? Ci siamo dimenticati che il grosso delle privatizzazioni si è fatto a partire dal 1996, quando Presidente del Consiglio era Romano Prodi e Rifondazione Comunista sosteneva il governo? O ci siamo dimenticati che il dibattito timidamente avviato da un centinaio di economisti e intellettuali, che nel 2006 avevano sostenuto la possibilità di stabilizzare il debito in rapporto al Pil, fu stroncato da Fausto Bertinotti in persona, che mise il veto alla stessa possibilità che Rifondazione potesse esprimersi in merito per non ostacolare l’ennesima manovra “lacrime e sangue” voluta dal compianto Tommaso Padoa-Schioppa? Oggi siamo alla conclusione di un processo avviatosi trent’anni fa: il “fiscal compact” approvato in sede europea di fatto rimuove qualunque idea di direzione pubblica dei processi economici per i prossimi cinquant’anni. Il fatto che ci sia una tremenda crisi economica in corso può forse offrire una qualche speranza che tutto il marchingegno salti. Ma se questo meccanismo salta, salta da destra: la sinistra, come scrisse ormai quasi dieci anni fa Luigi Pintor nel suo ultimo editoriale, è morta da un pezzo.
A proposito di crisi, come giudichi il protagonismo della Bce?
Il fatto che la banca centrale prometta di diventare prestatore di ultima istanza non risolve le contraddizioni del sistema capitalistico: su questo punto, Marx obiettò a Bagehot con considerazioni che mi paiono ancora decisive. Quel che si può dire con certezza è che, se l’Italia resterà nell’euro così com’è strutturato adesso, andremo incontro a un impoverimento progressivo e crescente: basti dire che per i prossimi vent’anni dovremo fare tagli di spesa per 45 miliardi all’anno…
Ma la giustificazione è che se il debito non diminuisce lo spread aumenta…
Questa è una delle più colossali mistificazioni spacciate per verità dalla borghesia dominante e dagli intellettuali suoi lacchè. Se l’andamento dello spread dipendesse dall’ammontare del debito pubblico, il divario tra i nostri titoli e quelli tedeschi dovrebbe essere superiore a quello che c’è fra quelli spagnoli e quelli tedeschi: la Spagna ha infatti un debito pubblico di molto inferiore al nostro. Invece non è così, e la ragione è che lo spread risente assai più dall’andamento della bilancia commerciale. In pratica, è come se i mercati scommettessero che i Paesi che si trovano con una bilancia commerciale in rosso saranno presto o tardi costretti o a svendere tutte le loro industrie ai tedeschi (o ad altri possibili compratori esteri) o a uscire dalla moneta unica e a ripudiare il debito in euro. Grecia, Portogallo, Spagna e Italia sono i Paesi maggiormente “indiziati” perché sono i Paesi con la struttura produttiva più debole. Sta qui – detto per inciso – la vera finalità delle manovre finanziarie cui ci sottopongono da vent’anni e da ultimo della stessa spending review: l’obiettivo è quello di deflazionare i consumi interni per abbattere il fabbisogno di importazioni e riportare in pareggio la bilancia commerciale. Funzionerà come funzionavano i salassi praticati dai cerusici ai malati di un tempo: terapie efficaci, ma solo perché uccidevano il paziente. Anche in Confindustria cominciano a sospettarlo.
ottima intervista che deve essere letta da quante più persone possibili in modo che sviluppino anticorpi tra i millantatori in quota pd e suoi servi che si professano "per i beni comuni" , quelliche fanno ingrassare le proprie cerchie. Legacoop in testa.
Estremamente interessante e doveroso l'approfondimento sul divorzio da Banca d'Italia per le conseguenze che i media e politicanti hanno OCCULTATO in maniera vigliacca e collaborazionista.
Davvero ben sviluppato, così come le puntualizzazioni sulle privatizzazioni degli "amati" governi tecnici, di solidarietà nazionale (e già l'uso di questo termine dovrebbe ben chiarire verso chi si reputano solidali)
ah dimenticavo. La possibilità che le industrie vengano svendute ai tedeschi. Beh dando uno sguardo agli acquirenti o azionisti di minoranza o maggioranza a seconda dei casi delle varie aziende italiane comprese, ma soprattutto le municipalizzate vedo molto capitale francese nonché americano. Si pensi a Veolià, Lactalis, Nestlé o alla Westing House che ha già Ansaldo in pugno.
Più che altro, mi sembrano i cosiddetti mercati a spingere per la svendita di Eni e Finmeccanica, lo hanno fatto ben comprendere e tali "mercati" hanno una manina tutta stelle e strisce….
Ottima intervista davvero.
Però la decrescita (di Latouche e di altri migliori di lui) é tutt' altra cosa!
Davvero ottimo questo articolo. Finalmente qualcuno che sappia scrivere di economia non ignorando nè storia nè politica.
"se questo meccanismo salta, salta da destra: la sinistra, come scrisse ormai quasi dieci anni fa Luigi Pintor nel suo ultimo editoriale, è morta da un pezzo."
Questo a confermare che il preteso superamento delle ideologie destra/sinistra è fuffa mediatica per anime semplici che non hanno ancora approfondito le analisi politiche. Occorre invece reinvestire nell'ideologia di sinistra, perchè così come il nazismo si sbarazzò del nazionalsocialismo (che chiedeva una "seconda rivoluzione") nella Notte dei lughi coltelli, la sinistra italiana si è sbarazzata dell'anima socialista grazie ai citati Prodi e Bertinotti. Scusate l'accostamento pericoloso. Dal fallimento dello Stato Sociale all'instaurazione della dittatura del partito unico il passo è breve, come i fatti dimostrano e parlano sempre la stessa lingua: accentrare le funzioni di potere per instaurare un'ideologia che ha la pretesa formale di scavalcare le ideologie che fino ad allora hegelianamente dialogavano e si scontravano.
@Tonguessy
A me sembra che la dicotomia destra/sinistra sia diventata soltanto una questione terminologica. La destra e la sinistra, così come erano concepite fino agli ultimi decenni del secolo scorso non esistono più. Sono due categorie che, volendo, potrebbero anche essere considerate universali e perenni; in tal senso possono essere usate anche per interpretare la storia dell’antico Egitto o dell’antica Roma e dunque anche la storia dei prossimi millenni. Ma, se sono nate per distinguere politiche legate alla dicotomia borghesia/proletariato otto-novecentesca, allora sono termini inutilizzabili, poiché quelle due classi sociali sono quasi estinte. I termini destra/sinistra, se s’intende ancora usarle, non hanno più quel significato, ma dovrebbero contenere il senso di nuovi scontri socio-politici, e indicare rispettivamente la classe globale liberista legata alla finanza parassitaria e antistatalista in conflitto con le forze-lavoro produttive radicate nei popoli-nazioni. Pertanto, se la dicotomia destra/sinistra la si storicizza, allora per evitare di confondere le idee, sarà bene non usare i due termini per interpretare il nuovo contesto storico a noi contemporaneo. Se invece s’intende “eternizzare” la dicotomia, allora si usino pure i due termini, ma con la piena coscienza che vogliono indicare tutt’altro dai conflitti socio-politici del secolo scorso.
Io credo che ancora ci sia un conflitto tra capitale e lavoro. Ma non basta dirsi favorevoli al lavoro per essere di sinstra e al capitale per essere di destra. Infatti coloro che si sono dichiarati favorevoli al capitale sono stati sempre pochi; e coloro che hanno votato partiti (come la DC) che hanno introdotto una grande tutela sociale e hanno tutelato il lavoro come storicamente è accaduto in pochi stati del mondo si sono sempre dichiarati di centro. Non solo. Da chi si ispirava alla dittatura del proletariato erano senz'altro considerati di destra.
Inoltre, perduta la prospettiva della dittatura del proletariato, il proletariato vuole che esista (anche) il capitale produttivo (altrimenti che vuole?). Quindi bisogna distinguere tra capitale e capitale. E siccome la liberazione del lavoratore subordinato consiste nel divenire lavoratore autonomo e commerciante (piccolo autonomo), anche la tutela di queste figure, come obiettivi del lavoratore subordinato e sue forme di liberazione vanno tutelate. Infine, ma sto esemplificando, la rendita va combattuta. Ma non sono pochi coloro che, di umili origini e svolgendo lavori umili e manuali, hanno accumulato una certa ricchezza finanziaria (ho trattato professionalmente una successione di un vecchio operaio con moglie casalinga che ha lasciato 300000 euro e quattro appartamenti) o che hanno fatto laureare tre o quattro figli, i quali, con lavoro da quadro hanno accumulato un po' di risparmio. Persuadere tutti i detentori di risparmio che il risparmio a poco a poco si deve svalutare, come accadeva tra il 1945 e il 1980 è più difficile di allora, quando i detentori di risparmio erano pochissimi (avete notato come tutti pretendano di escludere i depositi in banca dalle fonti di rendite che dovrebbero essere tassate?). Quindi, già a livello economico, il socialismo diventà sempre più complesso e alla fine non può avere altra forma che una corporativa, già prefigurata nella nostra costituzione economica (Fanfani che l'ha scritta aveva scritto tre anni prima un trattato sul corporativismo!).
Il problema è che alcuni temi come l'indipendenza come popolo dalla potenza dominante non è di sinistra o di destra o di centro. Ad alcuni socialisti non frega assolutamente niente di essere indipendenti culturalmente e non sacrificherebbero un minimo di reddito o di diritti sociali per far parte di un popolo più indipendente. Non solo. Quando si trattasse di rischiare, di divenire come l'Iran, di divenire uno stato la cui indipendenza è minacciata da una guerra, non è detto che la volontà di andare avanti e di rischiare un'aggressione sia più forte nei socialisti socialisti, anziché in socialisti corporativi.
D'altra parte, in molti luoghi della terra, i laici e repubblicani alla francese sono per la globalizzazione come e più degli islamisti tradizionalisti (Egitto e Tunisia, per esempio).
Insomma laicità e progressismo contro confessionalismo e tradizionalismo; sovranità e indipendenza contro disinteresse per la partecipazione a un popolo che sovranamente decide il proprio destino e costruisce la propria civiltà e schieramento a favore del lavoro e del capitale pubblico e vincolato in un luogo contro le rendite e il capitale liberamente circolante non sempre vanno di pari passo.
L'emblema è costituito dagli stranieri o dagli zingari: più scendi tra i ceti sociali che vivono a contatto con gli stranieri e più avverti il desiderio di una qualche disciplina del fenomeno e odio per gli zingari; più sali nella scala sociale e più scompare l'odio per gli zingari e la volontà di disciplinare o limitare il fenomeno degli stranieri.
Perciò, non credo che "sinistra" possa indicare una sintesi di prese di posizione sui diversi contrasti. Già è tanto riuscire a rivalutare la parola socialismo, che ha un contenuto più determinato, sapendo che si troverà l'accordo su un nucleo e poi attorno ad esso si costruiranno diverse posizioni teoriche, anche in ragione degli altri temi segnalati
"La classe capitalista senza confini nazionali di cui parlo si presenta dunque come una realtà che opera a scala globale tanto sul piano materiale che su quello ideologico. Questo processo di integrazione in un'unica classe universale…appare ben lontano dal realizzarsi tra le sconfinate file dei perdenti"
Luciano Gallino "la lotta di classe dopo la lotta di classe"
Quindi il problema, se vogliamo storicizzare la questione, è che se la dicotomia destra/sinistra è cosa dei secoli scorsi, esiste comunque un'insanabile ed irrisolta disparità di accesso alle risorse. Tipica delle società stanziali, se vogliamo, quindi esistente ben prima che Marx analizzasse le società industriali. All'epoca dei faraoni non esisteva nè destra nè sinistra, ma il problema non era differente se parliamo di accesso alle risorse. Gallino parla di vincenti contro perdenti. Cambia qualcosa?
Il fatto poi che si definisca il proletariato e la borghesia come classi sociali quasi estinte, date un'occhiata (se l'esempio italiano con i Marchionne da una parte ed i suoi operai dall'altra) alla Cina, con l'impegno scritto del PCC a creare un classe media (borghese) di 400 milioni, contro gli imprecisati milioni (miliardi?) di lavoratori senza diritti come quelli della Foxxcon. Ed il mercato del lusso che va come mai prima.
Insomma possiamo chiamare questa disparità di accesso alle risorse vincenti contro perdenti invece che destra contro sinistra. Fa comodo, è politically correct perchè non offende la memoria delle schifezze che la destra ha fatto e sta facendo, prima tra tutte l'ideologia e la prassi neocon e relativi think tank dai Chicago boys al PNAC (Allende docet).
Facendo un salto sul socialismo di stampo fascista (se questo è il socialismo corporativo di cui si parla) ricordiamoci le alleanze con il dominatore e sterminatore nazista, e dimentichiamoci i proclami populisti che attirano le falene di notte.
No. Il socialismo corporativista è quello della Costituzione italiana. E' un socialismo che prevede anche l'iniziativa privata; che non la esclude nemmeno nei settori strategici e nelle banche ma lascia allo stato il potere di dirigere e programmare; che "promuove l'artigianato", come forma di liberazione del lavoro subordinato, evidentemente; che promuove la piccola proprietà rurale; che prevede gli ordini professionali; che assegna alla Repubblica il potere di coordinare e indirizzare, mediante programmazione l'iniziativa pubblica e privata. Certo, le formule costituzionali sono molto simili a quelle contenute nella famosa lettera ai compagni in camicia nera scritta dai dirigenti comunisti nel 1936 e, mi diceva una volta Moreno Pasquinelli, alla costituzione della Repubblica sociale (non ho mai letto nemmeno una riga di questa fantomatica costituzione, che addirittura sarebbe più avanzata). Ma chi se ne frega. A me interessano i contenuti. Quindi il fatto che la costituzione economica, che io ammiro, fu scritta soprattutto da Fanfani – che aveva scritto un trattato sul corporativismo (e aveva firmato il manifesto della razza come tutti i giovani fascisti cattolici: se non erro anche Moro e Franceschini; compreso il giudice Gaetano Azzariti, che fu anche presidente del tribunale della razza e poi capo di gabinetto di Togliatti, al ministero di grazia e giustizia e quindi straordinario giudice costituzionale. La storia la raccontano sempre i vincitori Tonguessy: sempre. E sempre significa sempre, senza eccezioni) – e fu applicata soprattutto da Fanfani – che come capo della sinistra democristiana fino alla metà degli anni settanta fu autore o sostenitore di tutte le riforme sociali più importanti, nonché dell'apertura prima al psi e poi al pci – è per me irrilevante ed è anzi ragione per andare a ristudiare questa importante figura politica italiana.
Ma Fanfani negli anni settanta fu definito fascista, perché scelse, contro il parere di quasi tutta la DC, di guidare le battaglie contro il divorzio e la legalizzazione dell'aborto (la DC reputava, a ragione, quelle battaglie perdenti). Quindi i democristiani che tolleravano le riforme sociali e stavano nel partito per ragioni di potere e in fondo non si oppponevano nemmeno a divorzio e legalizzazione dell'aborto non erano fascisti ,ma di centro. Mentre Fanfani era fascista! Lo riusciamo a capire che a un certo punto il concetto di sinistra, di matrice liberale, si è venuto a sovrapporre al concetto di socialismo? Lo riusciamo a capire che non in tutte le persone le due cose vanno a braccetto? Vogliamo prendere atto che moltissime lettere dei condannati a morte della resistenza scritte da comunisti sono chiaramente scritte da uomini pii – basta leggerle – che negli ultimi momenti della vita si rivolgevano al signore e alla madonna e che quindi il famoso art. 7 della costituzione fu si un tradimento secondo il risorgimentale Concetto Marchesi (e secondo calamandrei e gli azionisti) ma stava pienamente in linea con il carattere popolare e religioso di gran parte del popolo comunista?
Ecco io dico che sinistra è una parola ambigua. Posto che Tizio è socialista 10 e Caio 9 (immagina di reputare che Tizio a tuo avviso sia più socialista di Caio) ma Tizio è contrario alle unioni civili, ti chiedo: chi è più socialista? Chi è più di sinistra? Tu che come me sei favorevole alle unioni civili, ti alleresti con il socialista o con quello di sinistra? Sei più socialista o sei più di sinistra? Io sono prima socialista; poi statalista; poi umanista, poi antimoderno e poi di sinistra. Perciò reputo la distinzione sinistra/destra non tanto superata ma secondaria. Non credo che debba dominare l'asse politico che mi auguro si affermi in luogo di quello che ha dominato.
Al contrario, la parola socialista deve risorgere e divenire decisiva
Ancora una volta si ritorna al solito tema destra/sinistra.
Tonguessy continua a citare i neocon e i Chicago Boys come campioni della destra ma questa è una sua opinione. Per me è invece evidente che l’ideologia liberale e quindi liberista si afferma con l’illuminismo e l’avvento al potere della borghesia, con la relativa filosofia mercantilistica.
Quindi le mie radici culturali( esplicitamente dichiarate) di destra tradizionalista cattolica – coerentemente anti illuminista – mi fanno per converso pensare che i neocon e affini siano di sinistra.
E qui si dimostra che è il punto di osservazione del fenomeno che ne determina la posizione, non tanto la sua collocazione fisica, storica ed ideologica.
Io leggo l’intervista a Cavallaro e ne condivido i contenuti perché li ritengo veri e giusti, così come spesso mi capita di condividere articoli di Blondet o di Preve, a prescindere da considerazioni destra/sinistra e sempre più mi convinco che destra/sinistra sia una trappola micidiale che il Potere sa come usare per il divide ed impera.
Una considerazione là dove dice “l’obiettivo è quello di deflazionare i consumi interni per abbattere il fabbisogno di importazioni e riportare in pareggio la bilancia commerciale.” penso che sia altrettanto importante sottolineare che la deflazione salariale è perseguita ( immigrazione indiscriminata, precarietà, disoccupazione ) per riequilibrare la competitività nel mercato globale senza erodere i margini del capitale.
Ciao, Emilio.
Caro Stefano,
non penso che su quanto esponi siamo in disaccordo. E' verissimo che è difficile (se non impossibile) capire cosa sia la sinistra oggi e quindi chiedermi se sono più socialista o di sinistra mi vede sufficientemente agnostico da non capire la domanda.
In compenso si sa benissimo cosa sia la destra e come specifici aspetti (come i programmi politici ed economici dei già citati Chicago Boys e PNAC) siano ormai entrati nel bagaglio di supposta (!) sinistra.
La migliore destra è quindi meglio della peggiore sinistra? Altra domanda che mi vede agnostico, dato che mancano le coordinate per capire cosa si intenda per sinistra oggi. Il che rappresenta una notevole vittoria della destra.
@Emilio:
dato che i neocon sono di sinistra, com'è che presero di mira Allende? Fatti una ricerca "CHICAGO BOYS ALLENDE" su google e vedi chi condivide le tue strambe opinioni. Alle volte scendere dalla luna non guasta, permette di capirci.
Privatizzare le industrie pubbliche, smantellare lo stato sociale (favorendo la nascita di un sistema pensionistico e sanitario privato), attrarre capitale straniero queste sono le ricette dei Chicago boys nel Cile di Pinochet. Cosa ci sarebbe di sinistra in tutto questo? Cosa condivide con le politiche di Allende?
@ Tonguessy
Ho scritto dell’origine filosofica e dell’affermazione storica del liberismo e ho puntualizzato il mio punto di osservazione ed in base a questi presupposti ho affermato che i Neocon e i Chicago Boys sono di sinistra. Infatti, nel 1789, dove si sarebbero seduti?
E questo è stato il mio modo di esplicitare, una volta di più, che concetti quali sinistra/destra non sono assoluti e quindi non dovrebbero costituire un discrimine fra giusto e sbagliato, vero e falso.
Ribadisco come la penso in proposito :
La mia opinione è che, in realtà, nessuno autenticamente al servizio della politica ( amministrazione per il bene di tutti ) possa aprioristicamente definirsi di destra o di sinistra in modo assoluto e definitivo.
E’ di destra o di sinistra secondo i tempi, i luoghi, le circostanze e le diverse realtà con cui ha a che fare.
In ultima analisi, le nozioni di destra e di sinistra hanno un’importanza molto relativa e ciò che è capitale è realizzare una sintesi vitale dei diversi elementi ( libertà e autorità, eguaglianza e gerarchia, iniziativa economica libera e utilità sociale, proprietà privata e sua funzione sociale ) che le due opposte ideologie ricoprono.
Restare invece ingabbiati nella famigerata dicotomia, comporta il pericolo – per me la certezza – di fare scelte pregiudizialmente ideologiche, non misurate sulla realtà, oltre che offrire al nemico l’opportunità di dividere gli oppositori.
Saluti, Emilio.
Caro Emilio,
la confusione di far esistere i Chicago Boys nel 1789 e non nel tempo che compete loro mi fa pensare che se mio nonno fosse nato con una ruota adesso sarei una carriola. Ovviamente non è con questi non sequitur che si costruisce la Storia. Ai tempi dei faraoni i Chicago boys dove li avresti collocati? Milton Friedman consigliere personale di Tutankamon? Karl Marx che organizzava le rivolte degli schiavi? Fantapolitica nata da pessime ed inutili astrazioni.
Quello che tentavo di dire è che l'idea secondo cui bisogna scavalcare l'antica (ma non risalente ai tempi di Tutankamon nè alla Rivoluzione Francese, e questo già qualcosa significa…) dicotomia destra/sinistra è essa stessa ideologia.
Quindi possiamo aderire a quelle vecchie (per modo di dire..) ideologie oppure aderire a quella "moderna" fatta su misura per il "nuovo che avanza" (ovvero i tempi postmoderni) che non prevede conflitti nè dialogo grazie al Partito Unico, detentore dell'Ideologia Unica. Che guarda caso è di destra, dato che in tempi non sospetti (come denunciato nell'articolo da Pintor) la Sinistra è implosa senza lasciare tracce di sè.
Personalmente credo che sia necessario innalzare il livello di consapevolezza su queste dinamiche sociali per evitare che, come giustamente sottolineava Gallino, la classe dei perdenti (in contrapposizione a quella ben organizzata e belligerante dei vincenti) continui ad essere disorganizzata e quindi facile preda. In tale senso la tua chiusa mi trova perfettamente d'accordo. E' sulla filosofia e filologia del metodo che mi trovi in disaccordo. Sicuramente perchè, a prescindere dal nostro impegno, ognuno si sente di onorare la propria storia personale. Non solo io, intendo.
Per me in un mondo spersonalizzato e parcellizzato la storia personale è ancora un valore, perchè ci ricorda chi siamo e da dove veniamo. Il tessuto relazionale e quindi il senso di appartenenza non può essere liquidato nel nome di una dicotomia da superare nel nome del progetto imperante unico.
Ci può essere l'incontro tra tessuti diversi, non l'abbandono di un tessuto per adempiere ad un non meglio identificato obbligo. Da anarchico non riconosco obblighi se non quelli che la mia coscienza mi detta.
Caro Stefano,
Questo articolo conferma la mia impressione che la politica economica in Italia da molti anni sia stata condotta in modo demenziale e forse … peggio.
La decisione di procedere al divorzio fra Stato e Banca d’Italia può, secondo me, essere paragonata alla decisione di praticare un foro nel serbatoio dell’automobile, così ogni qualche chilometro si deve aggiungere benzina per evitare che il serbatoio si vuoti.
Ancora adesso, dopo più di quarant’anni non si capisce che l’unico modo per uscire da questa situazione è chiudere il foro e si prevede per il futuro di continuare così, con tagli di 45 miliardi l’anno sulla pelle dei soliti noti.
Le mie conoscenze in economia sono scarse e non so se è possibile ritornare ad una situazione simile a quella precedente al 1966, però secondo me un rimedio potrebbe essere il prestito forzoso.
Tu ne tratti in un articolo (ed è questa chiave di ricerca che mi ha permesso di scoprire le tue pagine).
Questo prestito però secondo me dovrebbe essere senza interessi e non dovrebbe gravare solo sulle grandi ricchezze ma anche sui redditi superiori al “minimo indispensabile” …. diciamo, in linea di massima … il 30% del reddito netto famigliare superiore ai 2500 euro o del reddito netto individuale superiore ai 1500 euro ed alimentare un fondo “blindato” e dedicato all’acquisto di titoli di stato allo 0% di interesse.
Io e mia moglie abbiamo avuto la “fortuna” di lavorare a lungo, con soddisfazione e con buone retribuzioni ed ora siamo da sei anni in pensione. Complessivamente le nostre pensioni superano i 4000 euro al mese.
Se prima della crisi eravamo convinti che era nostro diritto godere del meritato riposo in condizioni decorose, ora, ci sentiamo ingiustamente privilegiati e saremmo felici se potessimo collaborare a costruire il futuro delle giovani generazioni secondo un piano generale che non richieda un aggravio della tassazione.
So che queste idee susciteranno l’ilarità di molti ma vorrei chiedere a te che sei paziente e premuroso …. perché l’opzione del prestito forzoso non viene presa in considerazione da politici ed economisti?
Gianni,
l'idea del prestito forzoso ha una apparente ragion d'essere nella situazione in cui ci troviamo – ossia nell'unione europea, con l'euro, ecc. – dove altri suggerimenti che venivano dati in quei giorni di inizio governo Monti non possono essere presi per mancanza del presupposto dellasovranità.
Tuttavia la ragion d'essere è effettivamente soltanto apparente, perché chi si disinteressa del giudizio dei mercati al punto da ricorrere a un prestito forzoso, allora è capace anche di volere la mancanza di autonomia della banca d'italia, i vincoli di portafoglio delle banche commerciali e vincoli alla circolazione dei capitali. Tre discipline che un tempo ricorrevano e che hanno fatto sì che dal 1945 al 1980 (ossia al divorzio) i tassi d'interesse reali (ossia non nominali ma depurati dall'inflazione) siano stati SEMPRE negativi, ossia inferiori all'inflazione (se l'inflazione era 12 i buoni a un anno rendevano 11 o 10,5). Poi il sistema è divenuto un sistema che tutela i rentiers e i tassi sono stati SEMPRE positivi. Oggi si torna a parlare di "repressione finanziaria", un'espressione brutta che indica i tassi di interesse reali negativi, come mezzo per eliminare lentamente (ma nemmeno tanto) il debito pubblico. La prospettiva è di nuovo erronea. Non è per risolvere la crisi che bisogna ricorrere alla repressione finanziaria. Quest'ultima è il giusto regime, conforme a costituzione. Ma di ciò dirò dettagliatamente in un prossimo articolo.
Perciò la mia andava presa come una provocazione, come, se ben ricordo, emergeva dall'ultima frase del mio articolo.
Aggiungo che non so nemmeno se il provvedimento sarebbe valutaato legittimo dalla Corte di Giustizia europea. Il bello di questa situazione è che ogni volta che viene in mente un possibile provvedimento di politica economica, devi andarti a studiare la giurisprudenza della corte di giustizia per verificare se lo considererebbe contrastante o meno con i trattati europei. Davvero un assurdo.
Comunque, tornando a noi, il prestito un tempo era indirizzato e era a meno di zero: se acquistavi 100 milioni di lire di titoli del debito pubblico, dopo un anno ne ritrovavi 112, che tuttavia valevano 99. Tutto sommato il risparmio era tutelato, come prevede la costituzione; l'investimento era incentivato e in definitiva ci guadagnava il lavoro.