L’eccezione e la regola
Marino Badiale Il mainstream
Segnalo una interessante discussione che potete trovare nel sito di Appello al popolo. La discussione parte da una intervista a Moreno Pasquinelli e prosegue con un paio di commenti ad essa da parte di “Correttore di Bozzi”, la risposta a questi commenti, e un intervento di Fiorenzo Fraioli (“ecodellarete”). Trovate tutto nel link sopra indicato. La discussione è interessante perché tutte le persone coinvolte condividono la critica a euro e UE e la necessità per l'Italia di uscire da entrambe. Si dividono sulle prospettive da dare a questa uscita. Fraioli ha ben riassunto, mi sembra, il punto del contrasto parlando di posizioni “rivoluzionarie” contrapposte a posizioni “riformiste”, con Pasquinelli nel ruolo del rivoluzionario e lui e “Correttore di Bozzi” in quello dei riformisti. Mi permetto di commentare questo dibattito perché esso tocca un punto che secondo me è molto importante.
Le osservazioni che seguono sono stimolate da questa discussione ma non fanno riferimento specifico alle tesi in essa sostenute; intendo piuttosto sollevare un problema generale che mi sembra fondamentale. Si tratta del fatto che nella situazione attuale, a mio avviso, non c'è spazio né per le posizioni “rivoluzionarie” né per quelle “riformiste”, almeno nel significato che queste parole hanno avuto nel Novecento. Non spendo molte parole sulle posizioni “rivoluzionarie”: in sostanza mi sembra che esse nascondano la mancanza di una prospettiva chiara dietro ad alcune parole, quali “socialismo” o “comunismo”, delle quali è difficile indicare oggi un significato che sia insieme comprensibile e accettabile per quelle masse popolari alle quali i rivoluzionari si rivolgono. Detto altrimenti, quando qualcuno oggi parla di “socialismo” o “comunismo” il più delle volte non si capisce di cosa stia parlando, e le poche volte in cui lo si capisce, il fatto di capirlo fa scappare via tutti o quasi.
Più interessante mi sembra la discussione sul tipo di “riformismo” che potrebbe essere accoppiato alla critica di euro e UE. E' chiaro che si tratta di una posizione intellettualmente seria e coraggiosa, ben diversa da quella di chi crede che sia possibile una politica autenticamente riformista accettando però tutti i vincoli della (cosiddetta) globalizzazione, nonché euro e UE. Nella situazione data da questi vincoli, il “riformismo” è semplicemente impossibile. Il fatto che oggi la parola “riformismo” sia così diffusa, e si pretendano “riformiste” forze politiche e sociali che accettano i vincoli della globalizzazione e dell'euro, è solo un esempio di ipocrisia e di uso “orwelliano” delle parole. Un tale “riformismo” è infatti l'esatto contrario di ciò che è stato indicato con questo termine nel Novecento: è la politica di chi diminuisce le prestazioni pensionistiche, toglie diritti al lavoro, attacca il Welfare State, distrugge la scuola pubblica. Su questo tema ho scritto in “La sinistra rivelata”, e consiglio anche la lettura de “Il riformismo e il suo rovescio”, di Paolo Favilli, ed. Franco Angeli.
Al contrario, chi mette assieme la parola d'ordine dell'uscita dall'euro con un'impostazione generale di tipo riformista, nel senso classico del termine, fa una proposta sensata e mostra di conoscere il significato delle parole che usa. Resta però il problema di capire se proposte di questo tipo rappresentino una risposta ai nostri problemi attuali. E' questo il punto fondamentale che andrebbe approfondito: è possibile oggi pensare di ripetere le politiche riformiste, socialdemocratiche, keynesiane tipiche del “trentennio dorato” seguito alla fine della Seconda Guerra Mondiale? E il tentativo di rispondere a questa domanda ne porta ovviamente un'altra: cos'è successo esattamente negli anni Settanta, negli anni cioè in cui finisce il “trentennio dorato”?
E' chiaro il problema: se la fine delle politiche riformiste, che data appunto dagli anni Settanta, è dovuta a una particolarissima congiuntura ormai lontana, allora si può pensare di riprendere quel tipo di politiche. La crisi attuale dimostra infatti a sufficienza l'insostenibilità, sia sul piano pratico sia su quello teorico, del neoliberismo che ha spodestato il riformismo keynesiano.
Ma se invece quello che è successo negli anni Settanta è l'esaurimento di un ciclo, il venir meno di condizioni particolari che hanno reso possibile il “trentennio dorato”, allora il “neoliberismo” dei trent'anni successivi appare come una risposta alla crisi di un modello, e la proposta di tornare alle politiche economiche del riformismo keynesiano sembra cozzare contro l'obiezione che per esse mancano le basi oggettive.
Per dirla in modo un po' astratto, la questione è se il trentennio di sviluppo riformista-keynesiano rappresenti, per il capitalismo, l'eccezione o la regola (una regola magari osteggiata dai ceti dominanti, ma alla quale si potrebbe ritornare adottando le giuste politiche). La risposta che si dà a questa domanda, come si diceva sopra, condiziona le proposte di uscita dalla crisi attuale, e indubbiamente riecheggia l'opposizione classica rivoluzione/riforme: chi ritiene che il “trentennio dorato” sia un modello al quale si può ritornare, si situa nella posizione che fu del riformismo classico, chi ritiene che quel periodo rappresenti un'eccezione, e la “normalità” del capitalismo sia quella che viviamo oggi, occupa la posizione del “rivoluzionario”.
Personalmente tendo verso questa seconda opinione, che ho cercato di argomentare in un testo scritto con Massimo Bontempelli.
E ritengo che la proposta della decrescita sia appunto una proposta rivoluzionaria, in grado però di salvare quanto di valido vi è stato nel riformismo classico del Novecento.
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