Il trentennio
Giampiero Marano
1. In Italia l’agonia della Western Civilization, clamorosamente preannunciata dai
due conflitti mondiali, manifesta i sintomi conclusivi, in successione
tambureggiante, tra la metà dei Settanta e i primi Ottanta. Nel volgere di
pochi anni la vittoria del no ai referendum sul divorzio e sull’aborto e
la “marcia dei quarantamila” decretano ufficialmente l’avvenuta, catastrofica
eclissi della cultura cristiano-contadina e la dissoluzione del proletariato,
quest’ultima riflesso diretto, spiega Hobsbawm (1), del neoliberismo e
dell’innovazione tecnologica. Fino a quel momento le due grandi religioni nazional-popolari, la cattolica e la marxista, avevano favorito e difeso l’instaurarsi di forti solidarietà transpersonali, nonostante gli evidenti limiti delle strutture patriarcali su cui si reggevano, e avevano scandito ogni attimo dell’esistenza individuale colmandolo di significato: si può sostenere lo stesso dell’ideologia, non meno autoritaria e verticistica, che, egemone nel ciclo storico immediatamente successivo, ha firmato la sconfitta irreversibile di queste fedi? Lontano dal propiziare una svolta effettivamente emancipatrice a paragone di un (reale o presunto) passato buio e inerte, l’avvento dell’Azienda Italia, perché, in breve, è di questo che si tratta, ha sancito l’apoteosi del nuovo e a tutt’oggi vincente fascismo dell’efficienza e della modernizzazione. Forse aveva davvero previsto tutto l’ex Venerabile, quando in alcuni versi, mediocri quanto raccapriccianti (se letti, almeno, nella prospettiva che qui interessa cogliere), tirava le somme di una carriera lunga e travagliata ma prodiga di successi: “Quante foglie morte / sul mio cammino, quanti / sogni infranti, / quanti amori, / quanti morti, / eppure io cammino / verso il verde / di una promessa primavera” (2). Fa riflettere che il Piano di rinascita democratica, redatto giusto intorno alla metà degli anni Settanta, escludesse espressamente, e non certo per scrupoli legalisti, “ogni movente od intenzione anche occulta di rovesciamento del sistema”: perché mettersi a forzare manu militari una situazione di fatto già così propizia? Per portare a compimento il magnum opus piduista, in un paese ormai avviato sulla via della “libertà” e del “progresso civile” (cito testualmente), bastavano poche mosse, relativamente semplici e discrete: per esempio una spallata agli ultimi, arcaici residuati di collettivismo compendiati simbolicamente dalla televisione di Stato, come avverrà presto, e più in generale “un’azione politica pragmatistica”, fondata sulla “rinuncia alle consuete e fruste chiavi ideologiche”, da inscriversi con fedeltà nel paradigma atlantico, a imitazione di “modelli” come la Gran Bretagna, la Francia, la Germania, gli USA (si veda il decisivo paragrafo sui Provvedimenti economico sociali). Che il nuovo regime esibisca un volto soft e permissivo, che faccia dell’impegno democratico e umanitario la sua ipocrita bandiera, che goda di un inaudito ma sottilmente coartato assenso plebiscitario, tutto ciò non ne muta la sostanza totalitaria. Ogni cosa viene tollerata, in politica, religione, società, letteratura, purché esponga ben visibile il proprio certificato di morte, mentre il vitalismo convulsivo, tratto così peculiare della Comunicazione, è solo l’altra faccia della medaglia: l’avanzata del deserto, il vuoto creato dalla modernizzazione sarebbe, come osserva Pezzella, qualcosa di “intollerabile e potenzialmente eversivo, se (…) non fosse riempito dalla produzione forsennata di spettacolo, di simulazioni, di apparenze” (3).
2. Al cospetto dell’immane potenza anestetica di cui è dotata la tanatocrazia di fine Novecento, il letterato italiano postmoderno conferma un’irresistibile vocazione cortigiana, attestandosi disciplinatamente dentro i confini di un’innocua medietas intimistica che, a questo punto, ha più di una buona ragione per chiedersi se bisogna vivere con i vivi o con i morti. Ma indietreggiano senza colpo ferire anche le forze antagoniste che premono per violare il canone cercando di perforarne il bozzolo verso il basso o verso l’alto. E’ fin troppo facile per un Sanguineti, la testa prudentemente occultata sotto rassicuranti sabbie dialettiche, ironizzare, siamo nel 1977, sulla metamorfosi della società italiana: “non ho capito (…) chi sono i nuovi agricoltori, protagonisti della nuova rivoluzione culturale, cioè antropologica, che hanno già abbandonato la caccia” (4); è lo stesso atteggiamento che più tardi, al tempo della rivolta di Seattle, lo porterà a dettare, ovviamente in nome dell’”autentica rivoluzione comunista” (il cui inveramento non andrebbe dato per scontato, essendo la Storia vicenda di lotte di classe dagli esiti non necessari né prevedibili), un’apologia del liberalismo in tutto degna dei Chicago Boys: “Il terzo stato non era niente. Volle essere qualche cosa, e fu davvero tutto. Ce l’ha fatta, per ora, in questa sua gigantesca impresa. E oggi possiamo vedere che questo era bene, che è bene” (5). Se il materialismo storico offre approdi confortevoli agli scribi della Palus putredinis terrestre, neppure l’orfismo del “cielo” (il niebo polacco che, sempre nel 1977, intitolava la rivista di De Angelis) riesce a spezzare l’incantesimo della cameretta petrarchesca. La denuncia della Krisis non si risolve nell’effettivo superamento della soggettività ma genera una curiosa allucinazione gnoseologica, il celebre “decentramento dell’io”. Senza voler fare del determinismo sociologico spicciolo, è però legittimo ravvisare in questo gioco di prestigio il corrispettivo poetico della transizione dalla modernità solida a quella liquida, che Carifi registra a suo modo traducendo nel tipico gergo allegorizzante degli orfici: “C’è un viaggio errante, nomade come il desiderio in questa notte di abitatori del tempo. Corse di un cavallo azzurro nella steppa fiorita ai margini della Città dove si fa commercio della parola e si uccide la sua forza poetica: la sua capacità di sottrarsi al principio di equivalenza e donare l’estasi di un godimento dispendioso, di un’alterità impronunciabile e differente” (6). A dispetto di pose anarcoidi e ribellismi psicotropi, i nuovi poeti hanno puntualmente introiettato le rigide tautologie che presiedono alla divisione del lavoro a maggior ragione in piena fase di capitalismo avanzato: la letteratura è la letteratura, gli uomini sono gli uomini (e naturalmente i due piani non devono mai interferire, pena l’abominevole caduta nell’”impegno”: se non è Realpolitik questa!). Mentre nei vecchi si lascia ancora percepire quella che in altre epoche sarebbe stata chiamata una passione civile capace di trasgredire i confini dell’estetico, i giovani in esodo dalla Città non fanno che dichiarare la propria subalternità nei riguardi dell’odiata tecnocrazia (7): uno scacco per chi non ha mai dissimulato fiorite e palingenetiche ambizioni di riforma della civiltà…
3. Sulla via di una non più differibile abolizione della modernità, la scoperta di Semerano, secondo cui la parola Italia deriva da un’arcaica radice semitica che significa “Occidente” (8), è lì a ricordare che l’Italia si definisce rispetto a uno sguardo orientale, non è nulla senza l’Oriente. Ma esattamente questa relazione con un Est fino a ieri rappresentato da Atene, Gerusalemme o Mosca, è ciò che l’ultimo trentennio ha troncato con violenza inaudita. Rifiutare un’ideologia in perenne e dogmatica adorazione davanti ai grandi poteri borghesi del Nord del pianeta, che d’altronde l’hanno allevata con cura e massicciamente esportata, è l’essenziale premessa all’ibridazione sincretistica con gli “orienti”, oltre a quello stricto sensu, ormai emigrati da noi: l’Africa, l’Europa ex-ortodossa, l’America latina. Mondi che ancora ospitano coralità insorgenti da opporre nettamente all’istinto dell’arcobaleno, alla macchina di morte della Comunicazione.
NOTE:
1) Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, trad. it., BUR, 2004, p. 362.
2) Licio Gelli, Riccioli d’oro nel vento. Poesie, Giuseppe Laterza, 1996, p.11.
3) Mario Pezzella, Narcisismo e società dello spettacolo, manifestolibri, 1996, p. 106.
4) Edoardo Sanguineti, Giornalino secondo. 1976-1977, Einaudi, 1979, p. 208.
5) Edoardo Sanguineti, Il chierico organico. Scritture e intellettuali, a cura di E. Risso, Feltrinelli, 2000, pp. 310-11.
6) Roberto Carifi, Il gesto di Callicle. Saggio sulla nuova poesia, Società di Poesia, 1982, p. 9.
7) Per un istruttivo confronto tra i “vecchi” e i “nuovi” rimando agli incontri con la poesia italiana contemporanea che, organizzati nelle scuole della provincia di Parma fra il dicembre 1979 e il gennaio 1980, ebbero come protagonisti poeti di tre diverse generazioni: Bertolucci, Sereni, Zanzotto, Porta, Conte e Cucchi. I testi degli incontri furono raccolti a cura di G. Massini e B. Rivalta e pubblicati con il titolo Sulla poesia. Conversazioni nelle scuole da Pratiche Editrice nel 1981.
8) Si veda p. es. Giovanni Semerano, Il popolo che sconfisse la morte. Gli Etruschi e la loro lingua, Bruno Mondadori, 2003, p. 59.
L'articolo inizia in modo promettente ma affonda presto nella verbosità più stucchevole, con questa semantica da addetto ai lavori a metà strada fra l'altezzoso e l'ammiccante.